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Autore: Artemide12    07/04/2015    2 recensioni
Settembre.
Kadic.
20 anni dopo.

La preside Delmas dà il benvenuto a Franz Belpois, Emma della Robbia, Carlotta Dunbar e Chris Stern.
Sei amici si rincontrano per l'ennesima volta.
Nulla sembra veramente cambiato al Kadic. Tranne in fatto che XANA è stata sconfitta ovviamente.
Franz, Rebecca, Emma, Carlotta, Ludovic e Chris sembrano ragazzi normali, ma presto dovranno fare i conti con ciò che i loro genitori hanno fatto tanti anni prima.
Realtà e Mondo Virtuale si intrecciano e si confondono per chi ha immediato e incontrollato accesso ad entrambi. È la conseguenza di una metamorfosi che nessuno aveva considerato.
Ma quando questo potere diventerà un pericolo?
Presto il Kadic tornerà ad essere ciò che non ha mai smesso di essere: lo scenario di una guerra virtuale che non è ancora finita.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, X.A.N.A.
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Metamorfosi Cap4;

begin

    write('Perfettamente imprevisti');

    readln;

end.


«E tu che ci fai qui?» esclamò Ludovic vedendo la sorella.

«Sono saltata giù.»

«Cosa? Ma sei impazzita?»

«No, è stato facile.»

Ludovic alzò lo sguardo.

«E non ti sei fatta nulla?» insistette Rebecca, aveva un tono interessato e distaccato allo stesso tempo, come se stesse semplicemente raccogliendo dati.

«No, atterraggio perfetto.»

Rebecca stava per fare un'altra domanda, ma registrò un movimento con la coda dell'occhio e fece appena in tempo a voltarsi per vedere Ludovic che si accucciava a terra e saltava.

Riatterrò pesantemente, proprio com'era prevedibile. Assottigliò lo sguardo e lo fissò sul davanzale della finestra.

Poteva farcela, lo sentiva. Doveva solo darsi la spinta giusta.

Trovare il modo giusto in cui saltare.

Trovare il mondo giusto in cui saltare.

E li vide. Vide il fitto reticolo che ricopriva le mura della scuola come una carta da parati. Poteva deformarla quando e come voleva. Sapeva di poterlo fare.

Si diede di nuovo lo slancio, ma questa volta non puntò sull'altezza. Andò verso il muro e ne deformò la superficie creando delle specie di gradini. Li salì senza fermarsi e ad una velocità impressionante. Si fermò sul davanzale e guardò giù.

«Come. Diavolo. Hai. Fatto???» urlò Emma.

«Non lo so» rispose e nella voce c'era eccitazione, come dopo una gara di corsa.

«Era... bellissimo, sembrava che il muro si allungasse lì dove posavi i piedi!»

Ludovic spostò lo sguardo sulla sorella.

«Arriva qualcuno» li avvertì Rebecca.

Elisabeth fu davanti a loro in pochi minuti. «Che ci fate in questa parte della scuola?»

«Ci scusi, Emma e Carlotta non si sanno ancora orientare» rispose Rebecca sorridendo appena.

Si affrettarono a sfilare accanto alla preside e a correre via.

«Ci vediamo stanotte nella camera di Emma e Lott» disse Rebecca, poi prese a salire le scale di corsa.

«Aspetta!» tentò di fermarla Emma, ma quando giunse in cima alle scale della ragazza non c'era più nemmeno l'ombra.


ʘ –


Chris entrò correndo e si chiuse la porta alle spalle.

«Mi hai fatto prendere un colpo!» esclamò Franz, che era balzato in piedi. «Che diavolo succede?»

«Un pappagallo gigante ce l'ha con me, c'è una barriera invisibile nel bel mezzo del parco e una fabbrica abbandonata non lontano da qui» rispose Chris tutto d'un fiato.

«Un pappagallo?»

«Sì. È gigantesco e nessuno lo vede, però è reale perché mi ha graffiato e...»

Si sentì un colpo violento e la porta vibrò.

«e...?» fece Franz titubante.

«Ed è qui fuori!»

«Apri la porta.»

«Ma sei matto!»

«Sto seriamente pensando di esserlo, apri.»

Chris, che fino ad ora si era tenuto con le spalle contro la porta per evitare che si aprisse, si spostò di scatto e quella si spalancò. L'enorme uccello entrò sbattendo le ali e smuovendo così tanta aria che molti fogli volarono per la stanza. Strillava come un ossesso.

