Fumetti/Cartoni europei > Code Lyoko
Segui la storia  |       
Autore: Artemide12    07/04/2015    2 recensioni
Settembre.
Kadic.
20 anni dopo.

La preside Delmas dà il benvenuto a Franz Belpois, Emma della Robbia, Carlotta Dunbar e Chris Stern.
Sei amici si rincontrano per l'ennesima volta.
Nulla sembra veramente cambiato al Kadic. Tranne in fatto che XANA è stata sconfitta ovviamente.
Franz, Rebecca, Emma, Carlotta, Ludovic e Chris sembrano ragazzi normali, ma presto dovranno fare i conti con ciò che i loro genitori hanno fatto tanti anni prima.
Realtà e Mondo Virtuale si intrecciano e si confondono per chi ha immediato e incontrollato accesso ad entrambi. È la conseguenza di una metamorfosi che nessuno aveva considerato.
Ma quando questo potere diventerà un pericolo?
Presto il Kadic tornerà ad essere ciò che non ha mai smesso di essere: lo scenario di una guerra virtuale che non è ancora finita.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, X.A.N.A.
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CodeLyoko METAMORFOSI banner Image and video hosting by TinyPic


Metamorfosi Cap3;

begin

write('Spiegazioni, o almeno in parte');

readln;

end.


«Sedetevi» li invitò Rebecca sistemandosi a gambe incrociate sul propri letto, nella stessa posizione che poco prima aveva il suo ologramma. La somiglianza era impressionante e Carlotta e Ludovic erano ancora scossi.

Carlotta girò la sedia di una delle due scrivanie e vi si sedette mentre il fratello si accomodò sul letto, proprio di fronte a Rebecca.

«Quindi anche tu vedi quegli... pseudo-animali da... un anno?»

«Sì. Dai primissimi giorni di scuola.»

«E perché non mi hai detto niente? Insomma, io ho capito subito che Carlotta li vedeva, tu devi aver fatto lo stesso con me.»

«Ma tu non hai fatto altrettanto con me» gli fece notare Rebecca.

«Già! E non mi spiego neanche questo.»

«Be', è semplice in realtà. Tu li vedevi e ti davano fastidio, ma li sopportavi. Io no. Non so come spiegarlo. È come se il mio cervello si sovraccaricasse ogni volta che comparivano. Era snervante. Nel giro di due settimane sono finita in infermeria almeno sei volte. E non ero tanto stupida da dire la verità. All'inizio ero confusa, ma come al solito, mi sono imposta di dare una logica a quello che stava succedendo. Solo dopo mi sono accorta che anche tu vedevi quelle creature. Mi sono sorpresa. Com'era possibile che solo vederle mi provocasse un'emicrania e che invece tu potessi limitarti ad allontanarle?»

«E hai trovato una spiegazione?»

Rebecca distolse lo sguardo puntandolo testardamente sul ghirigoro del copriletto. Lo seguì distrattamente con un dito fino a trovare il punto in cui c’era un errore nel disegno.

«No» rispose frustrata.

«E quelle creature?» questa volta fu Carlotta a fare la domanda. «Per loro hai trovato una spiegazione?»

La ragazza dai capelli rosa sollevò su di lei i suoi occhi chiari. «Più o meno.»

«Cosa sono?»

Rebecca chiuse gli occhi. «Anche questo è difficile da spiegare.» Fece una pausa per riorganizzare le idee. Quando li riaprì, i suoi occhi furono attraversati da un lampo argentato. «Sono esseri digitali. Creati da un computer che si trova da qualche parte all'interno della scuola e probabilmente fatti comparire da proiettori collocati ovunque nell’edificio. Per questo non possono uscire. Si allontanerebbero troppo dal loro alimentatore.»

«Quindi sono solo... programmi

La ragazza annuì. «E come tali rispettano degli ordini precisi.»

Ludovic, che era rimasto in silenzio, riprese la parola. «E tu puoi dare loro ordini? Come hai fatto poco fa?»

«Non è esatto.» Fissò lo sguardo sulla carta da parati verde ghiaccio che ricopriva le pareti. Sopra c'era un motivo ricorrente di quadrati argentati. In alcuni punti non coincidevano. «Posso invertire i loro comandi. Se loro vengono verso di me posso farli voltare e andare via.»

