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Autore: rossella0806    09/04/2015    3 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La prima volta che vidi Sophie, futuro membro degli “Orsetti lavatori”, stava picchiando Liliane, una delle mie nuove colleghe.
Era un lunedì, ed io mi ero presentato alle otto in punto per prendere servizio nel posto che, da lì in poi, sarebbe stata la sede del mio lavoro per un tempo che speravo – e spero tutt’ora- fosse molto lungo.
La direttrice dell’ "Arcenciel”, Madame Betancourt, mi stava mostrando il centro in tutta la sua magnificenza, illustrandomi il compito educativo e terapeutico di cui si aspettava sarei stato promotore; cercavo di sforzarmi di ascoltarla, rivolgendo ogni pensiero alle sue parole, tuttavia la sua voce era come una ninnananna, monotona e cantilenante, tanto che, quando fummo attratti dalle urla stridule di una bambina, quasi fui felice per quel diversivo che mi avrebbe allontanato dalla prigionia fisica e mentale a cui la donna mi stava sottoponendo per il mio bene.
Ci incamminammo prontamente lungo il corridoio dalle pareti grigie, svoltammo a destra e infine percorremmo quella manciata di passi in direzione della seconda porta a sinistra, il luogo da dove proveniva quel misterioso putiferio di sospiri rabbiosi.
Una signorina di sei anni –età che seppi qualche minuto dopo- dalla pelle color ebano, i capelli ricci stretti in tante treccine colorate, indosso una maglietta bianca e una gonna rosa sbiadita, stava dirigendo i suoi piccoli pugni contro una donna alta il triplo di lei, magra e ossuta, avvolta in un tailleur color pervinca, con i capelli biondi che si muovevano scombinati per seguire il corpo che cercava debolmente di parare i colpi della piccola pugile, che rispondeva al nome di Sophie.
“Non ci faccia caso, signor Soave!” cercò di spiegarmi la direttrice “ è un nostro nuovo “acquisto”: non siamo ancora riusciti a domarla!”
“Domarla?” domandai piuttosto allibito “non mi sembra sia un animale feroce …”
Le guance della integerrima sessantenne vicino a me avvamparono visibilmente e, balbettando parole senza troppa convinzione, cercò di difendersi:
“Ma no, non intendevo questo. E’ solo che è appena arrivata da due giorni, si deve ancora ambientare e …”
“È qui per quale motivo?” domandai sempre più interessato, non accennando minimamente a spostarmi dalla mia postazione, a pochi passi dall’entrata dell’aula dove si stava svolgendo quell’impari lotta.
“Beh, perché… perché … Liliane! Puoi venire un attimo?!”
“No, aspetti” la bloccai io, dirigendomi verso la donna che era appena stata chiamata in causa.
La bambina-pugile si bloccò di colpo, ansimando visibilmente: chinò la testolina piena di treccina, sciolse i pugni e cominciò a piangere.
Poi rimase lì, in mezzo alla stanza, a mezzo metro da un basso tavolo di legno chiaro, attorno a cui erano seduti una decina di altri bambini bianchi e neri.
“Ti presento Philippe Soave, il vostro nuovo collega” cercò di darsi un contegno la direttrice.
Io allungai una mano in direzione della giovane donna di fronte a me che, ad occhio e croce, avrebbe dovuto avere la mia età, come effettivamente scoprii in seguito.
Ci sorridemmo per un breve istante e, dopo che lei mi strinse il palmo destro, le domandai:
“Ciao! Piacere, Philippe. Posso chiederti perché quella bambina si comporta in modo così … particolare?”
