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Autore: Artemide12    07/04/2015    3 recensioni
Settembre.
Kadic.
20 anni dopo.

La preside Delmas dà il benvenuto a Franz Belpois, Emma della Robbia, Carlotta Dunbar e Chris Stern.
Sei amici si rincontrano per l'ennesima volta.
Nulla sembra veramente cambiato al Kadic. Tranne in fatto che XANA è stata sconfitta ovviamente.
Franz, Rebecca, Emma, Carlotta, Ludovic e Chris sembrano ragazzi normali, ma presto dovranno fare i conti con ciò che i loro genitori hanno fatto tanti anni prima.
Realtà e Mondo Virtuale si intrecciano e si confondono per chi ha immediato e incontrollato accesso ad entrambi. È la conseguenza di una metamorfosi che nessuno aveva considerato.
Ma quando questo potere diventerà un pericolo?
Presto il Kadic tornerà ad essere ciò che non ha mai smesso di essere: lo scenario di una guerra virtuale che non è ancora finita.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, X.A.N.A.
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Metamorfosi Cap6;

begin

    write('Conoscersi, o riconoscersi');

    readln;

end.


Nessuno dei ragazzi sapeva bene che fare e finirono per non fare proprio niente.

Corsero ognuno nella propria classe, o quasi.

Di Chris girava voce che fosse stato portato in presidenza, altri sostenevano che l'avessero chiuso in infermeria in attesa di un medico, altri ancora, i più maligni, che fosse già chiuso in un manicomio.

Franz era rimasto in camera fino a tardi. La testa aveva cominciato a fargli male veramente, forse per il fatto di non essere riuscito a dormire. Minuto dopo minuto il dolore si faceva sempre più insopportabile. Non riusciva nemmeno a pensare lucidamente.

Verso le otto e mezza allontanò le coperte con un movimento scomposto e scese dal letto. Si mosse così velocemente che fu assalito da potente senso di vertigine. Si portò una mano alla testa e premette forte le mani sulle tempie finché non passò.

Fece degli affannosi respiri profondi e aprì lentamente gli occhi. Era caduto per terra. Probabilmente si era appena procurato qualche livido, ma non gli importava.

Si aggrappò al letto e si alzò in piedi con cautela. Gli pulsavano le orecchie e si sentiva poco stabile. Sorreggendosi alla parete con una mano barcollò fino al bagno.

Cosa diavolo avrebbe alleviato quel dannato mal di testa? Aprì l'armadietto accanto allo specchio ma, a parte gli spazzolini e il dentifricio che lui stesso vi aveva messo, lo trovò vuoto.

Si sorresse al lavandino per riprendere fiato. Tutto quel movimento e quella concentrazione su cosa doveva fare gli stavano costando uno sforzo enorme.

Aprì l'acqua, prima gelida e poi bollente, e per un po' non fece altro che guardarla scorrere. Si sciacquò il viso, ma non servì a nulla. Percepì appena l'acqua sulla pelle.

Per la prima volta alzò lo sguardo sullo specchio. Per qualche istante lo stupore gli fece dimenticare del mal di testa. I suoi occhi erano sempre stati ambrati – cosa che lo aveva sempre lasciato molto perplesso visto che entrambi i suoi genitori li avevano azzurri, proprio come Rebecca – ma mai così indubbiamente dorati come in quei giorni. Inclinò leggermente la testa in varie angolazione per poter studiare meglio le proprie iridi. Riflettevano la luce proprio come se fossero state delle monete forate posate sulle palpebre.

Chiuse e riaprì gli occhi più volte, ma non cambiò nulla.

Distolse lo sguardo da quello del proprio riflesso e andò oltre. Si portò una mano alla guancia per assicurarsi che fosse reale, ma ebbe dei dubbi anche sulla propria mano.

Si avvicinò allo specchio per vedere meglio. Era come se la sua pelle stesse diventando trasparente rivelando ciò che c'era sotto. Non si vedevano però capillari o muscoli, ma solo uno strano reticolo, come se sotto l'epidermide vi fosse un'impalcatura fatta di piccolissimi pannelli. Ce n'erano di bianchissimi, di grigi, color crema e dorati.

Erano dappertutto, sul naso, sulle orecchie, sulle palpebre.

Cosa diavolo gli stava succedendo? Si stava forse trasformando in un alieno?

Una specie di risata nervosa gli risalì la gola, ma prima che potesse aprire bocca gemette per un'altra fitta alla testa.

Si aggrappò al lavandino per non cadere a terra. Quando la fitta passò rialzò lo sguardo. Non era cambiato nulla.

Tornò al letto e vi si lasciò cadere pesantemente. Affondò la testa nel cuscino per soffocare un altro gemito.

Non ne poteva più.

A chi poteva chiedere aiuto? L'infermeria al piano di sotto gli sembrava troppo lontana, irraggiungibile. E poi era sempre piena di ragazze pettegole che andavano lì inventandosi malanni inesistenti solo per saltare le lezioni. Attirare l'attenzione e stare ancora peggio non rientrava affatto nei suoi piani.

Rebecca. Quanto avrebbe voluto che fosse lì. Lei aveva sofferto molto di mal di testa l'anno prima. Si ricordava bene di tutte le volte che aveva chiamato casa per avere consigli dalla madre su cosa fare.

Sua madre! Avrebbe potuto chiamarla anche lui.

Senza sollevare la testa dal cuscino e muovendo solo gli occhi, perlustrò la camera cercando di ricordare doveva aveva messo il telefono in modo da compiere il percorso più breve per arrivarci. Lo individuò sulla scrivania, ben in vista, e sospirò di sollievo.

Si alzò, attese che le vertigini passassero e in poche, lunghe, falcate arrivò alla scrivania, riprese fiato, afferrò il telefono, si voltò e tornò al suo letto. Vi rimase steso per diversi minuti prima di riuscire a riprendere lucidità.

Premette il tasto di chiamata rapida e portò il cellulare all'orecchio. Ascoltò gli squilli con insofferenza.

«Franz!» esclamò Aelita dopo un tempo così lungo che il ragazzo credette di aver sentito la voce della segreteria telefonica.

«Mamma!» ansimò con un fil di voce.

«Franz, stai bene?»

«Io... no. Mamma... ho mal di testa.»

Aelita rimase in silenzio per qualche istante. «Mal di testa?» ripeté poi.

«Sì» gemette Franz. «Come Rebecca l'anno scorso, ricordi?»

«Sì.»

«Non ne posso più» si lamentò. «Non ne posso più!» Gli veniva da piangere.

«Franz,» riprese Aelita, ora confusa oltre che agitata. «Franz che succede?»

«Non lo so!»

«Dove sei?»

«In camera mia.»

«Dove sono gli altri?»

«Non lo so!» Si sforzò di pensarci. «In classe credo.»

«E tua sorella? Dov'è? Sta bene?»

Franz sentiva di non poter rimanere lucido ancora a lungo. «Non lo so!» ripeté e sentì delle lacrime di frustrazione inondargli gli occhi serrati. «Voglio solo che smetta, voglio che smetta.» Una parte di lui era consapevole di starsi comportando come un bambino, ma ad un'altra non importava.

