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Autore: IMmatura    10/04/2015    0 recensioni
Dal testo: "Matthew scrive e cancella, riscrive, corregge, lottando con la voglia di far cadere sul foglio una lacrima. Non vuole piangere, perché quel che sta raccontando è qualcosa di bello. Così si sforza di lottare con l’inquietudine e i dubbi, riordinando sentimenti che prima di allora aveva faticato anche solo ad ammettere a se stesso. Sulla scrivania, una tazza di the al limone. Matthew ne aspira avidamente l’aroma, che pian piano sta riempiendo l’ambiente immerso nella penombra."
[partecipa al contest "Di cinque sensi e Crack-Pairing" indetto da _Doll e ,Bad Apple sul forum di EFP]
[partecipa alla challenge "La settimana degli AU" indetta da Jerkchester]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Hidekaz Himaruya; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 2

Lo smartphone è un’invenzione orribile. Matthew arriva a capirlo alla seconda occasione in cui, durante quell’ennesima, difficile giornata, quell’arnese infernale gli causa problemi.

La prima era stata nel pomeriggio, quando Arthur aveva tentato per ben tre volte di accedere a Facebook, senza successo.

-Damn! Questo dannato social network è impazzito... non riconosce la mia password.- aveva sbraitato gettando l’apparecchio al capo opposto del divano, con violenza.

-Magari l’hai dimenticata.- aveva suggerito pacatamente l’altro, continuando a guardare la TV, fingendosi sotto ipnosi mediatica. Un modo come un altro per non rischiare di commettere passi falsi.

-Impossibile. Non l’ho più cambiata da quando ci siamo messi insieme...- ammise Arthur arrossendo -Questo non può avere a che fare con l’amnesia.-

L’inglese era perfettamente consapevole del suo problema, Matthew non aveva fatto nulla per cercare di nasconderglielo. L’aveva lasciato parlare da solo con il medico da quando era stato in grado, discutendo in separata sede solo l’aspetto più delicato della faccenda.

Da una parte, ogni volta che Arthur gli rivolgeva la parola per fargli domande e confermare ricordi orgogliosamente recuperati, lui ammirava la sua tenacia e si sforzava di essere il meno vago possibile, desideroso di aiutarlo, e sapendo che era quella la cosa giusta da fare. Dall’altra, quando rimaneva solo in una stanza, strofinava velocemente gli occhi lucidi, sforzandosi di non piangere, e non pensare che in quella situazione ci fosse qualcosa di dannatamente ingiusto nei suoi confronti.

Sapeva che sarebbe successo: poco a poco Arthur si faceva dubbioso, sospettoso, forse un po’ anche per la sua scarsa capacità di recitare. Un po’ per volta quel ponte, che Matthew si era sforzato di costruire sopra la voragine della sua memoria persa, veniva corroso da gocce d’acido. Il castello sereno di bugie si scioglieva lentamente, lasciando posto all’asprezza della verità.

E Matthew poteva solo guardare. Si sentiva chiedere se gli stava nascondendo qualcosa e si sentiva soffocare, nello sforzo di soffocare un singhiozzo improvviso.

Arthur ricordava già qualcosa dell’incidente: flash visivi di un guard-rail e lo stridio delle gomme, che aveva portato via tutto il resto, le memorie di alcuni mesi di vita.

Di nuovo, odia quel cellulare che gli squilla in mano, con un nome sullo schermo. Alfred. Esce sul balcone per rispondere cosicché, attraverso il vetro della finestra, Arthur possa osservarlo. L’inglese si sforza di scacciare quella strana impressione di disagio, come un presentimento di qualcosa di terribilmente sbagliato. Si sforza di raccogliere pensieri piacevoli, agli angoli della sua rabbia impotente. Sa di essere rimasto indietro, ma ancora si sforza di autoconvincersi che vada tutto bene, che le sue siano stupide impressioni e l’altro non stia cercando volontariamente di farlo rimanere indietro.

Eppure ci sono tante cose che non quadrano.

Innanzi tutto l’atteggiamento dell’altro, così stranamente, esageratamente remissivo. La calma che improvvisamente sembrava averlo avvolto, e la risata falsissima dietro cui si nasconde quando Arthur gli fa notare che sembra troppo silenzioso. Poi le attenzioni esagerate di cui lo ricopre, da sempre segretamente desiderate, ma adesso quasi soffocanti, tanto da fargli venir voglia di gridare che, dannazione, adesso sta bene. Non è diventato di porcellana!

Il suo compagno però lo tocca da giorni come tale, timoroso, fin troppo delicato, quasi imbarazzato. Un tocco che finiva per sembrargli quasi estraneo. E gli abbracci forzati con cui cercava, poi, di rimediare, non scacciavano quella strana impressione di scoprire, sulle sue labbra, un sapore nuovo.