Franz si mise difronte al pappagallo dando le spalle alla finestra. Divaricò leggermente le gambe e strinse le mani a pugno.

Fissò l'uccello dritto negli occhi. Le sue iridi ebbero un guizzo dorato, un vero e proprio lampo di luce.

L'attimo dopo l'animale esplose.

«Ma che diavolo...»

Numeri e simboli bianchi vorticavano frenetici per la stanza, scontrandosi contro le pareti e contro la porta che nel frattempo si era richiusa.

I vetri della finestra tremavano. Chris rotolò sotto il letto.

Franz era rigido al suo posto, pietrificato.

I simboli si riavvicinarono tra loro, senza però riunirsi. Formarono un'onda di una potenza impressionante che si sollevò verso il ragazzo.

Franz aveva il respiro affannoso e il cuore gli martellava nel petto e nelle orecchie, ma il suo corpo non rispondeva ai comandi. Le gambe sembravano fatte di marmo e non ne volevano sapere di spostarsi, di correre via. Terrorizzato, cercò almeno di distogliere lo sguardo, ma i suoi occhi tornarono a fissare il caos davanti a sé, come calamitati.

Poteva percepire il sangue scorrere rapido nelle vene, denso e potente.

All'improvviso, come in un flash o un cambio d'inquadratura, qualcosa in lui scattò ribaltando la situazione. Non stava più temendo di essere vittima di quella strana forma di energia, ora stava solo aspettando. Ora era impaziente.

Che lo attaccassero! Non aspettava altro.

L'onda si abbatté su di lui con una violenza tale che i vetri della finestra alle sue spalle andarono in frantumi, ma non lo sfiorò nemmeno.

Chris, da sotto al letto, fissò la scena a bocca aperta.

Era come se intorno all'amico si fosse creata una bolla di vuoto. I simboli che vi s'infrangevano cambiavano direzione o si frantumavano in polvere inconsistente. Aggiravano Franz e uscivano fuori, mentre il vento provocato dal loro muoversi rapidissimo sollevava fogli, tende e lenzuola dei letti.

Il tutto durò pochi secondi. Poi la stanza cadde in un silenzio di tomba.

Franz rimase immobile per qualche altro istante, poi crollò sulle ginocchia e infine a terra.

Chris indugiò solo un momento, poi sgusciò fuori dal suo nascondiglio e corse dall'amico. «Franz? Franz!» lo chiamò scuotendolo.

Il ragazzo mormorò qualcosa di incomprensibile.

«Franz»

«Se... se ne sono andati?»

«Sì amico, se ne sono andati, ma come diavolo hai fatto?»

«Io...» Franz riaprì gli occhi e sbatté più volte le palpebre. Le sue iridi erano tornate marroni. «...non lo so.» Richiuse gli occhi, ma rimase cosciente.

Chris lo aiutò a rimettersi in piedi. Si guardarono intorno per qualche minuto.

«Credo sia il caso di rimettere a posto» mormorò Chris.

Franz annuì. «E dopo mi porti in quella fabbrica che hai visto.»

«Diamoci da fare allora.»


ʘ –


Quando Rebecca ritornò in camera vi trovò Anna.

«Mi chiedevo dove fossi finita!» la voce squillante della ragazza e il suo tono fin troppo allegro le diedero quasi sui nervi.

Si controllò e si chiuse la porta alle spalle senza ricambiare il saluto.

«Non hai ancora messo nulla nell'armadio, devi ancora disfare le valigie? Vuoi che ti aiuti?»

Rebecca sfilò la sua valigia grigio argento da sotto il letto e la aprì. Dentro i vestiti erano piegati e riposti in modo ordinato secondo uno schema preciso. Prese dei vestiti puliti con una mano e un libro dalla copertina nera con l'altra.

«Ma mi senti?» chiese Anna mentre Rebecca entrava in bagno.

Per tutta risposta la ragazza fece girare la chiave nella serratura.

Fece un respiro profondo. Depose vestiti e libro su un mobile, poi si sfilò la maglietta e si mise una canottiera grigia, di quelle accollate che lasciano tutta la schiena scoperta. Indossò anche dei calzoncini rosa e infine ripiegò accuratamente i vestiti che aveva prima e li nascose in uno scomparto del mobile.

Poi aprì il libro, che in realtà era solo la custodia di una specie di telecomando. Armeggiò con i tasti per qualche istante, poi al centro del bagno apparve il suo ologramma, identico a lei anche nei vestiti. Lo programmò perché uscisse dal bagno di lì a dieci minuti e si andasse a sedere sul letto, nella sua solita posizione. Lei gli avrebbe solo aperto la porta.