Liliane annuì con un’incrinatura timida della bocca sottile:
“Non lo sappiamo ancora con esattezza: si chiama Sophie ed è arrivata da noi due giorni fa, accompagnata da un’assistente sociale. E’ stata tolta alla madre, o meglio, è stata la madre ad abbandonarla davanti a una stazione della Gendarmerie. La bambina ha solo sei anni ed è originaria del Senegal: parla pochissimo, gioca per qualche minuto insieme ai suoi compagni, ma poi si alza e comincia a piangere o a picchiare il primo adulto che le passa vicino. I suoi pugni non fanno male al corpo ma, come puoi ben immaginare, fanno male al cuore, motivo in più che non siamo ancora riusciti a sapere il motivo del suo comportamento”.
Io annuì abbassando lo sguardo per un paio di secondi, poi posai gli occhi su Sophie che, intanto, si stava avviando per riprendere il suo posto: le due bambine sedute di fianco a lei si allontanarono all’istante, strisciando di qualche metro le loro sedie.
“Si sa dove abitava prima? Il nome della madre?” domandai alla mia nuova collega, che scosse il capo e prese a spiegarmi:
“Più o meno. La madre, come ti ho detto, l’ha lasciata davanti ad una stazione della Gendarmerie, tre mattine fa. Quando l’hanno trovata, Sophie aveva solo una borsa con qualche indumento di biancheria intima, un paio di magliette, altrettanti pantaloni, quella gonna che indossa, e un biglietto con scritto “Aiutatela”.
Dal permesso di soggiorno e dal passaporto risulta abitasse in Rue du Chemin de Fer n°51, a una decina di chilometri dalla centrale di polizia.
Solo che, quando quel giorno stesso gli agenti sono andati all’indirizzo indicato, tutti hanno detto di non conoscere Sophie, anzi, per l’esattezza non c’era alcuna famiglia di colore. Forse sono scappati prima del loro arrivo …”
La direttrice continuava a fissare alternativamente il viso di Liliane e il mio, nel nostro ping-pong di sguardi e battute reciproche.
Dietro gli occhiali da miope dalle lenti allungate e le asticelle ricoperte di strass, i capelli grigio scuro tagliati a caschetto e uno sbiadito completo blu elettrico, Madame Betancourt non batteva ciglio, né emetteva un sospiro ad udire quella storia che, con tutta probabilità, non conosceva affatto.
“Quindi la Gendarmerie ha chiamato gli assistenti sociali tre giorni fa?”
Mi stavo rendendo conto che quel mio interessamento stava prendendo la piega di una sorta di interrogatorio, tuttavia era una mia fissazione sapere il più possibile dei bambini con cui avrei voluto e dovuto lavorare da quello stesso giorno, quindi scacciai all’istante quel breve momento di imbarazzo che mi attraversò la mente.
“Sì. Loro, gli assistenti sociali intendo, ce l’hanno portata la mattina successiva al suo ritrovamento. Sai, Philippe, noi siamo un po’ il punto di riferimento per Versailles e, in un certo qual modo, anche per Parigi: i loro centri, molto spesso, sono al collasso”
Io annuii dubbioso circa la storia che Liliane mi aveva appena raccontato, mettendomi al corrente di una verità non del tutto svelata: era terribile immaginare ciò che aveva preceduto la scelta della madre di Sophie di abbandonarla, probabilmente spinta dalla necessità economica, o dalla paura o dal pericolo per la loro incolumità: quel biglietto con la chiara richiesta di aiuto, era infatti una prova dei sentimenti angosciosi che avevano obbligato la donna a separarsi dalla figlia.
“Madame Betancourt” mi voltai in direzione della direttrice, che rappresentava il vertice di quella specie di triangolo che stavamo rappresentando, appena oltre la soglia dell’aula in cui, tutti i bambini eccetto Sophie la pugile, erano impegnati a disegnare o a scarabocchiare sui fogli sparsi sul tavolo di fronte a loro, e le domandai:
“E’ d’accordo se, per stamattina, mi fermo in quest’aula?”
La donna mi guardò sbattendo per un paio di volte le ciglia, come riscuotendosi dall’ipnosi delle nostre parole che l’avevano esclusa fino a quel momento.
