Chapter
1
Tirava
un
vento gelido quella sera per le vie di Colonna. La Chiesa e il teatro
della
piccola piazza avevano quasi un’aria spettrale al chiaro di
luna. Stavo
maledicendomi per essere stata così incosciente da essermi
fatta convincere ad
uscire con quel tempaccio. A mia difesa posso assicurarvi che Sara, la
mia
migliore amica, era un osso duro; difficilmente le si poteva rifilare
un no
come risposta.
«Ho
mal di
piedi e sono terribilmente stanca» mi lagnai scansando una
delle tante buche
per terra. Prima o poi avrei dovuto inviare una lettera di reclamo
all’amministrazione comunale per il terribile stato in cui
versavano le strade
di Colonna. Ma chi le inviava più le lettere?
Pensai un secondo dopo
sarcastica. Sarebbe stato più facile e veloce caricare su
Facebook un bel
collage di tutte le buche grandi come crateri vulcanici e taggare
il
sindaco. Non era il mio stile, ma avrebbe fatto maggiore scalpore. In
migliaia
avrebbero condiviso il mio post e ben presto sarei diventata un simbolo
per
questa città. Tzè, che pessima idea. Io non ero
nemmeno iscritta su Facebook.
Trovavo snervante tutto quel meccanismo del mi piace o
non mi piace
più, del condivo o non
condivido, del pubblico pubblico
o del pubblico ristretto. Insomma, non se ne
sarebbe fatto niente.
«Cami,
quante volte dovrò ripeterti di non frignare? Hai 26 anni,
per diamine!»
esplose Sara, gesticolando come era solita fare. Il lungo cappotto di
panno si
alzo e ricadde seguendo il movimento delle sue braccia che mimavano la
più
completa disperazione. Che cosa potevo farci se odiavo stare sui
tacchi? Mi
facevano sentire molto goffa e per niente femminile. Non ero grassa, ma
non
slanciavano la mia figura, quindi li ritenevo un inutile e dolorosa
tortura.
«Ho
tutto il
diritto di frignare. Stiamo girando a vuoto da due ore e la temperatura
è
artica» risposi, battendo i denti. Mi ero scocciata di stare
dietro ai suoi
capricci. Avevo acconsentito ad uscire sperando che potesse incontrare
quel
bell’imbusto di Mariano Iacobucci e farci finalmente due
chiacchiere. Sempre
che il soggetto in questione glielo avesse permesso. Sara lo pedinava
ovunque,
ma lui non la filava di striscio. Erano anni che gli moriva dietro,
nutrendo
false speranze ogni qual volta che il bello&impossibile
si trovava a
meno di un metro da lei. Personalmente non mi piaceva quel tipo. Troppo
pieno
di sé e dei suoi averi. Uno st***zo in camicia, in pratica.
«Abbi
pazienza Cami. Sento che siamo vicine a lui»
cinguettò la mia amica,
tamburellando le dita su una BMW nera. Non avevo idea di che macchina
possedesse quel tipo, ma avrei scommesso la mia modesta casa che fosse
quella
davanti a noi. E pochi minuti dopo, con la benedizione della mia umile
dimora,
Mariano e la sua combriccola di spacconi uscì dal pub e si
diresse verso di
noi. O meglio, verso il macchinone tirato a lucido davanti al quale
sostavamo.
Iniziai
a
provare un’immensa vergogna man mano che quei tizi si
avvicinavano e
indietreggiai di qualche passo. Che parlasse Sara! In fondo era lei la
fautrice
di quel piano sgangherato. Il rumore dell’apertura
centralizzata mi fece
sobbalzare e quasi non caddi all’indietro. Udii qualche
risata provenire
proprio dal gruppetto di boriosi. Quella situazione iniziava a pesarmi
sul
serio.
«Salve
fanciulle. Possiamo esservi utili?» esordì il
bello&impossibile girandosi a
favore degli altri due sbruffoni.
Okay,
stavamo rasentando il ridicolo e quelle occhiatine maliziose non mi
piacevano
per nulla.
«Beh,
ecco,
noi…» iniziò Sara che sembrava avesse
subito una paralisi alla lingua.
«Ecco…»
La
mia amica
sembrava tramortita, mentre quegli energumeni se la ridevano sotto i
baffi.
«La
nostra
macchina è in panne. Ci servirebbe il numero del carro
attrezzi!» m’intromisi,
cercando di salvarci la faccia da quell’insanabile brutta
figura.
«Sai,
esiste
una cosa chiamata internet dove puoi cercare il numero del tuo amato
carro
attrezzi. Pensa, è proprio sul cellulare!»
esordì un brutto ceffo dalla lingua
biforcuta, provocando l’ilarità generale. Avevo
avvertito Sara che il suo piano
non era ben congegnato, ma lei non mi aveva dato ascolto, tanto per
cambiare.