Sistemò il telecomando nel finto libro e mise anche quello nel mobile con i vestiti.

Si avvicinò allo specchio alto e stretto e si mise di profilo per potersi vedere la schiena.

Si levò le lenti a contatto e sbatté più volte le palpebre. Ed eccoli, quei sottili filamenti rosa, viola e argento che formavano una ragnatela proprio sotto la pelle, come fossero vene in trasparenza.

Un brivido la attraversò e i filamenti cominciarono a muoversi come serpentelli. Si disposero in modo ordinato, poi cominciarono a fuoriuscire attraversando la pelle e allungandosi nell'aria, fluidi e senza peso. Si inspessirono e si intrecciarono.

Fissò il riflesso dei propri occhi, ora più argentati che azzurri, poi spostò lo sguardo sulle sue ali.

Capì che i dieci minuti erano passati quando il suo ologramma cominciò a muoversi. Lei gli aprì e chiuse la porta. Sentì Anna tentare per l'ennesima volta di impiantare un discorso.

Andò ad aprire la finestra del bagno e si arrampicò sul davanzale. L'altezza non la rallentò. Aveva passato tutto l'anno precedente a saltare giù dal terzo piano. Rimase accucciata per qualche secondo, poi saltò verso l'alto.

Sentì le ali spiegarsi e sollevarla quando si esaurì la forza dello slancio. Il movimento fluido delle scapole per farle sbattere risvegliò tutti i suoi muscoli addormentati.

Diede un rapido sguardo all'orologio da polso. Era ancora presto. La notte era lontana. Avrebbe saltato la cena, lo faceva spesso, e poi sarebbe rientrata per andare alla riunione in camera di Emma e Carlotta.

Probabilmente avrebbe sonnecchiato sui rami alti di qualche albero in attesa del tramonto, poi il buio avrebbe fatto da protettore ai suoi voli notturni.

L'importante era non allontanarsi troppo dalla scuola.


ʘ –


Carlotta entrò in bagno stiracchiandosi. Aveva proprio bisogno di una bella doccia.

L'acqua fredda era frizzante e risvegliò la sua pelle calda. Era una sensazione così gradita che rimase sotto il getto molto più a lungo del necessario.

Uscendo si avvolse in un asciugamano, poi si appoggiò ad un mobile e cominciò a districarsi i lunghi capelli nerissimi.

Si portò una ciocca davanti al viso. I riflessi blu in quel momento erano così marcati che sembrava avesse i capelli tinti. Ancora bagnati, li legò in una coda di cavallo. Erano così lunghi che le arrivavano comunque quasi alla vita.

Cominciò a rivestirsi, ma, mentre era ancora in intimo, lo sguardo le cadde sullo specchio sulla parete difronte a lei. Rimase a fissarsi a lungo, percorrendo il proprio corpo mentre aguzzava la vista per essere sicura di ciò che vedeva.

Si guardò intorno. Dalla finestra entrava molta luce. Andò a chiudere le tende e il bagno cadde nella penombra.

Si avvicinò cautamente allo specchio.

«Oh mio dio» mormorò tra sé e sé, quasi senza accorgersene, mentre con sguardo meravigliato percorreva il proprio corpo.

Il rosa pallido della pelle si vedeva a mala pena. Tutto il suo corpo era diviso in quadratini luminosi, di sfumature che andavano dal blu all'azzurro, al verdeacqua, al verde pastello. Sembrava fatta di una strana pietra liscia e sfaccettata, regolare e perfetta, come se qualcuno l'avesse intagliata.

Non avvertiva nulla a parte un leggero e gradevole formicolio che risvegliava e acuiva i sensi.

Per ultimo scrutò il proprio viso. I contorni degli occhi, delle sopracciglia e delle labbra, le iridi stesse e i capelli, erano di un blu intenso ed elettrico. La carnagione del viso sembrava bianca o addirittura argentata, solo le labbra e i cristallini degli occhi avevano una sfumatura beige.

A prima vista credette che lì non ci fossero quadratini a suddividerla come nel resto del corpo, ma poi, avvicinandosi ancora di più allo specchio, vide che invece il suo viso era fatto di miliardi di minuscole sfaccettature che riflettevano la luce come se fosse ancora bagnata.

Si passò una mano sulle guance. Nonostante l'aspetto, non avevano perso la loro naturale morbidezza.

