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Autore: mymartuzza    06/04/2015    1 recensioni
Può un errore diventare una gioia? Un dolore una speranza?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Calcio, calcio.
Questi avevano fatto proprio male. Tre settimane, solo tre settimane da sopportare e poi quell’immenso fardello sarebbe scomparso. Però ancora non riuscivo a immaginarmi senza. Niente nausee la notte. Niente dolori alle ossa. Niente calci. E soprattutto niente pancione ingombrante.
Mi bloccai. Otto mesi. Erano passati otto mesi e mi stavo per liberare del bambino. C’era qualcosa di sbagliato in quella frase.
Non potevo darlo via così.
Certo che puoi. Non fare l’idiota, come potresti crescere da sola un bambino senza avere un lavoro o un marito che ti aiuti? Sì, questo sì che faceva male, più dei colpi del piccolo. Ricordare. André. Com’era felice prima di dargli la notizia. Come la sua voce esprimesse gioia nel comunicargliela. E come lui l’aveva cacciata dopo un minuto di silenzio. Non le aveva creduto: pensava di essere sterile e che il bambino fosse di qualcun altro; a niente erano servite le sue lacrime, le sue suppliche. L’aveva cacciata fuori di casa sbattendogli la porta in faccia.
E ora non le rimaneva niente. Aveva pensato subito all’aborto, uccidere il bambino prima ancora che misurasse dieci centimetri. Era andata di mattina presto davanti alla clinica, pronta a convincere gli infermieri affinché le facessero un appuntamento gratis, visto che non aveva soldi. Di chiederli alla sua famiglia era da escludere: provenivano da un ambiente rurale, dove la tradizione era ancora molto forte e non avrebbero mai accettato la sua scelta. Ma appena varcata la porta d’ingresso della struttura aveva sentito come se una voragine le si aprisse sotto i piedi ed era scappata via. Solo quando era arrivata a isolati di distanza il cuore le aveva ricominciato a battere regolarmente. Allora aveva preso la decisione di partorire, sì, ma di non tenere il bambino. E adesso si trovava in aeroporto, dopo aver venduto il suo bracciale per un biglietto aereo di andata e ritorno per Madrid. Aveva pensato che nella capitale il suo bambino avrebbe trovato maggior assistenza di quanta ne avrebbe avuta nel suo piccolo paese.
Calcio, calcio.
Mi sfiorò il pensiero di come sarebbe potuto diventare il piccolo da grande, se avrebbe avuto i miei occhi verdi o i capelli neri di mia madre. Scacciai quei pensieri: ormai la decisione era presa.
Guardai l’orologio: avevo ancora una buona mezz’ora prima che il volo partisse, quindi presi il libro di poesie e cominciai a leggere. Era l’unico libro che avessi mai posseduto, dato che non avevamo soldi da spendere e Andrè non era un lettore appassionato, ma io lo trovavo ugualmente bellissimo, forse proprio per la mia incapacità di confronto.
Nelle poesie la vita sembrava sempre un sogno, qualcosa d’intangibile e irreale. Era un mondo perfetto dove vivere, o almeno questo era il mio modesto parere; ma dalla prima volta che avevo letto una poesia avevo avuto questa sensazione.
-Fernando Pessoa?- disse una voce.
Sobbalzai. Mi ero immersa talmente nella lettura da non notare che una donna mi si era avvicinata e stava scrutando il mio libro con un sorriso.
-Come scusi?- Non sembrava spagnola: i lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda alta e gli occhi azzurri brillavano di entusiasmo e vivacità. Tedesca o olandese, pensai.
-L’autore del libro che sta leggendo, è Fernando Pessoa, vero?- mi richiese. A causa della mia scarsa cultura potei rispondere solo annuendo.
- Credo che le sue poesie siano stupende, ho praticamente divorato il libro!- disse ridendo.
- Sì, anche a me piace molto- risposi e chinai nuovamente la testa dopo aver fatto un cenno di saluto, pensando che la conversazione fosse finita. La donna invece si sedette nel posto libero vicino al mio e sorprendendomi mi tolse il libro dalle mani. Lo aprì e lesse:
 
Quasi anonima sorridi
e il sole indora i tuoi capelli.

Perché per essere felici
è necessario non saperlo?
 
Appena finito di leggere mi guardò negli occhi, quasi a voler carpire i miei pensieri più profondi. Abbassai lo sguardo imbarazzata.
-Bella vero? Essere felici e non saperlo… credo che sia una delle condanne dell’umanità, si comprende quanto si ha solo quando lo si è perso. Mi dica non lo pensa anche lei?-
-Sì… penso… ma, mi scusi lei è…?-
-Questo non importa affatto. La cosa importante è che lei non era sicura della sua risposta, e non si può essere insicuri riguardo a questi argomenti. Sulla vita, intendo.- mi disse con sguardo accusatorio.
Mi indignai. –Come osa giudicare me e le mie idee? Non mi conosce neanche!-
-Non ho bisogno di conoscerla per capire che lei, che dovrebbe essere ad un passo dal cielo per quella vita che porta in grembo, è infelice. E mi chiedo come questo possa essere possibile visto che le viene fatto tale onore.-
Ero ammutolita. Chi era quella sconosciuta? Come aveva fatto a leggermi così bene? Per caso mi conosceva e aveva saputo la mia storia? Non ricordavo di averla mai incontrata e i suoi occhi azzurri non mi dicevano niente. Eppure aveva ragione. Una donna in prossimità del parto dovrebbe essere a casa in compagnia del marito e della famiglia, rallegrandosi del suo bambino e curando i preparativi per la sua venuta. Sicuramente non dovrebbe essere in aeroporto.
Non volevo risponderle, non volevo aprirmi con una persona che non avevo mai visto e sommergerla con i miei problemi, ma le parole uscirono da sole:- In verità non mi sento fortunata in questo momento. So di non poter tenere la creatura che adesso è dentro di me perché sono sola. Dovrò trasferirmi e cominciare una nuova vita con il rimpianto del mio bambino perduto.- la voce si spezzò e mi ritrovai a singhiozzare. Era come se tutte le lacrime che avevo tenuto dentro di me in quegli otto mesi sgorgassero fuori, un pianto che non sembrava venire dagli occhi, ma dal profondo del ventre, dove il bambino mi sarebbe stato portato via.
Non so per quanto tempo rimasi a piangere con la sconosciuta vicino a me. Alla fine il fiume di lacrime passò lasciandomi esausta a occhi chiusi.
Aereo per Madrid in partenza
La chiamata mi riscosse. Mi asciugai gli occhi con la manica della felpa e mi girai verso il posto affianco. Lo trovai vuoto. La donna che fino ad un attimo prima era vicino a me a confortarmi, era scomparsa. La cercai con lo sguardo tra la folla. Niente. Chiesi alla persona seduta difronte a me se aveva visto una donna bionda allontanarsi.
-Donna bionda? No signorina, non credo. Da dove è passata?- mi chiese.
- Era seduta vicino a me fino ad un attimo fa!- replicai.
- Seduta vicino a lei? Non ho visto nessuno vicina a lei- l’uomo scrollò le spalle e tornò a guardare il computer che aveva davanti.
Come era possibile? Che me la fossi immaginata?
L’altoparlante suonò di nuovo. Ultima chiamata.
Mi alzai e mi diressi verso l’uscita.
Calcio, calcio.
Crampo. 
   
 
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