La conoscevo dal primo superiore, quando lei era già tosta e
io una bimba
impaurita dal mondo. Eravamo agli antipodi caratterialmente, ma
nonostante ciò
dopo ogni litigio tornavamo ancora più amiche di prima. Sara
non mi ascoltava
mai: lei era quella testarda, io quella accondiscendente. Era arrivato
il
momento di prendere in mano la situazione e mostrare un po’
di carattere.
Afferrai
la
borsetta che tenevo stretta stretta (manco ci fosse qualcosa di valore
dentro)
e tirai fuori il vecchio cellulare di nonna Teresa. Ora che ci pensavo,
persino
mia nonna si era fatta ammaliare dalle novità introdotte
dagli smartphone. Mi
aveva chiesto anche di scaricarle il telefono verde. All’inizio
non
avevo capito a cosa si riferisse, poi per logica capii che facesse
riferimento
all’applicazione whatsapp. Era ridicolo
ai miei occhi, ma le volevo bene
e l’accontentai destreggiandomi tra le mille diciture del
mercato delle applicazioni:
il famoso play store.
In
cambio
avevo ottenuto il suo vecchio Nokia 3220 ancora in perfetto stato. Ero
felice
di averlo ricevuto a gratis. Non avevo mica soldi da spendere per
quelle
scemenze, io!
«Riesci
a
cavare qualcosa da questo?» dissi, esponendo il mio
gioiellino d’antiquariato
alla mercé di quei tre balordi. Rimasero tutti a bocca
aperta nel costatare che
al mondo esistesse ancora qualcuno ad usare un non-smartphone.
Leggevo
incredulità nei lori occhi, ma non me ne poteva fregare di
meno. Sara
tossicchiò parecchie volte, più imbarazzata che
mai. In questo momento ci
stavamo invertendo i ruoli e per lei era una cosa del tutto nuova. Ma
non è pur
sempre vero che c’è una prima volta per tutto?
«Dani,
lascia perdere. Non voglio grane! Chiama il carro attrezzi per queste
tizie e
andiamo» capitolò il bello&impossibile. Queste
tizie? Quello
scimmione stava oltrepassando il limite. Antipatico, maleducato e
viziato.
Quando terminai tutti i peggiori epiteti possibili e immaginabili, mi
resi
conto che la Panda di Sara non era mai stata meglio. Non avevamo mica
bisogno
di un carro attrezzi per davvero!
«Sentite,
è
meglio che ve andiate. Non abbiamo più bisogno del carro
attrezzi» dissi
coraggiosamente. Sara sopirò di fianco a me, conficcandomi
una gomitata nel
fianco per manifestare il suo dissenso. Credeva che avessi sbagliato?
Poteva
pensarci lei a riparare questo disastro. Il bello&impossibile
guardò gli
altri due stralunati e si passò una mano tra i capelli con
quell’atteggiamento
da maschio superiore che stava iniziando ad infastidirmi parecchio.
«Dovreste
spostare le vostre mongolfiere dalla mia auto per poter aprirla e
andare via.
Chiederò i danni, se trovo qualche ammaccatura alla
fiancata» disse e in via
definitiva i miei nervi saltarono.
Furiosa
mi
avvicinai a lui di scatto. Con tutti i tacchi (no, non erano 15 cm),
dovetti
reclinare il viso verso l’alto per poter guardare negli occhi
quello sbruffone.
«Non
ti
pagherei nemmeno un centesimo per quella tua stupida macchina. Dovresti
tirartela di meno, capellone» urlai come uno scaricatore di
porto, prima di
girare i tacchi e trascinare Sara lontana da quella follia.
Lo
scimmione
rimase immobile dondolandosi sui talloni, mentre gli altri ci
apostrofavano con
i peggiori appellativi. Oh mio Dio, ero stata veramente capace di
tenere testa
a qualcuno? Mi sentivo euforica per quella nuova esperienza e me ne
andai
gongolando come non avevo mai fatto in vita mia.
***
Il
citofono
suonava all’impazzata e la cosa sembrava non importare a
nessun anima viva. Dov’erano
finiti tutti? Possibile che l’unico momento di riposo che
avevo doveva essere
interrotto dal quel fastidioso rumore?
«Maaaa
suonano al citofono!» tentai di fare scarica barile ancora
una volta per
liberarmi dall’oneroso compito di strascinarmi fuori dalle
coperte. No, non
c’era nessuno a casa Filippi. Eppure ero certa che mia
sorella Tata (no, non
come il negozio di scarpe, derivava da Roberta) fosse nella sua stanza.