Era come avere una seconda pelle. Elastica e superficiale, ma non estranea come i vestiti.

«Carlotta?» Le giunse la voce di Emma da dietro la porta. «Hai fatto?»

«Io...» le mancavano le parole, non riusciva a distogliere lo sguardo da se stessa. «Io...» riprovò.

«Tutto bene?»

«Io» disse soltanto. E questa volta era un'affermazione, una rivendicazione di se stessa.

«Posso entrare?»

Carlotta annuì. Poi, ricordandosi che l'amica non poteva vederla, ripeté il consenso ad alta voce. Quando entrò, Emma rimase a bocca aperta.

«Carlotta?»

«Sono io.»

Per qualche secondo non fecero altro che guardarsi negli occhi.

«Cosa... cosa ti è successo? Come hai fatto?»

«Non lo so» sussurrò la ragazza.

«Tu... non sembri neanche tu!»

«Lo so.»

«E smettila di guardarti come se ti fossi incantata!»

A quell'improvviso cambio di tono, Carlotta si riscosse. Afferrò Emma per il braccio. «Dobbiamo dirlo a Rebecca!»

«Sì, ma non stritolarmi il braccio!»

«Ah scusa, non me ne ero...»

Rimasero in silenzio a guardare l'impronta di quadretti lilla, viola, magenta e giallo fluo a forma di mano.

«Ma che...»

I quadretti si espansero a macchia d'olio sul suo braccio e in pochi minuti ricoprirono tutto il corpo. Ora era uguale a Carlotta, eccetto i colori.

«Incredibile.»

«Sei contagiosa!»

«Dobbiamo dirlo a Rebecca!»

«Ma sei matta? Vuoi uscire in questo stato?»

«Già... non ci avevo pensato.»

«Ho un'idea! Ci scattiamo delle foto, così se quando arrivano siamo tornate normali gliele possiamo mostrare.»

«Ci sto.»


ʘ –


«Ma è enorme!» commentò Franz guardandosi intorno. «E pensare che è così vicina alla scuola.»

«Sorprendente, eh?»

«Come l'hai trovata?»

«Cercavo solo di allontanarmi il più possibile.»

«Dici che quell'ascensore funziona?»

Chris premette più volte il pulsante rosso sulla parete, ma non successe nulla. «No.»

Franz si guardò intorno e fece una smorfia. «Dobbiamo arrampicarci?» chiese mentre con lo sguardo sondava ciò che rimaneva della struttura.

«Be', possiamo salire sugli alberi che gli stanno intorno e entrare da una finestra.»

Franz annuì distrattamente. Si fidava molto più dei grossi alberi all'esterno che della fabbrica fatiscente. A dirla tutta, sembrava che fosse solo grazie a quegli alberi che si reggeva ancora in piedi. Rampicanti robusti ne ricoprivano quasi tutta la superficie.

Chris si arrampicò con facilità, Franz lo seguì leggermente più titubante. Si fermarono su un ramo abbastanza robusto da sostenerli entrambi e abbastanza largo da potercisi camminare.

Chris si spinse fino a quella che doveva essere una finestra. Scostò i rampicanti e forzò quello che rimaneva del vetro, poi saltò dentro.

«Che razza di posto è?» chiese Franz, quasi tra sé e sé, bisbigliando.

La polvere degli anni aveva ricoperto quasi ogni cosa ingrigendo tutta la grande sale e facendola sembrare ancora più vecchia e fatiscente di quanto non fosse in realtà.

«Non ne ho idea» rispose Chris, sussurrando a propria volta.


ʘ –


Appostata sui rami alti di un albero molto alto, Rebecca aveva visto Chris e il fratello addentrarsi nel parco e istintivamente li aveva seguiti. Quando si erano allontanati troppo aveva dovuto rinunciare alle ali, ma a quel punto erano quasi arrivati.

Rebecca non si era mai spinta tanto oltre, proprio per non dover abbandonare il volo, ma la curiosità era stata troppa.

L'apparizione della fabbrica abbandonata la stupì. Cosa ci facevano lì i ragazzi?

Seguì il loro stesso percorso sull'albero e poi attraverso la finestra. Atterrò sulle punte dei piedi, senza fare il minimo rumore.

Sentiva i sussurri dei ragazzi provenire dalla stanza accanto.

Si mosse con passo felpato.

Chris stava esaminando delle cabine cilindriche mentre Franz si dava da fare con quello che sembrava un computer enorme.