«Come?» incalzò Carlotta.

«Come ti ho detto, sono alimentati da un computer all'interno della scuola. Ricevano ordini con una specie wii-fii. Sono riuscita a trovare la frequenza su cui viaggiano queste informazioni.»

«Ma allora,» osservò Carlotta «non puoi risalire alla loro fonte?»

Rebecca stese le labbra in un sorriso compiaciuto. «È quello che ho pensato anch'io. Ma non ci riesco. È come se spuntassero dal nulla. Un attimo prima non c'è niente e quello dopo ecco che si forma un “animale” che riceve ordini. Ordini che viaggiano su frequenze sempre presenti, ma che sembrano spuntare dal nulla. È snervante!» All’ultimo la sua voce salì di qualche tono e lei si prese la testa tra le mani per un attimo.

Ludovic si sorprese di quella reazione. Raramente Rebecca si scomponeva tanto. Ma quello che stava succedendo era qualcosa che non rientrava in uno schema logico, non ancora almeno, e questo mandava in crisi la sua amica.

«Tu vedi solo animali?» chiese Carlotta.

Rebecca la studiò. Come se le stesse facendo una domanda che sapeva già e stesse valutando se rispondere correttamente o no. «Cos'altro dovrei vedere?» si limitò a chiedere.

«Numeri, simboli, non lo so!»

La ragazza annuì. «Sì, li vedo. E una volta ho anche registrato la loro comparsa.»

«Non ci credo» sbuffò Ludovic, tanto per dire qualcosa visto che era sicuro che l'amica ci fosse riuscita.

«È davvero strano» commentò quasi tra sé e sé Rebecca prendendo il computer e mettendoselo sulle gambe incrociate.

Ludovic valutò la possibilità che potesse trattarsi di nuovo di un ologramma.

«Cosa c'è di strano?» chiese Carlotta alzandosi e avvicinandosi per poter guardare nello schermo.

«Vedi, quegli animali non compaiono proprio dal nulla. Sono programmi, qualcuno deve dare loro il via. Poco prima che uno di loro appaia, si verifica una condensazione delle informazioni necessarie e poi...» premette il tasto invio.

Un video di pochi secondi riprendeva il davanzale della finestra della camera. Gli stessi simboli che Carlotta aveva visto in classe, questa volta di un verde fosforescente e irreale, cominciarono a comparire praticamente dal nulla, quasi fossero generati dall'aria circostante, e si avvicinarono tra di loro. Un rapido lampo, poi al loro posto comparve l'uccello che se l'era presa con lei qualche ora prima.

«Come hai fatto a riprenderli?»

«Ho creato un programma specializzato. Ora guarda. Questo è quello che succede quando invece ci sono solo i simboli.»

Fece partire un altro video.

Questa volta era inquadrato un angolo del cortile. Cominciarono ad apparire quegli strani simboli, esattamente come nel filmato precedente, ma questa volta, invece di unirsi e diventare un animale, cominciarono ad accumularsi e poi a disperdersi.

«Non capisco» ammise Carlotta.

«È come se in certi momenti i programmi non riuscissero a completarsi» spiegò Rebecca. «Come se sviluppassero una specie di tumore.»

«Io non ho mai visto niente del genere» disse invece Ludovic.

Per la prima volta, Rebecca sembrò stupita.


ʘ –


Emma riprese coscienza lentamente. Accolse di buonavoglia il silenzio dell'infermeria.

Tese leggermente le orecchie.

Il suo lettino era proprio sotto la finestra. Poteva sentire il vento soffiare leggero tra i rami degli alberi e accarezzare le foglie facendole frusciare. Qualche uccellino canticchiava.

Inspirò lentamente, lasciandosi invadere da quel momentaneo senso di pace. Poteva illudersi di trovarsi stesa su un prato.

Aprì adagio gli occhi. Li sentì pizzicare. Se li strofinò e poi tornò a mettere a fuoco.

Il gatto viola era seduto sul davanzale, completamente immobile eccetto la coda.

Emma emise un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro. «Andiamo bene» commentò ad alta voce, sarcastica.

Si girò su un fianco. Quel lettino era straordinariamente comodo.

Il gatto cominciò a miagolare con insistenza.