“Oh beh, io non saprei. Ci tenevo a completare il giro del centro, così da fornirle un’idea più chiara di cosa vedrà, di come lavorerà e con chi. Però, se proprio insiste, va bene. Le ricordo, signor Soave, che questa non sarà un’aula di sua competenza. Lei è stato assegnato ai bambini di otto anni e …”
“Sì, certo, lo so … appena finirò, se lei sarà libera, proseguiremo più tardi il nostro giro” mi affrettai a completare la frase, giusto per tranquillizzarla “è solo che vorrei aiutare Liliane a capire il motivo per il quale Sophie continua a comportarsi in questo modo. Da domani mattina mi assegnerà completamente al mio lavoro. Grazie per la sua comprensione”  tagliai corto, entrando con estrema solennità nell’aula.
Tutti i bambini alzarono le loro teste lisce o ricciute che fossero: con il pennarello nella manina dominante bloccata a mezz’aria e lo stupore tipico infantile negli occhi, fissarono il loro sguardo nel mio.
Alzai la destra in segno di saluto, accompagnando il mio gesto con un sorriso:
“Ciao a tutti! Sono Philippe, e per qualche ora vi farò compagnia insieme a Liliane. Vi va di parlare un po’ con me?”
I dieci ospiti della stanza –esclusa la piccola pugile- si misero comodi sulle sedie piccole e basse: appoggiarono sul tavolo gli strumenti da lavoro con cui fino a quel momento si erano divertiti, mentre quattro di essi annuirono ricambiando il mio sorriso di incoraggiamento.
“Molto bene!” incominciai, prendendo posto di fianco a Sophie, in uno dei lati lasciati volutamente vuoti, come fossero le due sponde del Mar Rosso al passaggio di Mosé.
“Dunque, il mio nome ve l'ho già detto. Ho trent’anni, vivo da solo a Montigny, un paesino abbastanza vicino da qui. I miei genitori si chiamano Edmond e Nadine, hanno origini italiane, però abitano a Lione. Ho anche tre sorelle più grandi, Claire, Jeanne ed Agnése, un cane di nome Sylvie e un gatto, almeno lui maschio, André. Quando ero poco più grande di voi, avevo un criceto che si chiamava Lise.
Mi piace molto il mio lavoro, ma nel tempo libero adoro suonare il pianoforte, leggere romanzi storici e d’avventura, ascoltare la musica pop e guardare un bel film in Tv o al cinema! Ah, e poi, qualche volta, vado anche a teatro! I miei colori preferiti sono l’azzurro e il verde, e adoro tutti i tipi di dolci, soprattutto quelli al cioccolato! Ecco, questo è quello che sono! Adesso voi mi conoscete un po’ di più di …” guardai l’orologio come se fosse la cosa più importante del mondo “ quattro minuti fa! Ora, se Liliane me lo permette e se voi volete, mi farebbe piacere che vi presentaste! Mi basta sapere il nome, per il resto decidete voi che cosa raccontarmi: io non ho fretta!” conclusi tutto d'un fiato.
E la magia era stata creata: i bambini avevano cominciato a guardarmi con vivo interesse e una montagna di curiosità nei loro occhi. Ero riuscito nel mio primo intento, quello di risvegliare l’attenzione verso l’altro, verso un perfetto estraneo, è vero, che però era stato sincero, e aveva avuto il coraggio – o meglio, la sfacciataggine, vista la noiosissima descrizione personale che avevo elargito- di aprirsi a quello spicchio di mondo davanti a loro, al sicuro nella loro aula, con la loro insegnante e psicologa.
Liliane si avvicinò e, in piedi dietro di me, esordì:
“Avanti, bambini! Philippe è stato così gentile da raccontarci della sua famiglia! Cosa ne dite se anche noi facciamo lo stesso?!”
Posai subito lo sguardo in direzione di Sophie, la quale non accennava ad alzare il suo.
La testolina riccioluta era costantemente abbassata verso la parte del tavolo su cui sedeva, le mani affondate tra le pieghe della gonna rosa.