Calzando
le
mie ciabattone di Pippo (un po’ troppo infantili per la mia
età, ma che
importava?), mi diressi come un automa verso il citofono.
«Chi
è?»
esordii, con la voce baritonale. Oddio, chi mi avrebbe ascoltato
dall’altro
lato non avrebbe avuto una piacevole sorpresa.
«Sono
Sara,
idiota. E’ da un’eternità che provo a
chiamarti! Che fine hai fatto? Sono le
cinque, dovevamo studiare insieme e poi andare a fare aperitivo in quel
pub…quello di bello&impossibile».
Parlò così in fretta che il mio cervello
non elaborò in tempo tutto quello che aveva blaterato. Era
possibile che avessi
udito bello&impossibile?
«Sali,
scema» risposi laconica e con voce meccanica. Sara si
materializzò al mio
fianco in un baleno, quasi che arrivare in meno di trenta secondi le
garantisse
una medaglia d’oro alle olimpiadi. D’altronde era
molto agile la mia amica. Il
suo corpo minuto le garantiva la leggiadria che a me mancava. Io ero
più alta
di lei, ma le mie ingozzate di cioccolato (rigorosamente al latte), mi
avevano
lasciato in eredità due fianchi che nemmeno il maniglione
antipanico
dell’ospedale reggeva il confronto. A parte la mia forma
fisica a “pera”, non
ero eccessivamente grassa. Ero formosa, come amava definirmi il primo
fidanzatino dell’età adolescenziale.
«Non
credi
di aver dormito abbastanza? Così non puoi studiare e va a
finire che non ti
laureerai mai di questo passo!» mi salutò con
affetto la nana.
«Parli
proprio tu che sei a più tre materie da me!» la
rimbeccai, fiera di quello (se
pur minimo) stacco.
La
carriera
universitaria non era tra gli argomenti che preferivo. Ormai ero fuori
corso da
parecchi anni e non riuscivo più a raccapezzarmi tra i
libri. Avevo perso lo
smalto e la grinta iniziali per strada, e non mi era rimasto che un
insulso
istinto di sopravvivenza: dovevo farcela per i miei.
«Colpita
e
affondata! Allora ti prepari??? Così usciamo. Ho saputo che
B…»
«Non
starai
dicendo sul serio, vero?» la interruppi bruscamente,
prevedendo i suoi loschi
piani. «Non mi farò più coinvolgere nei
tuoi stupidi teatrini ammazza
reputazione. Te lo devi scordare quello
lì. Ficcatelo bene in testa: è
uno str***o patentato e non ti merita» recitai, come nel
migliore dei manuali
“salva amica rincretinita” . Con una calma
sfrontata che non aveva precedenti,
Sara mi superò dirigendosi verso la mia stanza. Non mi
guardava, ma sapevo cosa
stesse per fare. Le sue abili manine tirarono dal mio armadio un paio
di jeans
a caviglia e una maglia a righe bianca e blu. «Le All stars
che ti ho regalato
l’anno scorso ci staranno da Dio, metti quelle»
aggiunse, infrangendo il muro
del silenzio. Incredibile, non si arrendeva mai. Nemmeno di fronte al
mio
palese diniego, aveva messo da parte i suoi folli piani di conquista.
Era pazza
di Mariano Iacobucci e non si sarebbe fermata di fronte a niente. A
volte
ammiravo la sua determinazione. Al suo posto mi sarei arresa parecchio
tempo
prima, ma il mio carattere non meritava alcuna menzione particolare.
«D’accordo»
mi arresi, «che sia l’ultima volta. Non voglio
più vedere quei tizi» aggiunsi
fissandola in cagnesco. La vidi esibirsi in una risatina compiaciuta
che mi
fece mettere il broncio. Mi venne l’impeto poco ortodosso di
sollevarla dal
pavimento e gettarla per aria, cosicché capisse che non ero
la sua personale
dama di accompagnamento. Ma tutto ciò che feci fu vestirmi
di fretta, e
truccarmi ancora più velocemente. Il mio trucco base era
formato da poche gocce
di fondotinta, un ombretto nero sfumato sulle grandi palpebre oculari,
una
linea di eye-liner e l’immancabile mascara nero volumizzante.
Perché tra i miei
tanti difetti, non potevano mancare ciglia cortissime e poco folte che
mi
toccava rimpolpare con quell’impiastro color inchiostro per
dare un tono allo
sguardo altrimenti spento.