«Oh, vattene! Tu non esisti!»

Lo sentì saltare sul letto, dietro di lei, e strusciarsi contro la sua schiena. Le fece il solletico.

«E se esisti non sei viola.»

Si girò sperando di vederlo nero, o di qualsiasi altro colore.

Viola. Quasi magenta.

«Fantastico.»

Il gatto le salì sulla pancia. Lei si sollevò sui gomiti. Allungò una mano per accarezzargli la testa e lui la assecondò.

Come può non essere reale? si chiese.

Si ristese senza smettere di guardare il gatto che aveva cominciato a camminarle sul ventre e sul petto facendo le fusa.


ʘ –


Franz allontanò da sé il libro con un moto di frustrazione. Perché non riusciva a concentrarsi?

Semplice. Perché la sola vista di parole scritte gli ricordava quello che era successo in classe.

«Tutto bene?» chiese Chris, steso sul letto a leggere fumetti.

«Sì» mentì Franz portandosi una mano alla testa e cominciando a massaggiarsi una tempia.

Si alzò e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Si sentiva ancora stordito. Sollevò lo sguardo fino ad incrociare quello del suo riflesso nello specchio.

Era abituato a definire i suoi occhi dorati, ma era ovvio che in realtà fossero solo di una particolare sfumatura marrone. Per questo trasalì e quasi fece un salto all'indietro quando si rese conto che in quel momento le sue iridi erano proprio dorate.

E i suoi capelli, invece di avere quel colore biondo perlaceo chiarissimo, erano spaventosamente incolori.

Doveva esserci qualcosa nello specchio. O nella luce. O nei suoi occhi. Magari aveva un difetto di vista come sua sorella. Come suo padre, dopotutto.

Continuò a fissare lo specchio come se si aspettasse di veder cambiare l'immagine da un momento all'altra. Tentò di mettere ancora di più a fuoco, fino a sentire gli occhi pizzicare.

Vide apparire sulla superficie dello specchio dei cerchi concentrici.

Una fitta improvvisa alla testa lo fece barcollare. Si premette una mano contro la tempia e si affrettò ad uscire dal bagno.

Aprì la porta della stanza senza degnare Chris di un'occhiata. Doveva fare qualcosa almeno per quell'intollerabile mal di testa. Di sicuro in infermeria avevano qualcosa da dargli.

Una volta, da piccolo, gli era capitata una cosa simile quando era rimasto quattro ore davanti al computer. Ricordava che sua madre gli aveva dato delle pasticche, anche se non ricordava quali.

Avrebbe potuto chiedere a Rebecca, ma lei si sarebbe sicuramente accorta che quello non era un normale mal di testa.

Arrivò al piano giusto in pochi minuti. L'infermiera in quel momento non c'era. Decise di aspettare e si diresse nella stanza accanto, dove immaginava ci fossero almeno un paio di lettini.

Appena richiuse la porta alle sue spalle e si voltò, sentì il suo cuore perdere un battito e il suo viso sbiancare.

Emma era distesa immobile su uno dei tre lettini in posizione supina. Teneva gli occhi chiusi e respirava regolarmente. Sul suo ventre era seduto un gatto magenta che lo fissava con i suoi occhi gialli.

A spaventarlo davvero, però fu che, appena incrociò il suo sguardo, il gatto scomparve. Esplose in una nuvola degli stessi simboli che aveva visto in classe.

Si affollavano nell'aria sopra Emma scontrandosi tra loro. I numeri, le uniche cose che riusciva a leggere, facevano capolino tra i simboli vorticando freneticamente insieme ad essi.

La ragazza inspirò e parte dei simboli fu risucchiato insieme all’aria. Emma ebbe una specie di spasmo.

Franz corse fuori respirando affannosamente con la testa che minacciava di esplodergli. Si portò le mani alle tempie mentre si piegava su se stesso. Per un attimo immaginò il proprio cervello esplodere all'interno del cranio.

Ansimava, ma si costrinse ad allontanarsi il più in fretta possibile. Inciampò per le scale mentre provava a tornare al piano di sopra.


ʘ –


Emma scattò in avanti, mettendosi seduta. Si chinò di lato in preda ad un conato, ma dal suo stomaco non uscì nulla. Si portò una mano al petto. Aveva l'impressione che qualcuno le avesse gettato dell'alcool attraverso le narici e giù per la gola, fino ai polmoni.