Allo stesso tempo, però, si sente in colpa per quei pensieri.

“No, non mi nasconderebbe nulla di proposito” tenta di convincersi, ripensando alla prima sera e al senso di sicurezza che gli aveva dato addormentarsi abbracciato a lui, senza che insistesse per ottenere di più. Un abbraccio comunque intenso e protettivo, che l’aveva cullato abbastanza in fretta nel mondo dei sogni, dandogli appena il tempo di notare che l’altro sembrava un po’ deperito.

Più lo osservava, più questa impressione nello specifico diventava intensa. Anche adesso, guardando attraverso la finestra, gli sembra che quel viso conosciuto sia diventato più pallido, il fisico leggermente più asciutto. Impressioni che si spiegava con un altro ricordo, di ieri pomeriggio: si erano assopiti entrambi sul divano, e Arthur si era svegliato per primo, sentendosi praticamente stritolare da una presa convulsa. L’altro aveva un’espressione sofferente e (così gli era sembrato) mugugnava con voce lamentosa di non volerlo perdere.

Doveva essere stato un brutto spavento, saperlo in ospedale. Questa era la motivazione che, inconsciamente, aveva accettato, ma che adesso gli sembra labile ed incompleta.

Intanto Matthew da le spalle al soggiorno, per non farsi scorgere mentre versa, finalmente, lacrime rabbiose dopo aver riattaccato. L’ingiustizia di quella situazione gli piove addosso, di fronte a quell’ennesima telefonata, accompagnata da una punta di inconfessabile rancore verso quell’egoista di suo fratello. Per un momento Matthew desidera davvero diventare come lui, egoista, e portare avanti quella recita, continuare a combattere per qualcosa che, per una volta, rende felice lui.

Solo incrociare lo sguardo di Arthur, rientrando, gli fa cambiare idea. Non può fargli una cosa del genere.

 

---

 

Arthur gli lancia un’occhiata interrogativa sulla soglia della sua stanza. Matthew indica lo studio dicendo di avere due cosucce da sbrigare, e sapendo che passerà li un’altra notte insonne. L’inglese borbotta qualcosa sbattendo la porta, e lui rimane solo in corridoio, con il silenzio pieno di frasi disordinate, che vorrebbe disperatamente dire.

L’unica risorsa è sedersi alla scrivania e scrivere. Senza fare sconti a nessuno, ma senza neppure essere crudeli. Quel che deve scrivere oggi è più complicato, doloroso e fraintendibile. La penna esita tra le mani tremanti.

Odia aver contrariato Arthur. Lo pensa solo in camera e si chiede se quella rabbia gli stia ricordando altri racconti. Forse anche questo, a lui, tornerà utile.

Per Matthew invece è un altro ampio passo in avanti verso la fine di quella farsa, verso un baratro di solitudine che, dopo aver sperimentato quella dolce, tiepida vicinanza, non gli era più familiare, e quasi lo atterrisce.

Alla fine riesce a vergare le prime parole, raccontando di come, la prima volta, aveva fatto un passo indietro. Un primo assaggio di quel nuovo, doloroso distacco.

 

Aveva scoperto nel modo peggiore il fidanzamento di Arthur e Alfred, cioè sorprendendoli in soggiorno in atteggiamenti inequivocabili, che implicavano bocche appiccicate e colletti sbottonati. Fortunatamente, non era arrivato in una fase più avanzata. Ignorando le proteste di Alfred (“Ma tu non eri in biblioteca?”) si era trincerato nella sua stanza, a studiare la maniera migliore di guarire il suo cuore infranto, fingendo di preparare un esame.

Si era fatto da parte, forse per abitudine, forse per paura di un confronto che per esperienza sapeva sarebbe stato impari. Aveva trovato a poco a poco una giusta distanza di sicurezza dalla quale quei due sembravano quasi una bella coppia. Ricordava di averlo pensato una volta, vedendoli insieme per caso nei pressi del bar dove gli era stato presentato Arthur. Erano passati senza notarlo di fronte alla vetrina. Suo fratello teneva un braccio attorno alle spalle dell’altro, che sbuffava ma sembrava gradire, a giudicare dal colorito imbarazzato delle sue guance. Il sorriso di Alfred era così largo da investire con la sua gioia il mondo intero. Sembrava così immensamente giusta, quella scena, vista da quella prospettiva...

Doveva ammettere che, per un breve arco di tempo, l’appartamento fu invaso da un confortante silenzio, che con la sua tranquillità contribuì a lenire la delusione. Alfred era raramente a casa, e quando c’era studiava. Forse influenzato dalla serietà di Arthur, aveva finalmente iniziato a prendere gli studi sul serio... o almeno questo era quel che credeva.