«Il mal di testa?»

«Sì!» Fece dei respiri profondi.

«Avevo dato a Rebecca delle pillole.»

Franz si limitò a grugnire. «Fa male» mormorò.

«Lo so, lo so, sembra che ti debba esplodere la testa, sta' tranquillo, stiamo arrivando.»

Franz ebbe un momento di lucidità. Gli bastò per rendersi conto che non era come diceva sua madre. Non aveva l'impressione che la testa gli stesse per scoppiare. Sembrava più di avere una animale che vi si muoveva dentro procurandogli fitte ora in punto ora in un altro.

Sua madre stava ancora parlando al telefono. «Franz? Franz mi senti?»

«Sì» sussurrò.

«Come stanno gli altri?»

«'ene» abbozzò.

Il dolore stava scemando. La sua testa si stava finalmente svuotando. Strinse il telefono come se potesse aggrapparsi alla voce della madre.

«'amma?»

«Sì?»

«Davvero state venendo qui?»

«Sì tesoro.»

Si sentì invadere da un profondo senso di sonnolenza.

«Ho sonno.»

«E il mal di testa?»

«'n so» mormorò prima di chiudere le palpebre.


ʘ –


Emma continuò a disegnare sul banco, sovrappensiero, e quasi non si accorse della campanella che indicava che la prima ora era finita.

Anna apparve sulla soglia, si fece largo tra i banchi passando davanti a ragazzi troppo intenti a chiacchierare per accorgersi di lei e si fermò accanto ad Emma.

«Posso sedermi vicino a te?» chiese.

Emma alzò lo sguardo dal proprio scarabocchio e annuì senza particolare interesse.

«Dove sei stata?» chiese, giusto per non rimanere in silenzio come aveva fatto per tutta l'ora precedente.

«In infermeria, sai, dopo che Chris mi ha sferrato quel pungo.» E si portò la mano alla mascella.

Emma annuì. E poi, all'improvviso, le venne in mente quello che era successo nella mensa. «Aspetta un attimo!» esclamò all'improvviso, raddrizzandosi. «Tu l'hai vista!»

Anna la guardò senza capire.

«Rebecca! Tu l'hai vista!»

«Che domande! Certo che l'ho vista, sono la sua compagna di stanza, ricordi?»

«Appunto! Tu l'hai vista, stamattina, a mensa, ci hai parlato.»

«Certo.»

«Quindi Chris non se l'è immaginata. E nemmeno io!» aggiunse rendendosi conto di ciò che lei stessa aveva visto. Balzò in piedi. «Dobbiamo assolutamente dirlo alla preside!»

«Cosa dovresti dire di preciso alla preside, Della Robbia?» chiese la professoressa di storia, appena entrata. «E tu e chi?»

Emma fu troppo sorpresa per rispondere. Guardò Anna che fece spallucce. La professoressa di storia seguì il suo sguardo, ma era chiaro che non vedeva niente lì dove c'era Anna.

Emma sentì il cuore batterle forte. Stava avendo un'allucinazione? Come Chris? No, avevano visto entrambi la stessa cosa, non potevano avere avuto la stessa allucinazione. E poi come faceva Anna a non essere reale? C'era dall'inizio dell'anno. Si era sempre seduta dietro di lei. Certo, al banco era da sola, ma era normale visto che erano di numero dispari. Diversamente, perché avrebbero dovuto tenersi un banco in più?

La guardò.

Era troppo perfettamente imperfetta per non essere reale.

Come potevano i suoi ricci stretti come cavatappi e rossi come il sangue essere finti? Come potevano i suoi tratti così definiti essere un'illusione? Come potevano i suoi occhi verdi ed espressivi non esistere?

Cercò qualcosa che le dicesse che non poteva essere vera.

Il gatto che la perseguitava dalla prima lezione di ginnastica era viola e sorrideva, ma Anna? Anna Zuz, la chiacchierona dell'ultimo banco che si lamentava tutti i giorni che il suo nome veniva saltato perché era l'ultimo dell'appello.

Il cuore le batteva forte.

Voltò la testa e fissò di nuovo la professoressa, dritta negli occhi. La vide sussultare per un istante.

«Nessuno, era un modo di dire» abbozzò.

La professoressa sbuffò dal naso e si voltò, per tornare alla cattedra.

Emma si risedette, continuando a studiare Anna.

«Oddio, hai gli occhi lilla!» esclamò lei, nel silenzio totale, eppure nessuno si voltò a guardarla. «E sono proprio lilla, non azzurri.»

Emma non rispose.


ʘ –


Erano tutti e sei seduti intorno ad un minuscolo tavolino rotondo. Non avevano mai visto un motel più scadente.

«Io non capisco dove sia il problema» insistette Odd. «Noi entriamo nella scuola e chiediamo dei nostri figli, cosa vuoi di più? In questo modo farai anche notare che Rebecca è sparita.»

«Non possiamo irrompere nella scuola» osservò Ulrich.

«Infatti non stiamo irrompendo, ci stiamo solo presentando.»

«Io sono d'accordo con Odd» affermò William. «Tu cosa dici, Jeremy? Infondo è Rebecca che sembra sparita.»

Jeremy però era assente, fissava il vuoto davanti a sé, inespressivo e allo stesso tempo preoccupato. Odd gli sventolò una mando davanti agli occhi e lui sbatté le palpebre.

«Stavamo dicendo...»

Ma proprio in quel momento un cellulare cominciò a squillare.

Ulrich si tastò prima i pantaloni, poi il giacchetto. Quando finalmente trovò il telefono fissò lo schermo e fece una smorfia delusa.

«È la scuola» osservò sollevando le sopracciglia.

«Che aspetti a rispondere?» esclamò Yumi.

Ulrich sbuffò e si portò il telefono all’orecchio. «Pronto?»

«Buongiorno, parlo con Ulrich Stern?»

«Sì» confermò Ulrich. «Il padre di Chris» aggiunse, per velocizzare la conversazione.

«Sono Lea, dalla segreteria scolastica. La contatto perché suo figlio è stato ripreso questa mattina per dei disordini a mensa. A causa delle sue reazioni ai richiami abbiamo ritenuto necessaria la convocazione dei genitori.»

«Che tipo di disordini?»

«Vi sarà spiegato tutto durante un colloquio con la preside. Vi è possibile raggiungere la scuola in breve tempo?»

«Posso essere lì in un’ora» si affrettò ad assicurare Ulrich. «Mio figlio sta bene?»

«Io… credo che sia meglio che vi sia spiegato tutto di persona.»

«Ma sta bene?» insistette.

La segretaria sembrava a disagio. «È stato sotto osservazione per un po’, ma sta bene.»

Ulrich non riuscì a trattenere un’imprecazione.

«Signor Stern?»

«Cos’altro c’è?» sbottò.

«C’era solo il suo recapito nella scheda di suo figlio Chris. C’è una madre da contattare?»