Tossì, ma emise solo un verso rauco. Si mise a cavalcioni del lettino, per respirare meglio.

Senza allontanare la mano dal petto sollevò leggermente lo sguardo. Il gatto viola teneva il muso alzato e gli occhi fissi su di lei.

Per un attimo, mentre teneva gli occhi chiusi per fingesi addormentata a chi era entrato, le era sembrato che il peso sul ventre fosse scomparso.

Rimase immobile a fissare il gatto.

Poteva quasi vedere il proprio riflesso in quegli occhi giallo limone. Poteva vedere i suoi capelli biondi, corti e spettinati, e i suoi occhi lilla e lucidi.

Nelle iridi del gatto apparve dell'azzurro. Come inchiostro che si spande seguendo delle scanalature preesistenti, andò a formare dei cerchi concentrici, una piccolo tratto verticale in alto e altri tre in basso.

Emma poteva vedere quello stesso simboli riflettersi nei propri occhi.

La sua lucidità stava venendo meno. Parte del suo cervello di stava adattando a ricevere un nuovo tipo di ordini.

Il gatto miagolò e saltò di nuovo sul davanzale. Emma si rese conto di averlo seguito solo quando si ritrovò appollaiata sul bordo della finestra, con lo sguardo fisso verso il basso.

Ma che sto facendo? Si chiese.

Poi il gatto cominciò a camminare sul cornicione e lei si sentì costretta a seguirlo. Si alzò in piedi e gli andò dietro, nonostante la parte di muro sporgente fosse evidentemente troppo piccola per lei.

Si sbilanciò in avanti. Fece roteare le braccia, ma era inutile. Con il cuore in gola fissò la terra sassosa due piani sotto di lei. D'istinto portò un piede in avanti.

Si aspettava di trovare il vuoto, invece affondò in qualcosa di morbido che le ricordò la consistenza dei gonfiabili.

Abbassò lo sguardo. Dal cornicione si era allungata una rete compatta di filamenti verde fluo e quadratini di varie tonalità di azzurro che formavano una superficie liscia e semitrasparente che le aveva impedito di cadere.

Cercando di controllare il tremore, Emma si abbassò fino a toccare quel piano con le mani. Sembrava solido e irreale allo stesso tempo, come un pavimento di vetro. Era inquietante. La dita affondarono leggermente. Sembrava gomma.

Il gatto viola la stava aspettando.

Avanzando con cautela sulle quattro zampe lo seguì senza chiedersi il perché.


ʘ –


Carlotta rimase impietrita quando vide una testa bionda passare accanto alla finestra aperta della camera di Rebecca come se si trovassero al piano terra anziché al secondo. Corse ad affacciarsi e sgranò gli occhi.

«Emma!» gridò.

La ragazza si fermò e voltò la testa. «Ciao Lott.»

«Che diavolo...»

«Con chi parli?» chiese Ludovic avvicinandosi. Sbiancò.

«Non chiedetemi com'è possibile» disse Emma. «Non chiedetemi nemmeno perché sono quassù, ora che ci penso» aggiunse subito dopo, riflettendoci. Si riportò una mano alla tempia. Riflettere le faceva venire il mal di testa.

Il gatto viola miagolò impaziente davanti a lei. Doveva andare avanti. Doveva farlo. Era un ordine, non si poteva discutere. Era come se una parte di lei avesse perso la sua autonomia.

Lottò disperatamente contro quella parte, ma ottenne solo un'immobilità straziante.

«Emma?» la chiamò Carlotta, capendo che qualcosa non andava.

Ludovic rimise la testa dentro.

Rebecca aveva lo sguardo fisso sul computer e non si era accorta di niente, un po' come avrebbe fatto il suo ologramma. Quando si sentì chiamare alzò la testa sorpresa. Andò alla finestra e si affacciò. Sgranò gli occhi. Non ebbe il tempo di studiare bene la scena, però, perché gatto e ponte esplosero in un vortice di numeri impazziti appena puntò gli occhi su di loro.