«È così vecchio che mi sorprendo sia ancora intero.»

«Io mi sorprendo che ti interessi tanto.»

«Non lo so nemmeno io» imprecò Franz sottovoce per essersi fatto male alla mano. «Non capisco nemmeno come si accende!»

«Forse vi serve un'esperta di computer.»

Sobbalzarono entrambi e si voltarono nella direzione da cui veniva la voce.

«Becky! Che diavolo ci fai qui?»

«Potrei fare la stessa domanda a voi, quindi evitiamo di farcela a vicenda così siamo contenti entrambi, okay?»

Il fratello si limitò a tacere.

«Sai far funzionare quel coso?» chiese Chris.

«Posso provarci.»

«Allora va bene.»

Rebecca si avvicinò al computer. Franz e Chris si fecero da parte per lasciarla lavorare. La videro armeggiare con diversi fili prima di rialzarsi.

«Posso scoprire cos'ha in memoria, ma non credo di poterlo riaccendere.»

«Perché è troppo vecchio o troppo danneggiato?» chiese Franz.

«Nessuna delle due in realtà, semplicemente chiunque l'abbia spento non voleva che venisse riacceso.»

«Vediamo cosa ricorda quel rottame allora» fece Chris, che si era sempre sentito un po' tagliato fuori dai discorsi dei fratelli Belpois.

Rebecca sfilò dalla tasca dei calzoncini il suo cellulare e vi collegò un cavo che partiva dal computer.

«Hai mai pensato di fare la programmatrice di cellulari? Diventeresti ricchissima» commentò Chris.

«Ma non avrei più l'esclusiva» rispose distrattamente lei.

Sullo schermo nero del telefono si susseguirono colonne e colonne di dati per cinque minuti buoni, poi la facciata tornò normale. Scorse un menu lunghissimo e utilizzò strani programmi fino ad ottenere dei file leggibili e delle immagini.

I due ragazzi sbirciavano da sopra le sue spalle, ma rimanevano in silenzio.

«Allora? Cos'è?» chiese infine Franz, spazientito dal mutismo della sorella.

«Per lo più dati. Tonnellate.»

«Dati di cosa?»

«Sono relativi a dei ragazzi, è come se gli avessero fatto una scansione del corpo, solo non capisco a cosa serva.»

«Scansione del corpo? Ragazzi?» Chris era ancora più confuso dell'amico.

«Già.» Rebecca non staccava gli occhi dallo schermo «C'è praticamente tutto, come se volessero ricostruire una persona.»

«Ricostruirla dove?»

«Non ne ho idea, ti dico solo quello che vedo. Sono...» s'interruppe.

Per la prima volta in vita loro Chris e Franz videro l'espressione controllata della ragazza vacillare e lasciare emergere la sorpresa.

«Cosa sono?»

Lei on rispose.

Franz capì che quella non era la domanda giusta. «Chi sono?»

Rebecca sollevò lo sguardo sul fratello. «Sono i nostri genitori!»


ʘ –


Ludovic si aggirava per la propria stanza, inquieto. Da quando era rientrato aveva la sensazione costante e opprimente di essere osservato.

Julien, il suo compagno di stanza, era in giro come tutti i giorni.

Si stese sul letto, il viso rivolto al soffitto bianco, e tentò di rilassarsi, ma era impossibile. Si mise a sedere sbuffando nervosamente dal naso. Si guardò intorno, in cerca di qualche particolare fuori posto che segnalasse che qualcosa non andava davvero.

Niente.

Solo quella inquietante sensazione di essere osservato. Seguito.

Si alzò di scatto, uscì dalla camera e attraversò a grandi falcate il corridoio. Salì le scale il più in fretta possibile, i muscoli tesi e i sensi in allerta. Arrivò all'ultimo piano in pochi minuti.

«Jonny? Jessy?» chiamò.

Nessuna risposta. Si avvicinò all'antifurto. Era spento. D'istinto mise una mano sull'apparecchio e quello si rianimò con uno strano fischio.

«RIMANERE SVEGLIO… RIMANERE SVEGLIO, RIMANERE…»

«Jonny?»

«STUPIDA INFLUENZA»

«Influenza? Sei un antifurto Jonny!»

«RIMANERE SVEGLIO, … RIMANERE...» Si spense con una specie di grugnito metallico.

«Jonny? Si può sapere che succede? Jonny?»