Ulrich si irrigidì, ma sentiva addosso gli sguardi di tutti gli altri perciò si costrinse a mantenere un’espressione neutra. «No» disse solo.

«D’accordo.»

Per qualche momento vi fu silenzio da entrambi i capi del telefono, poi la segretaria salutò e riattaccò senza aggiungere altro.

«Allora?» chiese subito Odd, prima ancora che Ulrich avesse messo via il cellulare.

«Sono stato convocato, pare che Chris si sia messo nei guai.»

«Questa sì che è una bella notizia!» esclamò l'amico. «Vuol dire che ha preso da te! O da me!»

«Significa che ora abbiamo un buon motivo per presentarci a scuola» sentenziò Jeremy. «Muoviamoci» aggiunse alzandosi.


ʘ –


Ludovic non resse che la prima ora di lezione.

Allo squillo della campanella chiese di andare in bagno e non rientrò. Uscì in giardino accodandosi ad una terza che andava a fare lezione di ginnastica all'aperto e fece il giro della scuola. Si arrampicò su un muro e vi camminò per un po'.

Alzò lo sguardo verso il cielo.

Non c'era nemmeno una nuvola, faceva persino caldo, non c'era traccia della tempesta di quella notte. Ispirò l'aria frizzante della mattina. Un brivido piacevole lo percorse risvegliando ogni singolo muscolo.

Si guardò intorno.

A diversi metri dal muretto c'era un grosso albero nodoso. Percorse con lo sguardo il tratto d'aria che li separava. Un salto sarebbe stato troppo azzardato.

Flesse le gambe e si spinse in avanti, verso l'alto. Il muretto parve modellarsi come una molla sotto il suo peso e ne aumentò la spinta. Ludovic atterrò su un grosso ramo.

«Forte.»

Puntò lo sguardo davanti a sé.

Corse finché il ramo non si fece troppo sottile per sostenerlo e balzò su quello dell'albero accanto. Continuò a saltare da uno all'altro, salendo e scendendo, mantenendo un equilibrio perfetto, come in un videogioco. Si fermò solo quando arrivò su un albero particolarmente vicino alle finestre di un'aula.

Si assicurò di essere nascosto dalle foglie già più marroni che verdi e sbirciò dentro la stanza. Riconobbe l'altra seconda della scuola.

Avanzò di qualche passo sul ramo, saggiandone la resistenza ad ogni passo e tese il collo il più possibile.

Rebecca era lì. Seduta al secondo bando, nella fila di centro. La sua solita compagna di banco, però era seduta accanto ad un altro ragazzo.

Nessuno vedeva quella Rebecca, ne era sicuro, ma lei non sembrava accorgersene.

Chi era? Cosa era?

Ai suoi occhi che quella non fosse la vera Becky era lampante.

Come poteva attirare la sua attenzione? Lei poteva anche essere invisibile agli altri, ma lui no.

Avvertì uno spostamento d'aria e alzò lo sguardo.

Sgranò gli occhi.

L'uccello variopinto di era posato qualche ramo più in alto e puntava lo sguardo su di lui. Ludovic s'irrigidì, poi ebbe un'idea.

Stupida, e forse inutile, ma pur sempre un'idea.

Si alzò lentamente in piedi per essere più vicino all'uccello che lo fissava con intensità, vigile. Rimase immobile per qualche secondo, poi gli afferrò le zampe con un movimento così repentino che quasi non vide le sue stesse mani.

L'uccello gridò e si divincolò.

Ludovic lo lasciò andare all'istante. Aveva ottenuto ciò che voleva.

Rebecca, o chi per lei, si era voltato verso di lui.

Agitò le braccia per essere sicuro di farsi notare.

Rebecca rispose con un incerto cenno della mano.

Ludovic le fece segno di avvicinarsi.

Lei si guardò intorno, poi si alzò e si avvicinò alla finestra aperta sporgendosi leggermente in avanti.

«Vieni!» soffiò Ludovic, timoroso di farsi sentire dagli latri ragazzi dentro la classe.

La ragazza granò gli occhi.

«Dai!» la incitò.

Lei fece un passo indietro, poi si sedette sul davanzale e portò le gambe verso l'esterno e si lasciò cadere.

Ludovic credette che fosse impazzita, poi si ricordò che quella non era Rebecca, che probabilmente non era neanche umana. Saltò da un ramo all'altro fino ad arrivare a terra a propria volta.

Ora che era faccia a faccia con lei non sapeva cosa fare. Che fosse identica a Rebecca lo aveva già notato a colazione e se ne era già stupito.

«Ciao» fu tutto ciò che trovò da dire.

Lei abbozzò un sorriso.

«Come ti chiami?»

Lei sollevò un po' le spalle.

«Rebecca?»

Lei si limitò a guardarlo confusa.

«Non puoi parlare?» chiese spazientito.

Lei scosse la testa e lui alzò gli occhi al cielo.

«Da dove vieni?» provò.

Lei si voltò a guardare la scuola e indicò una finestra.

Ludovic si chiese cosa fosse. «Portamici» le ordinò.

Lei si incamminò senza aspettare che la seguisse e rientrò nell'edificio del Kadic.

Evitarono di farsi vedere dai bidelli e salirono le scale. Imboccarono il corridoio del dormitorio femminili e si fermarono davanti ad una delle camere.

Ludovic lesse il nome sulla targhetta.

Belpois – Zuz

«Fantastico! Ed è la tua stanza?»

Lei annuì.

«Da quando?»

Fece roteare la mano verso dietro.

«Ieri?»
Lei annuì.

«Ieri sera?»

Lei scosse la testa e ripeté il gesto.

«Prima di ieri sera, dal pomeriggio?»

Lei annuì.

«Hai preso il posto Rebecca ieri pomeriggio?»

Annuì.

«Perché?»

Dischiuse leggermente le labbra e si indicò la bocca.

«Te l'hanno detto?»

Annuì.

«Chi?»

Indicò il nome Belpois sulla porta.

Ludovic sgranò di nuovo gli occhi.

«Rebecca ti ha detto si sostituirla ieri pomeriggio?>

Lei annuì, felice di essersi fatta comprendere.

Ludovic non riusciva a crederci. Perché mai Rebecca avrebbe dovuto chiede a chiunque, e per di più a una ragazza invisibile, di sostituirla?

E poi un'idea gli attraversò la mente come un fulmine a ciel sereno che per un attimo gli illuminò i pensieri e poi li lasciò nel buio per diversi secondi.

Fissò la ragazza che aveva davanti.

No. Non poteva essere. Eppure non vedeva come potesse essere diversamente. Non vedeva cos'altro potesse esserci di più logico.

«Sei... un programma?» chiese, e dirlo ad alta voce lo fece sembrare ancora più stupido. «Sei una specie di ologramma? Quello che la sostituiva quando doveva uscire dalla camera indisturbata?»

Lei annuì.

Ludovic stentava ancora a crederci. Insomma, un conto era che Rebecca, che sapeva bene essere un genio, avesse creato un ologramma che rimanesse fermo sul suo letto quando lei non c'era, un altro era che l'ologramma in questione se ne andasse in giro per la scuola e interagisse con gli altri.