«Sei
molto
bella» mi continuava a ripetere Sara. Odiavo quando cercava
di comprare il mio
sorriso con dei complimenti infondati. Sapevo di non essere un mostro e
di
avere un aspetto ordinario e pulito, ma esseri belli è tutta
un’altra cosa. Da
piccola in molti si complimentavano con mia madre per le mie sembianze
da
bambolina; ero una bimba paffutella dalla pelle lattea e gli occhioni
marroni e
buoni. Dopo una manciata d’anni passati ad arraffare
complimenti a destra e a
manca, era arrivato il periodo buio. Alle scuole medie, complice
qualche kilo
in più, l’apparecchio ai denti e gli occhiali
tondi e dorati, venni presa di
mira per la prima volta dal sesso maschile che crudele e meschino mi
appellava
ogni giorno “brutto anatroccolo”, nemmeno fossi
deforme! Da allora persi
qualsiasi sicurezza in me stessa per almeno tre o quattro anni. Avevo
imparato
a convivere con quella triste realtà e non ne facevo una
tragedia, non
apparentemente perlomeno. L’arrivo alla scuole superiori
combaciò con la
perdita dei kili in più e la ridistribuzione
delle mie forme. Finalmente
poteva vantare un corpo femminile e qualche occhiata di apprezzamento
da parte
dei ragazzi più grandi.
Mi
resi
conto che era insensato vagare con la mente fino a quei giorni, dovevo
pensare
al presente e al fatto che stessimo per raggiungere uno dei pub
più in voga di
tutta Colonna e stessi per rivedere quell’essere immondo.
«I
complimenti non ti salveranno da una morte lenta e dolorosa»
recitai, prendendo
in giro Sara per smorzare la tensione che si era creata. Non mi piaceva
avercela con lei, poco dopo infatti tornai a sorriderle come sempre.
«Eccolo»
sussultò lei, stringendomi la mano con una forza inaudita.
Sperai con tutta me
stessa che il bello&impossibile non si accorgesse di noi e
invece si voltò
incuriosito a guardarci dall’alto del suo metro e
ottantacinque. Beccate!
«Le
tizie di
ieri sera… dite un po’, non mi starete mica
pedinando voi due?!»
Quel
tono
allusivo mi fece salire la bile alla gola. Dietro quei ray-ban ultimo
modello
si intravedevano due occhi a mandorla agghiaccianti, quasi ipnotici.
Non avevo
mai avuto cura di approfondire il contatto visivo con lui, e
l’effetto che
quello sguardo ebbe su di me non mi piacque per nulla. La morsa che
sentii allo
stomaco era una sensazione nuova, inesplorata e tale doveva rimanere.
«Vola
basso,
amico. Non gira tutto intorno a te. Colonna è un paese
piccolo e ci ritroviamo
a frequentare gli stessi posti, purtroppo»
aggiunsi senza celare un
pizzico di soddisfazione per avergli levato dalla faccia quel
sorrisetto da
ebete.
Che
ne
poteva sapere lui che la mia amica era un stalker e che io ero sua
complice in
questa intrica vicenda che si perpetrava ormai da anni?
Il
bamboccio
si avvicinò ad un centimetro dal mio viso e
all’ultimo secondo deviò in
direzione del mio orecchio.
«Sei
carina
quando cerchi di fare la scorbutica a tutti i costi. Se non fossi con
il
moscerino qui di fianco, t’inviterei a bere qualcosa
insieme» sussurrò piano.
Aveva
una
voce calda e composta ed emanava un buon profumo.
Dio
mio, che
pensieri inappropriati! Mi ci volle qualche secondo per riprendere il
controllo
del mio corpo. La pelle d’oca si era estesa su tutte le
braccia e me ne
vergognai come una ladra. Sara aveva assistito immobile a tutta la
scena,
domandandosi cosa mi avesse detto di così sconvolgente da
tingere le mie
guancie di un rosso vivo. Di solito non vantavo un colorito sano; avevo
più
l’aria di uno zombie che di un essere umano.
«Lasciaci
passare» gracchiai.
Certo,
le
sue parole mi avevano scosso, ma non potevo permettere che avessero il
sopravvento su di me.
Scrittrice
a rapporto:
Un pizzico di follia non ha mai
fatto male a nessuno giusto? Questa storia è la mia piccola
follia perché
dovrei studiare, e fare tante altre cose tra cui continuare un'altra
storia a
cui tengo tanto. Ma si sa, quando la vena creativa chiama, non
c’è verso di
farla smettere. Non usarmi -le due facce dell’amore-
è una storia che nasce
come un’autoironica analisi della vita di una ragazza tipo.
Le complicazioni e
i problemi la tramuteranno in qualcosa di più serio, ma vi
prometto di
mantenere uno stile leggero e piacevole.
Vi
invito a
pormi qualsiasi quesito e lasciarmi i vostri pareri, sono sempre
stimolanti.
Un
abbraccio
virtuale a tutti!