ʘ –


Chris continuò ad aggirarsi per il parco, le mani nelle tasche, finché non fu sicuro di essere completamente solo e abbastanza distante dalla scuola. Aveva aspettato che Franz uscisse per poter sgusciare via.

Infondo non era vietato passeggiare da quelle parti.

Si fermò appena trovò un pezzo di sentiero abbastanza lungo e dritto.

Si rigirò tra le mani il cronometro. Una parte di lui avrebbe preferito non sapere nulla. Ma non poteva ignorare quello che aveva visto.

Lo scatto di Emma era stato esagerato, inumano. Eppure, vedendola correre, gli era sembrata una cosa assolutamente naturale. Perché non avrebbe dovuto accelerare in quel modo? Sembrava tanto semplice!

Si era fermata di botto, senza un motivo, ma dopo non aveva il fiatone e sembrava freschissima, come se correre in quel modo, a quella velocità, non le avesse richiesto il minimo sforzo.

Chris non sapeva se Emma avrebbe potuto dare di più o no, ma sapeva che quando avevano gareggiato nel corridoio della scuola entrambi avevano dato il massimo. Ed erano arrivati pari.

Questo voleva dire che anche lui era così veloce? Se l'era chiesto poco prima di cominciare la sua gara. E si era impegnato per arrivare secondo. Era stato fin troppo facile. Aveva avuto l'impressione di camminare, come se fosse stato costretto a muoversi al rallentatore.

Lui poteva dare molto, molto di più. Lo sentiva.

Fissò la fine del sentiero.

Era poco più lungo della pista su cui aveva gareggiato quella mattina.

Si chinò in avanti e poggiò le mani a terra. Inspirò profondamente, poi scattò in avanti.

Dopo i primi secondi si sentì improvvisamente pesante. Come se stesse correndo contro una corrente impetuosa, come se mani invisibili lo stessero trattenendo.

Arrivò alla fine del percorso con il fiatone.

Guardò il cronometro. Nulla di strano. Era un tempo buono, ma assolutamente normale. Quasi svenne per il sollievo, ma c'era ancora qualcosa che non gli quadrava.

Si girò e si posizionò di nuovo a terra. Fissò lo sguardo nel punto da cui era partito. Fece appello a tutti i suoi muscoli e li sentì tendersi.

Scattò.

Fu tutto completamente diverso. E facile. Le falcate si alternavano fulminee e fluide. Ebbe l'impressione che fosse il mondo intorno a lui a muoversi ad una velocità vertiginosa e lui a stare fermo.

Si fermò di botto. Il battito era a mala pena accelerato. Respirava benissimo e gli sembrava di essersi appena stiracchiato. Aveva superato il punto in cui si sarebbe dovuto fermare di una buona ventina di metri.

Guardò il cronometro. 5 secondi.

Scosse il piccolo apparecchio, anche se sapeva che funzionava benissimo. Ripeté la misurazione più volte e sempre con risultati simili. All'andata otteneva un tempo assolutamente normale, al ritorno doveva andare a contare i decimi di secondo.

Si sentiva inebriato, come se correre gli avesse dato in un leggero senso di assuefazione. Spense il cronometro e se lo rimise in tasca.

Sentì uno strano verso. Alzò lo sguardo. Su un ramo era appollaiato un uccello variopinto, una specie di pappagallo gigante con le ali blu elettrico e verde brillante e la pancia giallo acceso. Lanciava degli strilli acutissimi che dovevano essere parte di una musica.

Chris si portò le mani alle orecchie. «Sta' zitto!» gli urlò.

L'uccello prese a strillare ancora più forte.

Chris strinse i pugni. Poi, prima ancora che potesse rendersene conto, i muscoli delle gambe scattarono come molle e le sua mani afferrarono il ramo. Si lasciò oscillare, poi, con uno slancio, si ritrovò accovacciato sul ramo.

L'uccello strillò, ora sembrava spaventato.

«Te ne vuoi andare?»

Il pappagallo si zittì. Lo fissò dritto negli occhi. Poi spiegò le ali e gli saltò addosso.

Chris si ritrovò con la schiena nella terra polverosa e gli artigli dell'uccello sugli avambracci. L’animale era diventato enorme. Chris cominciò a rotolare, nel tentavo di liberarsene. Sentiva gli artigli graffiargli i polsi e vide del sangue cominciare a colare. Si spostò a sinistra sbattendo l'uccello a terra, ma quello attraversava il terreno così come fendeva l'aria.