Cercò di mettere ordine alle idee. Il giorno prima Rebecca era uscita dalla sua camera di pomeriggio lasciando un programma al suo posto, poi era arrivata nella fabbrica abbandonata in cui erano andati Franz e Chris e sulla strada del ritorno era stata rapita da qualche strano essere.

Era tutto molto più assurdo che logico.

Si diede del matto.

Si era creduto pazzo anche l'anno prima, però, quando credeva di essere l'unico a vedere quegli strani animali, e non era così. Anche gli altri li vedevano. Anche Chris aveva visto questa Rebecca e aveva capito che non era lei.

Il resto della scuola però aveva creduto che se la stesse prendendo con il vuoto.

Quindi gli altri studenti non erano mai riusciti a vederla. Quella che Rebecca aveva creduto una valida copertura per tutto l'anno poteva in realtà funzionare solo sui suoi amici?

«Mi gira la testa» affermò. «Vieni.»

Si diresse per istinto verso le scale e cominciò a salirle per arrivare all'ultimo piano. Lì avrebbe potuto ragionare in santa pace.

Per qualche motivo quando era lì, al sicuro dagli animali invisibili, che una parte della sua mente si svuotava. Era una sensazione piacevole e un po' strana a dire il vero.

Aveva capito che quegli esseri non potevano arrivare lì per caso, quando l'anno scorso il granchio verde lo aveva rincorso per tre rampe di scale e poi si era fermato all'improvviso, come ostacolato da una barriera.

Salì i gradini velocemente, senza fermarsi neanche una volta. Si voltò solo quando fu arrivato in cima.

La non-Rebecca era ferma a metà della rampa.

«Dai, vieni!» la incitò.

Lei scosse la testa. Alzò la mano e stese le dita come se fossero appoggiate contro un vetro invisibile.

Ludovic scese i primi gradini fino a trovarsi davanti a lei. Alzò a propria volta le mani, ma non sentì nulla se non un leggero formicolio.

«Non puoi avanzare?»

Lei scosse la testa.

Evidentemente seguiva le stesse regole di quegli esseri. Infondo erano tutti programmi. Possibile che Rebecca fosse riuscita a ricreare la loro tecnologia senza accorgersene?


ʘ –


Batté più volte le palpebre per riuscire a mettere a fuoco. Le girava la testa, ma in maniera quasi piacevole.

«Cartagine?» ripeté, ma tutto ciò che le venne in mente furono le guerre puniche di Roma e la regina Didone dell'Eneide.

Si mise a sedere, poi voltò la testa nella direzione da cui era venuta la voce. Sussultò e granò gli occhi.

Davanti a lei c'era l'essere più bello e più inquietante che avesse mai visto.

Aveva una forma umanoide, ma nessun tratto somatico. Il suo corpo era trasparente, un involucro vuoto e lucido sulla cui superficie erano incavate ovunque lettere, numeri e simboli sconosciuti, simili a tatuaggi. Gli stessi che vedeva al posto dei mostriciattoli, a scuola, solo che questa volta avevano un ordine e, in qualche modo, un senso.

Erano un codice. L'intuito le diceva che ognuno di quegli esseri ne aveva uno differente, come un corredo genetico.

Confusa, turbata e affascinata, si guardò intorno.

L'ambiente in cui si trovava sembrava la sala operatoria di un ospedale: asettica e in qualche modo perfetta, anche se vuota.

La tavola argentata su cui era stesa – perfettamente orizzontale, senza spessore, e sospesa nel vuoto – era al centro di una stanza quadrata interamente azzurra. Pavimento e soffitto erano così lucidi che potevano benissimo passare per specchi. Le pareti, si rese conto, non erano altro che schermi.

Alla sua destra una linea continua sembrava monitorare un battito cardiaco. Si portò una mano al petto. Non c'erano ventose né nessun altro tipo di sensori. Eppure il suo cuore batteva allo stesso ritmo della linea sulla parete.

Alla sua destra, invece, delle linee colorate indicavano la sua attività cerebrale. O almeno così credeva.

Tornò a guardare le creature.

«Dove sono?» chiese, incerta. Per qualche motivo le sue parole le suonarono strane, come falsate.

«Sei a Cartagine» ripeté la creatura trasparente. «Capitale di Lyoko.»

«Cos'è Lyoko?»

«Il nostro mondo.»

In un altro momento una risposta del genere le avrebbe dato sui nervi.

«Chi siete?»

«I nostri nomi sono codici, troppo lunghi e complessi da pronunciare in questa lingua.»

All'improvviso si rese conto che non era la sua voce a suonarle strana, ma quella della creatura che aveva davanti. Era priva di imperfezioni, cadenze, accenti scorretti, tono. Di tutto ciò che l'avrebbe resa umana.

«Abbiamo assorbito dalla tua mente la tua lingua, in modo da poter comunicare.»

Si portò d'istinto una mano alla testa, sembrava quella di sempre.

Alzò lo sguardo per potersi specchiare sul soffitto. Qualcosa era cambiato. I suoi tratti si erano distesi, la sua pelle era liscia e priva di imperfezioni. Si rese conto di indossare un vestitino verdeacqua, piuttosto corto e smanicato, una specie di versione alla moda di un camice da ospedale.

«I vestiti non ti hanno potuta seguire durante il passaggio.»

«Passaggio?» ripeté.

Si sentiva ancora confusa. La sua mente lavorava in fretta, persino più in fretta del solito, ma era come uno strumento nuovo che deve ancora riscaldarsi.

Si rese conto che, escludendo le piccole rotazioni del collo e lo spostamento dello sguardo, non si era ancora mossa. Si sollevò lentamente, mettendosi a sedere. Il suo corpo rispondeva alla perfezione, si sentiva persino più elastica e libera nei movimenti del solito.

«Tra il tuo mondo e il nostro» rispose intanto la creatura.

Aspettò che continuasse, ma non lo fece. Evidentemente bisognava fare domande precise.

«Quanto tempo è passato da quando... mi avete presa?»

«Circa dodici delle vostre ore.»

«Circa?» ripeté, sorpresa da una risposta così imprecisa.

«Qui misuriamo il tempo in maniera molto diversa e di gran lunga più accurata, ma dandogli meno importanza.»

«Dove sono, di preciso?» era consapevole del fatto che le sue domande erano sconnesse, ma poneva quelle che le venivano in mente senza rifletterci troppo e le creature non ne sembravano affatto disturbate.

«In uno del blocchi di Cartagine. Credo però, che il termine più adatto nella tua lingua sia “un palazzo del centro”.»

«Cartagine è una città?»

«Così si può definire nella tua lingua.»

Rebecca gli scoccò un'occhiataccia per l'ennesima risposta breve, ma la sua espressione non fu interpretata in alcun modo. Infondo quelle creature sembravano non avere lineamenti, quindi probabilmente non conoscevano il valore delle espressioni.

Doveva cambiare tattica.