“Potete alzarvi in piedi, se volete, oppure rimanere al vostro posto!” continuai per incoraggiarli, sebbene mi rendessi perfettamente conto che non era necessario, in quanto scoppiavano letteralmente dalla voglia di parlare, ma aspettavano solo un segnale, ovvero che il più coraggioso prendesse la parola per primo.
“Potete anche disegnare su quella lavagna ... ” mi voltai verso Lilianne, per avere la muta conferma che effettivamente ottenni.
Un bambino piuttosto alto per i suoi sei anni, magro e dalla pelle chiara, si alzò in piedi, le braccia lungo i fianchi, ritto come un soldatino.
“Io mi chiamo Françoise, sono nato il 14 luglio ad Aix en Provence: non ho mai conosciuto mio papà, perché ha lasciato la mia città quando avevo pochi mesi. Dopo se ne è andata via anche la mamma, così sono cresciuto con la nonna, la mamma della mamma. Però adesso si è fatta male ed è in ospedale, così, fino a quando non si rimetterà, dovrò rimanere qui al “Centro”. Va bene?” mi domandò solennemente.
“Certo, Françoise, va benissimo! Sai che anche un mio amico si chiama come te? Lui è un musicista! A proposito, a qualcuno di voi piace la musica?”
“A me piace la batteria!” alzò la mano una bambina di colore, i capelli ricci raccolti in una piccola coda  “il mio papà la suona ed è bravissimissimo!”
L’ora che seguì fu un susseguirsi di sorrisi e di riflessioni: ciascuno di quei dieci bambini mi raccontò un pezzettino della loro storia di abbandoni momentanei o apparentemente duraturi, ma tutti lo fecero con il tipico candore che caratterizza la loro età.
Solo Sophie, la piccola pugile, non ebbe il coraggio o la forza di dirmi nulla, almeno fino a quando mi rimisi in piedi, soddisfatto per la confessione di gruppo a cui avevo dato avvio.
Le gambe si erano intorpidite, ma non mi era pesato affatto rimanere su quella sedia troppo minuscola per il mio metro e ottanta.
Nonostante le insistenze gentili ma costanti di Liliane rivolte a Sophie, lei continuava a mantenere lo sguardo basso.
Mi avvicinai alla mia nuova collega, la quale ne approfittò per dirmi:
“E’ stato bello: il tuo modo di esprimerti li ha affascinati. La sincerità è fondamentale per creare un buon rapporto con loro, eppure non sempre serve. Il nostro centro è diviso in classi, un po’ come una scuola: alcune sono aperte già al mattino, come questa, altre invece si riempiono solamente il pomeriggio, per fare il vero lavoro terapeutico. Tutto dipende dalle varie esigenze di noi psicologi ma, soprattutto, dal fatto se i vari gruppi che seguiamo frequentino regolarmente o meno la scuola pubblica, venendo qui solo in appoggio.
Ogni bambino e ragazzo che incontrerai ha una storia più o meno traumatica alle spalle, tanto che molti di loro sono costretti a rimanere qui per chissà quanto tempo ancora. Ci vuole pazienza, Philippe, ma sono sicura che con la tua classe ti troverai bene …” Liliane mi appoggiò una mano sulla spalla, sorridendomi come per incoraggiarmi.
Condividevo le sue parole, però non riuscivo a giustificare quella sorta di rassegnazione che vedevo trasparire dai suoi occhi blu.
“Certo, capisco. Mi ha fatto molto piacere trascorrere quest’ora con voi. Prima di pranzo tornerò a farvi un saluto, adesso vado a recuperare la direttrice, così potrà finire di farmi fare il giro del “Centro”!”
Salutai calorosamente i bambini, chiamandoli ad uno ad uno con il proprio nome, in modo da aumentare quell’abbozzo di complicità che speravo si fosse formato.