L'antifurto si accese e poi spense un paio di volte, poi non diede segni di “vita”. Ludovic alzò gli occhi. Anche la telecamera era spenta.

«Che diavolo sta succedendo?»

«RIMANERE... RIMANERE... ALLARME... RIMANERE...»

Il sole tramontò dietro l'orizzonte proprio in quel momento. I neon del corridoio si spensero velocemente, uno dopo l'altro, lasciandolo nella penombra.

Poco dopo gli giunsero le voci agitate dei ragazzi dai piani sottostanti. Nessuna luce si accendeva più.

Sentì un formicolio lungo tutto il corpo e i suoi muscoli si tesero. Che stava succedendo?

Sentiva una nuova energia risvegliargli le membra e scorrergli nelle vene insieme al sangue.

Si guardò intorno. Si trovava proprio in mezzo al corridoio e tutto sembrava normale, luci spente a parte. Eppure non era normale. Qualcosa stava cambiando.

Uno strano calore si propagò nei suoi occhi e sentì le pupille dilatarsi. Improvvisamente la sua visuale cambiò. O meglio, era sempre lo stesso corridoio quello che vedeva, ma ora sembrava solo un disegno tridimensionale, come quelli fatti al computer. Se socchiudeva gli occhi poteva anche vedere gli schemi quadrettati che sembravano fare da base all'ambiente.

Continuò a guardarsi intorno. Si sentiva incredibilmente attivo.

Fuori, li alberi che si vedevano dalle finestre sembravano quelli di sempre.

Sentì il battito accelerare e si portò una mano al petto, come se volesse prendersi il cuore e farlo rallentare con le mani.

Sentì delle specie di passi attutiti e si voltò.

Non c'era nessuno. Il corridoio era vuoto. Come sempre.

O così gli dicevano gli occhi.

Il suo nuovo, acuto, senso dello spazio era totalmente in disaccordo.


ʘ –


«Non c'è campo» disse Rebecca riabbassando il telefono. «Se vogliamo chiamare papà dobbiamo prima tornare alla scuola.»

Franz sospirò. «D'accordo, torniamo indietro.»

Percorsero la strada del ritorno con passo sostenuto, forse perché impazienti di sapere finalmente qualcosa, forse perché le ombre proiettate dagli ultimi raggi del sole che ancora si vedevano avevano un che di inquietante.

Quando finalmente gli alberi cominciarono a farsi più bassi e a lasciar intravedere la sagoma imponente della scuola, Chris, che camminava davanti agli altri due, andò a sbattere contro qualcosa di freddo e duro dall'odore metallico e cadde a terra.

«Chris!» scattò subito Franz. «Ma cosa...»

«Tutto bene, sta' tranquillo, solo...»

Chris si mise in ginocchio e allungò le braccia. Le sue mani incontrarono di nuovo quella barriera invisibile che sembrava fatta di vetro.

Guardò oltre. Poco più avanti era dove si era scontrato con l'uccello gigante, ne era certo. Quella era la stessa barriera che aveva bloccato il pappagallo, perché questa volta bloccava anche loro?

Provò a batterci il pugno, ma non ottenne nulla. Non si fece neanche male.

«Che vuol dire?» esclamò Franz avvicinandosi. Toccò anche lui la barriera. Quando si ritrasse l'impronta grigio-verdastra della sua mano era rimasta lì, apparentemente sospesa nel vuoto a mezz'aria.

«Come hai fatto?»

«Non ne ho idea!»

L'impronta si fece azzurrina, poi sparì velocemente.

«Non è possibile, non c'era niente prima!»

Rebecca li ascoltava solo in parte. Si avvicinò a sua volta alla barriera. Vi appoggiò la mano e la tenne premuta. Vide una specie di muffa propagarsi dalla propria mano e propagarsi per una buona decina di centimetri in profondità. Quel muro invisibile era maledettamente spesso.

Rimase immobile.

Il verde si fece sempre più grigio, come se la barriera stesse marcendo a contatto con la sua mano. Appoggiò anche l'altra, accanto alla prima. Dopo poco sentì la superficie dura farsi più flessibile e le sue mani affondarono per un pezzo.

Le sembrava di toccare una plastica elastica. Vi affondò le dita. Scavò con le unghie mentre affondava nella barriera fino ai polsi.

Quando trovò il vuoto e sentì di nuovo l'aria sui polpastrelli ormai non vedeva più le proprie mani, immerse come erano nella muffa che stava indebolendo la barriera propagandosi dalla sua pelle.