Poggiò i piedi a terra. Si aspettava che il pavimento fosse freddo, ma la superficie riflettente non aveva temperatura. Nulla lì aveva temperatura probabilmente.

Si mise in posizione eretta. Sentì la colonna vertebrale distendersi, vertebra per vertebra, come se fosse in acqua. Non avvertiva, però, il proprio peso gravare sulle ossa.

«Mostrami Cartagine» ordinò, ma facendolo suonare come un invito «e parlami di ciò che siete e da dove venite».

La figura si spostò di lato, fece un cenno rapidissimo a quella che era rimasta alle sue spalle e posò una mano sulla parete. Gli schermi che monitoravano battito, attività cerebrale e altro che non era riuscita ad identificare, scomparvero all'istante.

Difronte a lei una porzione della parete si sollevò in pochi istanti.

Seguì la figura fuori.

«Lyoko è un mondo digitale creato molti anni fa.»

«Quanto di preciso?» chiese, di nuovo disturbata dall'inesattezza dell'informazione.

«Non possiamo dirlo di preciso. Noi siamo comparsi in seguito. Occupiamo Cartagine solo da quindici dei vostri anni.»

«Per mondo digitale intendi un programma? Un computer?»

«Entrambi. E nessuno dei due.»

«Parlami di Lyoko.»


ʘ –


Ulrich entrò per primo, seguito, a distanza di diversi passi, dagli altri.

Una bidella venne loro incontro.

Ulrich si presentò con tutta la calma che riuscì a trovare, ovvero molto poca.

«La preside ve sta aspettando» confermò la donna, poi si rivolse agli altri «Voi...»

«Potremmo fare un giro della scuola, almeno all'esterno?» chiese subito Aelita, come stabilito. «Siamo ex-studenti, ci piacerebbe dare un'occhiata.»

La donna annuì con noncuranza e spiegò a Ulrich come raggiungere la presidenza. Lui non la ascoltò nemmeno. Ricordava fin troppo bene la strada.

Si voltò un'ultima volta verso gli altri. Odd sollevò un pollice nella sua direzione prima di uscire.

Ulrich salì le scale cercando di svuotare la mente. Si fermò solo quando sentì una voce familiare venire dall'alto.

Riprese a salire, questa volta più velocemente, superò dei cartelli di lavori in corso e arrivò sull’ultimo pianerottolo, ad una rampa di scale dall’ultimo piano.

Ludovic, il figlio di Yumi, stava fissando un punto davanti a sé, come se ci fosse qualcuno.

«Ludo!» esclamò.

Il ragazzo sobbalzò e si voltò con il cuore in gola.

«Ulrich?» esclamò incredulo lanciando uno strano sguardo al vuoto accanto a sé mentre scendeva le scale. «Che ci fai qui?» sembrava più preoccupato che felice di vederlo.

«Sono stato convocato» spiegò. «Pare che Chis si sia messo nei guai.»

«Lui...» Ludovic non sapeva esattamente che dire «non ha fatto nulla di male, era solo scosso». Lo sguardo del ragazzo continuava a spostarsi alla sua destra.

Ulrich inclinò la testa per cercare di capire cosa guardasse, ma non vide nulla.

«Devo andare, ci sono anche gli altri, magari incontri i tuoi genitori» disse facendo per andarsene. «Ma tu non dovresti essere in classe?» notò all'improvviso.

«Ora di buco» rispose Ludovic ed era chiaro che fosse una scusa.

Ulrich abbozzò un sorriso, poi tornò sui propri passi, più confuso di prima.

Cosa diavolo aveva Ludovic?


ʘ –


«Io propongo di separarsi» disse Jeremy. «Così potremo scoprire di più.»

Gli altri annuirono.

«Io entro nella scuola» affermò Aelita. «Devo trovare Franz, specialmente se sta ancora male.»

Jeremy annuì. «Vengo con te.»

«Noi perlustreremo l'esterno» si offrì Yumi guardando William che annuì.

«No, all'esterno penserà Odd, voi dovete andare alla fabbrica, non ne sono sicuro e spero di sbagliarmi, ma temo che c'entri qualcosa.»

William e Yumi annuirono e corsero subito via, seguiti da Odd.

Jeremy e Aelita si scambiarono un rapido sguardo, poi ripresero a camminare finché non trovarono una finestra aperta che desse su un locale vuoto. Entrarono muovendosi con disinvoltura. Si ritrovarono in un'aula vuota, probabilmente un laboratorio mai usato. Forzarono la porta e sbucarono in un corridoio che portava direttamente a delle scale di servizio. Le salirono in silenzio, fermandosi solo nei pianerottoli per lanciare sguardi all'esterno attraverso le finestre.

Jeremy ritrovò facilmente il corridoio del dormitorio maschile. Faceva un certo effetto tornare a girare nel Kadic, ma quello non era il momento di soffermarsi su questo.

Si separarono e lessero i nomi su tutte le porte fino a trovare Belpois – Stern.

Aelita bussò, ma non ottenne nessuna risposta. Jeremy si tastò le tasche fino a trovare un passepartout e lo usò per aprire.

Aelita sollevò un sopracciglio, ma non fece domande. Si fiondò dentro appena le fu possibile.

Franz era steso sul letto in una posizione scomposta, come se fosse svenuto invece che essersi addormentato. Il cellulare era ancora sul cuscino.

Il respiro era regolare.

Aelita si sedette sul bordo del letto e appoggiò le mani sulle spalle del figlio. Jeremy era alle sue spalle, guardingo.

«Franz? Franz?» chiamò Aelita cominciando a scuotere leggermente il figlio.

Il ragazzo reagì solo dopo diversi minuti. Mugolò qualcosa di incomprensibile, poi smise di muoversi.

Spalancò gli occhi all'improvviso, scattando a sedere nello stesso istante, chiaramente spaventato. Fissò i genitori confuso, ansimando.

«Mamma!» esclamò poi. «Papà!»

Aelita lo abbracciò di slancio, stringendolo a sé e affondando il viso nei suoi capelli. «Mi hai fatto morire di paura!»

Franz non rispose, ma era chiaro che la pensava allo stesso modo. Si raddrizzò e anche Jeremy si sedette accanto a lui.

«Cos'era questa storia del mal di testa? Ora stai bene?»

«Credo di sì.» Si portò le mani alle tempie. «Sì.» Si stropicciò gli occhi, ancora non del tutto sveglio. «Per ora.»


ʘ –


La vide appena imboccò il corridoio.

Se ne stava accanto alla porta della presidenza, la schiena appoggiata alla parete, lo sguardo concentrato e vuoto allo stesso tempo fisso davanti a sé.

Chissà sotto l'effetto di quali farmaci era.

I capelli scuri erano sciolti e le ricadevano lisci in avanti, coprendo parte del volto. Teneva le braccia incrociate sul petto, le mani nascoste. Portava una maglietta a maniche lunghe, aderente ma morbida, dello stesso pallido beige della carnagione. La scollatura a barchetta lasciava scoperti il collo, le clavicole e parte delle spalle. Le gambe erano fasciate da un paio di jeans neri e stivali lucidi. La sinistra era piegata e il piede appoggiata alla parete.