Il pappagallo cominciò a sbattere la ali e a tentare di sollevarsi in volo, come se volesse portarsi dietro il ragazzo. Grosso com'era diventato, avrebbe potuto benissimo farcela.

Era come avere delle manette. Chris si ritrovò in ginocchio e poi in piedi. Li puntò a terra, tentando di opporre resistenza. Indietreggiò e già sentiva il terreno mancargli sotto i piedi quando l'uccello sbatté contro un muro invisibile e lo lasciò andare.

Chris si piegò in due per riprendere fiato. I polsi gli bruciavano da morire, i tagli erano profondi, anche se non tanto da essere pericolosi.

Guardò l'uccello provare ad avvicinarsi in volo, ma scontrarsi ogni volta con un ostacolo invisibile. Alla fine volò via e scomparve.

Fece un passo avanti e poi indietro. Lui non sentiva niente.

Avanzò di nuovo. Una strana sensazione gli invase i polsi. Un freddo eccessivo ma sopportabile li intorpidiva.

Il sangue si stava già seccando. Lo grattò via.

E poté vedere chiaramente le ferite che si rimarginavano.


ʘ –


Non ebbe paura neanche per un momento. Cosa avrebbe dovuto temere?

Bastava tendere le gambe, toccare terra con i piedi e piegare le ginocchia per attutire il colpo. Per sicurezza piantò anche le mani a terra.

Nemmeno un graffio.

Guardò in alto. Rebecca, Ludovic e Carlotta la fissavano con gli occhi sgranati dalla finestra del secondo piano.

«Scendiamo!» disse subito il ragazzo corvino e la sua testa e quella di Rebecca sparirono dalla sua visuale.

«Stai bene?» chiese Carlotta appena si fu ricomposta.

«Sì» rispose tranquillamente lei rialzandosi in piedi. «È facile.» Cercò il gatto viola con lo sguardo, ma era sparito.

«Facile?»

«Sì» ripeté. «Non ci vuole niente.»

La testa dell'amica rientrò, poi la vide arrampicarsi sul davanzale.

Solo un quel momento Emma si rese conto del pericolo. «Ma sei matta? Che stai facendo?»

«Hai appena detto che è facile.»

«Sì! No! Cavolo.» Era precipitata da quell'altezza? Com'era possibile?

Prima che potesse dire qualcosa, Carlotta saltò. Si mosse con estrema grazia, come una ginnasta che esegue un salto spettacolare ma che ormai ha imparato a fare da anni. Atterrò sulle punte dei piedi, leggiadra, senza neanche piegarsi in avanti, come se fosse semplicemente atterrata dopo un saltello.

«Avevi ragione!» esclamò. «Era facile!» Mentre parlava si rese conto dell'assurdità delle sue parole.

Entrambe alzarono lo sguardo.


ʘ –


Rebecca scese le scale il più in fretta possibile, ma senza perdere la sua compostezza. C'era qualcosa di inquietante nel suo modo di muoversi, qualcosa di quasi irreale. Era come se fosse solo un'immagine proiettata nella realtà. Un'immagine sempre eretta, composta, in perfetto equilibrio. Perfetta. Persino nello scendere le scale. Non si sbilanciava in avanti o indietro, rimaneva perfettamente verticale. I suoi piedi sfioravano a mala pena la superficie dei gradini. Sembrava volare.

Arrivò al piano terra diversi minuti prima di Ludovic e rimase immobile ad aspettarlo, senza però girarsi mai a guardare indietro. Si lanciò giusto un'occhiata intorno, ma sapeva già cos'avrebbe visto.

In parte aveva mentito. Se Ludovic aveva detto di aver visto sempre e solo animali, lei aveva sempre visto solo numeri e simboli impazziti. Quei codici avevano trovato una forma solo quando aveva cominciato a portare quelle lenti a contatto.

Mentire era così spaventosamente facile per lei. Era il motivo per cui lo faceva il vero problema. Mentiva perché ciò che vedeva non aveva senso.

E questo la faceva impazzire più di ogni altra cosa.


  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni europei > Code Lyoko / Vai alla pagina dell'autore: Artemide12