«Come diavolo fai?» chiese Chris con gli occhi spalancati, per l'ennesima volta.

Per l'ennesima volta Rebecca non rispose.

Ormai il muro invisibile aveva consistenza di un gonfiabile un po' sgonfio.

«Franz aiutami» ordinò.

Il fratello si riscosse, la affiancò e, dopo un attimo di smarrimento, la imitò. Chris provò a fare altrettanto, ma non ci riuscì.

Franz e Rebecca riuscirono a creare un buco abbastanza grande per una persona minuta.

«Chris, sbrigati, infilati dentro.»

Il ragazzo bruno non se lo fece ripetere due volte. Si girò, puntò le mani a terra e infilò prima i piedi e poi le gambe nel buco che Rebecca e Franz continuavano ad allargare. Le spalle ci passarono appena, ma poi si ritrovò dall'altra parte.

Franz si infilò per secondo e il buco parve cedere sotto il suo peso. Quando toccò a Rebecca la ragazza dovette solo scavalcarlo.

Riprese in mano in telefono. «Una tacca» annunciò. «Avviciniamoci ancora» aggiunse, mentre componeva il numero del padre.

Chris si sfregò le mani sulle braccia. «Perché qui fa così freddo?» si lamentò.

Ormai era buio e si muovevano quasi alla cieca.

«Piuttosto...» ribatté Franz «perché tutte le luci della scuola sono spente?»

Un sibilo, seguito da un gorgoglio basso simile ad un ringhio soffocato, li fece trasalire e poi voltare.

Rebecca girò il telefono nel tentativo di illuminare il sentiero.

Intravidero una figura accucciata a terra, che avanzava lentamente spingendo avanti degli arti lunghi che teneva piegati accanto al corpo.

«Che diavolo è?» strillò Chris.

La luce fioca del telefono non arrivava abbastanza lontano.

L'essere sembrava una specie di rana con la testa piccola, ma era troppo immersa nell'ombra per poter essere definita. Il sibilo acuto che produsse fece venire loro la pelle d'oca. Per un attimo degli occhi verdi attraversati da una pupilla verticale brillarono in quella che doveva essere la testa.

«Correte!» strillò Rebecca.

Franz e Chris si stavano già allontanando a tutta velocità. Le loro falcate si susseguivano ad un ritmo inumano, ma non era il momento di fermarsi, non quando sentivano l'essere dietro di loro guadagnare terreno.

Altri suoni venivano dalla loro destra e dalla loro sinistra.

«Quanti sono?» gridò Franz.

«Non ne ho idea!» fece Chris di rimando. «Ma non voglio scoprirlo.»

Proprio mentre parlavano, sentirono Rebecca urlare e rotolare a terra. Si voltarono rallentando, ma senza fermarsi davvero.

Le ragazza era stesa sulla schiena, si stava sollevando sui gomiti.

«Rebecca!» chiamò il fratello.

Lei gettò la testa all'indietro. «Correte!» urlò loro. «Correte!»

Dopo, a causa dei sensi di colpa, se ne sarebbero pentiti, ma in quel momento l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e scattarono in avanti verso la scuola che sembrava non avvicinarsi mai.

Strani rumori giunsero loro, ma erano consapevoli solo del fatto che quelle creature non li stavano più inseguendo. Non rallentarono in prossimità della porta d'ingresso e vi andarono dolorosamente a sbattere visto che era chiusa.

Vi fu un attimo di smarrimento, poi, seguendo un istinto innato e sconosciuto cominciarono ad arrampicarsi su per il muro fino alla prima finestra aperta. Si ritrovarono in un'aula e corsero in corridoio.

Solo allora si fermarono e ripresero fiato.

Franz cadde in ginocchio per la fatica.

Le luci di emergenza, che fino a quel momento erano rimaste spente come tutte le altre, si accesero di colpo dissipando almeno in parte il buio della scuola. Dal piano di sopra venivano le voci agitate degli studenti.

«Rebecca» ansimò Franz rialzandosi in piedi e puntando di nuovo la finestra.

Chris scattò in avanti e lo afferrò. «Franz no!»

«Lasciami! È mia sorella!»

«Non sai cosa c'è là fuori! Dobbiamo aspettare!»

Franz si accasciò di nuovo a terra, esausto, mentre l'adrenalina abbandonava il suo corpo.


ʘ –


«Che succede?» chiese Carlotta allontanandosi dalla finestra alla quale era rimasta affacciata per quasi tutti il tempo.