Non sembrava essere lì in veste di preside.

Ulrich continuò ad avanzare tentando di concentrarsi solo sui propri passi. Come l'avrebbe trovata? Imbottita di psicofarmaci e poco presente? O fin troppo lucida?

Scherzando l'avevano sempre ritenuta un po' svitata, ma non così tanto. Nessuno sapeva com'era possibile che da un giorno all'altro fosse impazzita, perché era quello che era successo, non si poteva negarlo.

Gli psicologi avevano ripetuto costantemente che la causa era stato il trauma per l’improvvisa perdita del padre, avvenuta poco più di dieci anni prima, ma Ulrich aveva sempre pensato che il motivo dovesse essere un altro.

E se ora si fosse ripresa? Se fosse tornata quella di una volta?

Ulrich sperò solo che Chris non ci andasse di mezzo più del dovuto.

Elisabeth voltò la testa all'improvviso, sentendo i suoi passi.

Ci fu una specie di flash e immediatamente qualcosa – nella sua postura, o nel suo sguardo – cambiò. Si staccò dal muro e si mise in posizione perfettamente eretta, quasi schematica. I capelli neri che le nascondevano metà del viso furono gettati all'indietro.

Le labbra di uno sgargiante rosso acceso si stesero in quello che sembrava più un sorriso di sfida che di benvenuto. Spiccavano in maniera impressionante considerando che il resto di lei sembrava uscito da una foto in bianco e nero.

«Finalmente ci incontriamo» lo salutò e allungò la mano destra. Anche le unghie erano rosse e sembravano artigli.

Ulrich la strinse con cautela.

«Chris?» chiese subito.

«È dentro.»

Elisabeth si voltò per aprire la porta della presidenza, poi si fece da parte per lasciarlo passare. Con gli stivali era alta quanto lui.

Pronto com'era a trovarsi davanti una stanza per nulla cambiata negli ultimi vent'anni, Ulrich all'inizio si trovò spiazzato. Era molto più piccola di quanto ricordasse e praticamente vuota.

Chris, che se ne stava seduto su una delle sedie davanti alla scrivania, balzò immediatamente in piedi. «Papà!» esultò.

Ulrich gli sorrise, ma non si sbilanciò oltre. Infondo era lì per discutere del comportamento indisciplinato del ragazzo.

«Prego» disse Elisabeth facendogli un cenno verso la sedia accanto a quella del figlio e andando a posizionarsi dalla parte opposta della scrivania.

Ulrich non se lo fece ripetere due volte. Mentre si muoveva non staccò li sguardo dal figlio. Era chiaro che stava cercando un modo per dirgli qualcosa all'insaputa della preside.

«Allora,» esordì Elisabeth ignorando completamente le loro occhiate e rivolgendosi a Ulrich «sapete già perché siete stato convocato.»

Ulrich si riscosse e decise di comportarsi esattamente come lei, come se non si conoscessero. «Temo che le spiegazione che ho ricevuto siano stato poco vaghe.»

Lei lo guardò a lungo, come se volesse incolparlo del tempo che stava per perdere solo per spiegare di nuovo gli avvenimenti. Poi sbatté le palpebre sfoderò un sorriso misurato e si rivolse a Chris. «Perché non ce ne parli tu, così potremo avere direttamente la tua versione.»

Chris rimase evidentemente spiazzato. Aprì la bocca, ma per qualche istante non ne uscirono che suoni sconnessi. «Io... stavo facendo colazione. Da solo. Perché Franz non si sentiva bene» fece una pausa e guardò il padre.

Ulrich annuì una sola volta sperando che il ragazzo capisse che sapeva già di Franz e non lo stava semplicemente esortando a continuare.

«Ho visto Rebecca... Rebecca Belpois» aggiunse rivolto alla preside «seduta ad un altro tavolo. Stava chiacchierando con la sua compagna di stanza. Io non la vedevo da ieri sera, prima del temporale,» altra occhiata ad Ulrich che si limitò a mostrarsi interessato «avevo una cosa importante da dirle e mi sono avvicinato».

«Cosa di preciso, se si può sapere?» domandò subito Elisabeth.

Chris indugiò solo un secondo. «Che il fratello stava male e forse lei sapeva cosa fare.» Sembrava una battuta da copione imparata a memoria e recitata male.

Ulrich vide Chris chiudere le mani a pugni.

«E perché mai non avrebbe potuto rivolgersi all'infermeria?» osservò la preside.

«Perché... era solo un mal di testa. Un mal di testa molto forte, ma... è una cosa di famiglia, lui... ricordava che anche Rebecca ne aveva sofferto l'anno scorso» abbozzò. «Era forte, non grave» aggiunse vedendo che i due adulti rimanevano in silenzio.

«Va' avanti» lo incitò Ulrich.

«Mi sono seduto al tavolo e ho provato a parlarle, ma lei non mi ha risposto. Non sembrava neanche conoscermi.» Sottolineò l'ultima frase e fissò intensamente il padre. «Era strana, si comportava come se non fosse più lei.» Sembrava essersi momentaneamente dimenticato della preside. «Infatti non era lei. Anna l'ho colpita solo per sbaglio, volevo solo sapere dov'è Rebecca, non so cosa mi sia preso. Era tutto così irreale! Come se fossimo ancora...» e qui s'interruppe.

Ulrich si sentì come se la tv si fosse spenta sul più bello di un film.

Spostarono entrambi lo sguardo sulla preside. Lei si limitò a spostare lo sguardo da uno all'altro.

«Qual'è la vostra versione invece?» chiese Ulrich.

Elisabeth abbassò lo sguardo sui fogli che teneva sulla scrivania, poi incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo schienale della sedia. «Semplicemente che quella di vostro figlio non sussiste.»

Ulrich non seppe cosa ribattere, ma non ve ne fu bisogno.

«Ci risulta che Rebecca Belpois non sia più nella scuola da ieri notte e stamattina risulta assente a tutte le lezioni, mi sembra improbabile che fosse a mensa.»

«Non era lei infatti!» esclamò Chris con slancio.

Elisabeth lo fulminò con lo sguardo e lui tacque.

«Nessuno l'ha vista. Ciò che ha attirato l'attenzione di tutti è stato un ragazzo del primo anno che ha cominciato a parlare al vuoto e dare pugni alla parete prima che un professore intervenisse e lo portasse qui.»

«Nessuno l'ha vista?» ripeté Chris incredulo. «Era con la sua compagna di stanza, Anna Zuz, non hanno visto nemmeno lei.»

Elisabeth si lasciò sfuggire un sorriso. «Sei sicuro di quello che dici?»

Chris aprì la bocca per rispondere subito, ma poi il suo sguardo si abbassò all'improvviso sulla scrivania, spalancò gli occhi e disse, con molta incertezza: «Assolutamente».

«Allora sarà il caso che tu sappia che alla fine dell'anno scorso Rebecca Belpois ha chiesto esplicitamente e formalmente di non dover più dividere la stanza con qualcun altro e la sua richiesta è stata accolta. Inoltre non risulta nessuna Anna Zuz iscritta a questa scuola.»