Rivolsi un sorriso anche alla mia nuova collega, subito dopo avevo già un piede oltre la soglia, quando sentì un rumore provenire dal tavolo dove erano seduti i bambini: la sedia su cui, fino a un minuto prima, era incollata Sophie, la bambina pugile, era stata scaraventata a terra, mentre lei si stava dirigendo a passo spedito verso di me.
Quando arrivò al traguardo che si era prefissata, chiuse i pugni e cominciò a batterli contro le mie cosce, o meglio, contro le mie ginocchia, data la sua ancora scarsa altezza.
Dopo una decina di quei colpì sferrati con la più cupa disperazione, si fermò, mi guardò negli occhi e, senza piangere, mi spiegò:
“Tutti sono cattivi! Tutti! La mia mamma me lo dice sempre! La picchiano, e lei mi chiude in bagno perché così mi protegge e non posso vedere! Ma io sento che lei grida, soprattutto all’inizio, poi non sento niente. Fa i singhiozzi, quelli li sento bene. Poi, quando il signore se ne va, lei apre la porta del bagno, si asciuga gli occhi con il braccio, e mi abbraccia forte e tanto … io picchio per difendermi, come mi ha insegnato la mamma”.
Ebbi appena il tempo di guardare Liliane, in piedi vicino a me, perché poi ci portò fuori, a me e a Sophie, mentre imponeva agli altri bambini di stare zitti e fermi, fino al nostro ritorno.
Io mi abbassai e presi le mani della piccola pugile: gliele strinsi con delicatezza, ma lei non si ribellò al nostro primo vero contatto, e di questo fui felice.
“La tua mamma ha ragione, Sophie: ci sono molte persone cattive, ma non tutte. La tua maestra ed io non lo siamo, vogliamo solo aiutarti a stare bene con gli altri tuoi compagni. Qui ti vogliamo bene, per questo ci preoccupiamo per te. Hai sentito prima? Gli altri bambini hanno avuto dei problemi con le loro famiglie, così sono stati portati qui per un po’ di tempo, fino a quando le loro mamme e i loro papà potranno tornare a riprenderli e a portarli a casa”
“Lei si chiama Aimée … “
“La tua mamma?” domandai con voce bassa e comprensiva, sempre accucciato di fronte alla piccola pugile.
“Sì … mi ha promesso che presto tornerà a prendermi, proprio come hai detto tu”
“E adesso dov’è andata? Lo sai?”
Sophie fece di no con la testa intessuta di trecce:
“In un’altra città, mi ha detto, perché non voleva farsi trovare dal signore cattivo. Però poi torna, me lo ha promesso!”
“E il tuo papà? Non viveva con voi?”
“No. Lui è tornato nel nostro Paese, in Africa. Ma io ero piccola, mi ricordo pochissimo di quando stavamo insieme”
“Posso abbracciarti?” domandai titubante, ma speranzoso che mi concedesse questa opportunità.
“Sì … però forte e a lungo, come fa la mamma …”
Io obbedii con gioia: dopo minuti che ovviamente non contai, mi rialzai.
Liliane aveva gli occhi lucidi, così cercai di sorriderle e di farle l’occhiolino.
Presi nella mia la mano destra di Sophie e, guardandola ancora una volta, la riportai in classe.
 

A distanza di due anni da quel turbolento incontro, Aimée aveva contattato la figlia solo cinque volte, telefonicamente per il suo compleanno e per Natale, e con una lunga lettera che la piccola ex pugile teneva sempre con sé, e di cui nessuno è mai riuscito a sapere il contenuto di quei cinque fogli che Sophie legge ogni giorno, quando si alza al mattino e quando va a dormire.
Quando abbiamo provato a domandarle come avesse fatto la madre a trovarla, la piccola ex pugile rispose che era stata una stella a mostrarle l'indirizzo del centro.
Per quanto riguarda il "signore cattivo", non siamo ancora riusciti a scoprire dove si nasconda e chi sia, ma voglio e devo scoprirlo.

   
 
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