«Sembra che la luce stia tornando» rispose Emma.

Una lampada sopra la porta si accese di colpo. I corpi ancora quadrettati e luminosi delle ragazze, invece, si spensero e tornarono al loro normale aspetto.

Carlotta si rese conto di essere ancora in intimo.


ʘ –


Era caduta a terra perché una mano dalle dita lunghe e forti come acciaio le aveva afferrato la caviglia prima di ritrarsi di scatto.

Ansimando, Rebecca tentò di rialzarsi. Rimase impietrita e in ascolto.

I fruscii e i sibili indicavano che era circondata, che quelle creature erano almeno una decina.

Avvicinò le gambe al corpo, poi si portò in avanti e poggiò la mani a terra.

Si guardò intono.

Ogni tanto degli occhi blu, verdi, viola, rossi e gialli si illuminavano per qualche secondo, abbastanza da terrorizzarla.

Non ricordava di essersi mai sentita così. I suoi occhi continuavano a saettare senza mai fermarsi davvero, i sibili acuti venivano da ogni direzione. Il suo cervello lavorava velocemente, anche se non riusciva a formulare un solo pensiero coerente.

«Cosa siete?» ansimò, la voce che le si strozzava in gola.

Degli occhi verdi si accesero e rimasero illuminati.

Si fissarono a lungo.

Il suo sangue freddo fu messo alla prova come mai prima d'ora. Sapeva che scappare avrebbe peggiorato la situazione.

Gli altri esseri si zittirono, ma il verde continuò a sibilare.

Con un brivido Rebecca si rese conto che stava tentando di comunicare. Si sporse in avanti. «Chi siete?» scandì lentamente.

Vide anche gli occhi verdi che la fissavano avvicinarsi. Cominciò a sudare freddo, ma si costrinse a rimanere ferma.

Sentì le altre creature annusare.

«Chi...» riprovò, ma poi un trillo acuto vece scattare tutti.

Le creature fecero un balzo indietro al suono del suo telefono e lei sentì le ali spuntarle sulla schiena. Si sollevò in aria, ma incontrò dei rami che le impedivano di salire. Le ali argentate con filamenti rosa erano leggermente luminose. Individuò un varco tra le creature che si stavano di nuovo avvicinando e vi si infilò.

Si tastò freneticamente i calzoncini e recuperò il cellulare prima che smettesse di squillare. «Pronto?»

«Rebecca, mi avevi chiamato? Che succede?»

«Papà!» urlò, incapace di trattenersi. «Io...» qualcosa la colpì e cadde a terra.

Mani robuste e ossute la afferrarono quasi ovunque. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Poi sbatté la testa contro qualcosa di duro e tutto sparì velocemente.


ʘ –


Ludovic sentì finalmente il proprio battito rallentare, come se l’ansia si fosse improvvisamente spenta.

Si guardò intorno. Sbatté le palpebre e tutto tornò normale. Con un suono breve e squillante sia la telecamera che l'allarme si riaccesero.

«STUPIDE LAMPADE, SONO SEMPRE IN RITARDO! NON VEDO NULLA!»

«Jessy!»


ʘ –


«Rebecca? Rebecca!» Jeremy si portò una mano alla testa e per l'agitazione si conficcò le unghie nel collo. «Becky!» chiamò di nuovo, ad alta voce.

Ormai dal telefono provenivano solo fruscii e suoni indistinti.

Il buio della stanza rifletteva la paura del suo animo.

Il telefono di Rebecca dovette sbattere da qualche parte, ma non si spense.

Jeremy si allontanò dalla grande finestra e fece saettare lo sguardo nella stanza. Aelita era seduta sul bordo del letto, gli occhi fissi su di lui che esprimevano spavento e ansia.

Si portò indice e pollice al naso e si tirò su gli occhiali mentre restava in ascolto. Sentì movimento, poi un suono flebile ma profondo, un sibilo distorto.

Rimase in silenzio mentre una voce animalesca si modellava in un verso orribile e terribilmente simile alla parola “papà”.

«Re-Rebecca?» chiamò, con un fil di voce.

Dall'altra parte c'era molta agitazione. Gli arrivarono dei versi agitati, ancora quella voce sibilante, dei colpi ripetuti, poi la comunicazione si interruppe.

«Che succede?» chiese subito Aelita, senza nascondere l'ansia nella sua voce.

«Non ne ho idea. Chiama gli altri. Di qualunque cosa si tratti, qualcosa non va in quella scuola!»


  
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