ʘ –


Rebecca continuò a salire le scale dietro a quella strana creatura. Tutte le volte che le aveva chiesto il nome le era stato risposto che nella sua lingua era troppo difficile da pronunciare. Sembrava l'identità più importante in quella “città”, Cartagine, perciò l'aveva mentalmente soprannominata Didone.

Si era presto resa conto che quel posto, ovunque si trovasse, non seguiva leggi fisiche come le aveva sempre conosciute. L'alto e basso dipendevano solo da dove teneva i piedi, un paio di volte aveva incontrato esseri che camminavano a testa in giù o in orizzontale, muovendosi su quelli che per lei erano soffitto e pareti.

Aveva lasciato che Dido le raccontasse la storia di Lyoko, per quanto incredibile fosse. C'erano ancora degli inspiegabili vuoti, ma Rebecca si guardava bene dall'interrompere il racconto.

Aveva capito che esistevano altri quattro luoghi all'interno di Lyoko: la foresta, la banchisa, il deserto, la montagna. Le creature come Dido abitavano delle specie di città-torri.

Rebecca non capiva come potessero arrivarci se non erano fisicamente collegati, ma forse non era il momento di avere questa risposta.

«Ancora non capisco» affermò ad un certo punto, fermandosi e sedendosi a terra. La stanchezza che provava era molto diversa da quella a cui era abituata. Si ripercuoteva sul suo corpo, ma era puramente mentale. «Voi che cosa c'entrate con virus virtuali e guerrieri digitali?»

«Noi siamo venuti dopo, quando questo posto è stato abbandonato, lasciato a se stesso, ma non distrutto. Come già aveva cominciato a fare in precedenza, ha preso vita propria. Non è il concetto di “vita” che si intende nella tua lingua, ma gli si avvicina molto.»

Rebecca appoggiò la schiena alla parete e allungò le gambe. Gettò indietro la testa. Sentì il proprio baricentro spostarsi. Ora era distesa su quello che prima era un muro verticale e le gambe erano stese verso l'alto, su quello che prima era il pavimento.

Dido era orizzontare rispetto a lei.

Cercò di non farsi distrarre.

«Siete delle forme di vita digitale? Nate dal nulla?»

«Solo se definisci “nulla” l'intero Lyoko.»

Rebecca sollevò le sopracciglia. «È tutto così assurdo» esclamò.

«E la tua mente è abbastanza elastica da comprenderlo e accettarlo, ce ne siamo assicurati dopo il tuo arrivo» replicò con la massima tranquillità Dido. «Hai un'innata familiarità, per non dire compatibilità, con questo mondo.» Il modo di esprimersi di Dido si era ampliato mentre parlava.

Rebecca sollevò la testa. Il suo baricentro si spostò di nuovo e tornò come all'inizio.

«Siamo quasi arrivati» annunciò Dido voltandosi.

Rebecca si alzò in piedi e la seguì.

Il corridoio dalla sezione quadrata che attraversavano si curvò fino a divenire verticale. Le scale erano ripide se usate per salire, ma anche in rapida discesa se si continuava a camminare senza prestare attenzione al cambio di angolazione.

Arrivarono in una specie di terrazza quadrata.

Lì la luce era fortissima. Rebecca si voltò verso la fonte. Non sentiva il bisogno di chiudere gli occhi, ma le servì comunque qualche istante per abituarsi.

Per un po' non vide altro che una distesa di piattaforme quadrate e azzurre, come quelle in cui si trovavano, poi riuscì ad individuare, all'orizzonte un'enorme sfera pulsante. O almeno così sembrava.

«Cos'è quella?»

«La nostra fonte di energia. Un po' come il vostro Sole, ma molto più complessa. Ci permette di ricaricarci e continuare a funzionare. Noi ci impegniamo affinché sia costantemente alimentata. Ognuno di noi è programmato per assolvere ad un compito preciso. Ecco, forse, come puoi definirci: siamo programmi. Di una struttura molto più complessa di quella che conosci, ma programmi.»

«Nessun programma può agire autonomamente.»

«Non lo facciamo. Ci limitiamo a seguire degli schemi di comportamento. Diversi per ognuno di noi ed estremamente articolati e complessi, ma schemi. La vita sta nella consapevolezza di questi schemi.»

«Questa consapevolezza può portare alla loro rottura?» chiese Rebecca. «Nel momento in cui l'uomo, o chi per lui, si accorge di quali sono i propri limiti tenta di superarli, è la natura.»

«Lo abbiamo fatto, o almeno stiamo cercando di farlo, ma in maniera diversa da come lo intendi. In questo mondo non possiamo uscire dai nostri schemi perché rappresentano la nostra ragione di vita. Siamo consapevoli che se smettessimo di seguirli arriveremo a distruggerci. Sono ordini ai quali non possiamo e non vogliamo disobbedire. Sono continui, non hanno un punto di arrivo, come quelli che regolano i vostri computer, composti da cicli che si ripetono.»

«Ma?» la spronò Rebecca.

«Ma non abbiamo ordini a cui ubbidire al di fuori di Lyoko.»

La ragazza rimase in silenzio per diversi istanti, nonostante avesse capito quasi subito dove quel discorso andava a parare. «State tentando i uscirne. State cercando di andare nel mio mondo. Ci site già riusciti. Mi avete rapita.» E finalmente pose la domanda che da ore le attraversava la mente senza riuscire a prendere forma definita: «Perché?»

«Non è come sembra. È vero, abbiamo trovato un modo per uscire, ma non per rimanere nel tuo mondo. Senza nulla ad alimentarci le nostre energie si esauriscono e siamo costretti a tornare.»

«E voi programmi una volta all'esterno riuscite ad acquistare una forma corporea?»

«Eravamo convinti di no fino a poco tempo fa. Ci è capitato di incontrare qualche umano, ma nessuno è mai sembrato vederci, né tanto meno sentirci. Ci attraversavano senza accorgersene. La nostra forma è sempre stata incompleta, inadatta ai vostri habitat. Tu e i tuoi amici, invece, avete avvertito la nostra presenza, sentito le nostre voci. Abbiamo potuto toccarci. Non era mai successo, per questo dico che hai un'innata compatibilità con questo mondo.»

«Ma perché dovrei averla?» ma mentre formulava questa nuova domanda le risposta le venne in mente, chiara, anche se non soddisfacente: «I miei genitori. C'erano i loro dati nella memoria del super-computer, come se qualcuno li avesse scannerizzati. Loro erano i guerrieri digitali?»

Dido non rispose.

«No, è assurdo, come avrebbero potuto entrare fisicamente in un computer?»

«Come hai fatto tu, suppongo.»

«Già, come ho fatto?»

«Non lo sappiamo. Ti ho spiegato che quando il super-computer venne spento Lyoko non cessò di esistere. Furono semplicemente tagliati i ponti tra questo mondo e il vostro.»

«Come avete fatto ad uscire allora?»

«Non ci è stato possibile finché qualcuno non ha collegato un dispositivo elettronico funzionante al super-computer. Ci siamo... telegrafati in esso e poi proiettati all'esterno.»

«Come quando ho scaricato i dati sul mio cellulare, siete usciti attraverso il mio telefono!» Non era una domanda, anche se un po' suonava come tale. «Quindi in tutto siete stati nel mio mondo solo due volte?»

Dido annuì. «Anche allora provammo a portare qualcuno qui, anche se non ci era possibile interagire. Non riscontrammo risultati soddisfacenti. Tutto ciò che ottenemmo fu una copia inanimata e l'impossibilità di tornare lì fuori. Tu invece sei arrivata qui, seppure priva di sensi, esattamente come noi.»

«Mi sono telegrafata qui?» esclamò Rebecca incredula. Non ricordava molto della notte passata a parte la paura provata. O forse qualcosa sì. Si concentrò. Aveva tentato di volare via, ne era sicura, ma non aveva funzionato bene. Aveva corso. Verso dove? Ricordava solo il buio. Di sicuro non nella direzione della scuola. Che fosse tornata da sola alla fabbrica? Che fosse arrivata da sola a Lyoko? No, impossibile. Le sarebbe servito il telefono, no? E lo aveva lasciato cadere, giusto? No. Se lo era ripreso. Le faceva male la testa.

«Sì.»

«Quindi, volendo, potrei tornare nel mio mondo?»

«No. Il passaggio è rimasto aperto per delle ore, poi si è interrotto.»

Doveva essersi scaricata la batteria, ne era certa.


ʘ –


Ludovic aveva aspettato che Ulrich si fosse allontanato per rivolgersi alla non-Rebecca.

Era evidente che Ulrich non l'aveva minimamente vista.

«Nessuno ti aveva mai vista a parte Rebecca e me?»

Lei scosse la testa.

«E allora come facevi a sostituirla?»

Allargò leggermente le spalle, come a dire che faceva il possibile.

A Ludovic venne da ridere. Tutti avevano sempre ignorato la falsa Rebecca perché non la vedevano! Di certo Rebecca, abituata a non attirare l'attenzione, non se n'era resa conto. Lei poteva vederla, ma quelli che voleva ingannare no. Avrebbe depistato solo loro, i suoi amici fidati, gli unici che avrebbero potuto fare a meno dell'inganno.

Si sedette sulle scale, appoggiò i gomiti alle ginocchia e si prese la testa tra le mani, ridendo. «È assurdo!»

La non-Rebecca sorrise e si sedette accanto a lui, anche se evidentemente per lei la posizione in cui si trovava non faceva differenza.

«Dobbiamo... devo trovare un modo per chiamarti, un nome. Non-Rebecca non si può sentire.»

Lei lo guardò inespressiva. Probabilmente non dava molta importanza alla cosa.

«Rebecca B? Dove B non sta per “Belpois”, ma per “seconda”, sai, come A, B, C,...» nessuna risposta. Ludovic sospirò «Okay, no. Non si può sentire nemmeno Rebecca B si può sentire. Solo B? “Bea”!, con un po’ di fantasia. Per te va bene?»

Lei annuì. Di sicuro avrebbe avuto la stessa reazione per qualsiasi altro nome, ma Ludovic non se ne curò.

«Vada per Bea allora.»


ʘ –


Chris non sapeva cosa fare.

Sulla scrivania della preside zampettava imperterrito un granchio verde fluo che nessuno altro vedeva. Brandiva le chele nella sua direzione.

Lui era troppo impegnato ad appiattirsi contro lo schienale per tenersi fuori tiro per ascoltare gli adulti.

La preside stava facendo un interminabile discorso a suo padre sulla sicurezza e, presumibilmente, sulla sua salute mentale. Avrebbe voluto protestare, ma come poteva spiegare a suo padre quello che aveva visto se era chiaro che lui non vedeva nulla? Neanche lui sapeva bene cosa fosse successo, come poteva risultare credibile?

All'improvviso si rese conto che nessuno stava più parlando.

Si guardò intorno. Stavano aspettando che parlasse lui.

«Non stavo ascoltando» ammise.

«La mia domanda era:» disse la preside senza scomporsi, ma con una stranissima espressione in viso «ti è capitato altre volte di vedere cose che non ci sono?»

Sì, pensò. Vedeva granchi verde fluo che se ne stavano tranquillamente fuori dall'acqua, gatti viola che sorridevano e uccelli variopinti che cambiavano dimensione.

No, si corresse poi. Li vedevano anche gli altri, era impossibile che avessero avuto tutti la stessa allucinazione. Che anche gli altri fossero frutto della sua fantasia?

«Come faccio a saperlo?» rispose allora.

Questa risposta spiazzò sia suo padre che la preside, ma in modi totalmente diversi.

Ulrich era stupito, quasi incredulo e in minima parte anche divertito da quella risposta ragionevole.

Elisabeth, per quei brevi istanti in cui lasciò che le emozioni plasmassero la sua espressione, parve sconvolta. In bene e in male allo stesso tempo. Come se le avessero diagnosticato una malattia incurabile. Quando si ricompose il suo viso non riuscì a tornare neutro. I suoi occhi continuavano ad esprimere un'improvvisa consapevolezza.

«Non puoi» mormorò alla fine, dopo un lungo conflitto interiore.

Chris era ormai così confuso che si limitò a fissare suo padre.

Fu il turno di Ulrich, infatti, di essere colpito in pieno dalle proprie emozioni. Fissò Elisabeth con stupore, poi risentimento per aver risposto così a suo figlio, e infine con quella che a Chris parve comprensione.

«Scusatemi» abbozzò Elisabeth, ancora visibilmente turbata, alzandosi in piedi, facendo in pochi istanti il giro della scrivania e uscendo dalla presidenza.

«Ma che diavolo le è preso?» chiese Chris voltandosi a guardare la porta appena chiusa. Prima che Ulrich potesse rispondere il ragazzo sentì una fitta lacerante al braccio. Strillò e si voltò.

Il granchio lo aveva ferito e ora scappava via.

Ulrich spalancò gli occhi alla vista del taglio profondo apertosi apparentemente senza una ragione apparente.


ʘ –


Carlotta stava tranquillamente disegnando sul retro della lavagna durante l'intervallo. In realtà stava scarabocchiando quelli che sembravano i simboli che apparivano nell'aria al posto di qualche animale impossibile, come le aveva spiegato Rebecca.

La classe era praticamente vuota perché quasi tutti erano in corridoio.

Sarebbe dovuta andare in cerca di Emma o di suo fratello, o a trovare Franz, ma aveva deciso di non fare nessuna delle tre cose.

Sentì qualcuno di incredibilmente vicino sussultare.

Si voltò e trattenne un'esclamazione di sorpresa. La preside era a pochi passi da lei, lo sguardo fisso su ciò che aveva scarabocchiato e gli occhi spalancati.

Fece per dire qualcosa, ma la preside si voltò e uscì quasi correndo.

Carlotta non pensò.

Posò il gesso e la seguì.



  
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