Un giorno però sentì sbattere la porta, e la voce assordante dell’altro chiamarlo per le stanze, facendo rimbombare passi di corsa di qua e di là.

-Dude, ce l’ho fatta! Ho vinto la borsa di studio...vado a New York!-

-Congratulazioni...- mormorò confuso. Non ricordava gliene avesse parlato...

-Incredibile! Non ci speravo davvero, sai? Comunque si vede che sono il migliore!-

Non se la sentì di pensare male di lui. Sapeva benissimo quanto, a differenza sua, Alfred fosse rimasto legato ai suoi ricordi negli States. Tornare nella Grande Mela, per lui, doveva essere una specie di sogno diventato realtà. Ragion per cui finse di condividere il suo entusiasmo, telefonando agli orgoglioso genitori per dare la notizia, ed accompagnandolo a festeggiare... cioè ad ingozzarsi senza ritegno in un fast-food. Eppure qualcosa non andava. Si morse la lingua più volte, cercando di combattere contro un crescente disagio, una scomoda curiosità, un retrogusto acido.

-E Arthur?- non riuscì a non chiedere ad un certo punto.

Suo fratello cambiò immediatamente espressione, sospirando.

-Non lo so...spero non la prenda male...-

-Vuoi dire che non gliel’hai detto? Cioè, non hai neanche accennato all’idea?- chiese sgranando gli occhi.

-Lo so che avrei dovuto dirglielo prima, però...non sapevo nemmeno come... Comunque alla fine sono sicuro che sarà contento per me. Mi ama, no?-

Capi che persino per lui era una decisione difficile. Tuttavia non poteva fare a meno di preoccuparsi soprattutto per Arthur, perché Alfred, che continuava a ripetere “lo so, lo so” in realtà non sapeva niente.

Non aveva mai notato il modo in cui istintivamente Arthur era portato a tenere d’occhio che si avvicinava troppo a lui, o la punta di apprensione nelle sue domande su come aveva trascorso la giornata. Non aveva capito che, in fondo, anche l’inglese aveva le sue insicurezze, e non avrebbe preso bene quello che, a conti fatti, era un abbandono senza preavviso.

Alfred non aveva mai notato neppure le occhiate distratte di Arthur agli annunci edilizi, alla ricerca di un appartamento grande abbastanza da contenere tutti e due, e l’incontenibile confusione che l’americano portava ovunque. Non aveva capito che con lui Arthur avrebbe già voluto fare seri progetti.

Alfred dormiva quando Arthur, nel cuore della notte, telefonava per sapere come stava. Era Matthew ad accogliere i sussurri di quella voce, spogliata dalla notte degli accenti più acuti ed orgogliosi, rispondendo con inutili rassicurazioni ai suoi “ultimamente mi sembra... un po’... come dire... distante. A te ha detto qualcosa?”, invidiando profondamente la dolcezza dell’inevitabile chiusura “Ah, ha studiato tutto il giorno? Allora no, non fa niente, lascialo dormire.” Quelle ultime parole le soffiava quasi nella cornetta, come temesse anche così di poterlo svegliare: in quei momenti Arthur aveva una voce esitante e delicata come la sua.

Quella di Matthew, invece, divenne gelida. Non alzò la voce, ma prese il telefono e glielo mise davanti agli occhi:

-Chiamalo. Ora. Altrimenti glielo dico io.-

Fu l’inizio di una fase molto diversa, all’interno dell’appartamento. Non una parola tra di loro, ma le pareti rimbombavano comunque di urla. Urla al telefono e, a volte, anche faccia a faccia, quando Arthur veniva con le migliori intenzioni per cercare di affrontare l’argomento.

Per Alfred voleva solo costringerlo a rimanere e rinunciare al suo sogno, al suo futuro, a se stesso. Lui, lui e sempre lui. Matthew si innervosiva, ma non aveva il coraggio di intervenire. Solo una volta aveva tentato, ricevendo da parte del fratello un’occhiata preoccupante. Occhi sgranati e quasi aggressivi, che non gli aveva mai visto prima.

Fino al giorno della partenza, ovvero dell’amnistia generale, degli abbracci con gli occhi lucidi, di auguri in fondo sinceri. Matthew era talmente felice di aver riconquistato la quiete nel suo spazio vitale da rendersi conto solo allo squillare del telefono dell’ennesima difficile situazione che Alfred gli aveva lasciato da risolvere.

La televisione, dimenticata accesa, ronzava. L’annunciatrice allarmata parlava di una tempesta in arrivo. Matthew guardava fuori dal vetro, dove già un velo di sottile pioggerellina appannava la visuale della strada sottostante, e le raffiche di vento schiaffeggiavano un paio di piantine sul balcone. Sobbalzò e rispose. Era esattamente chi temeva che fosse.

-No, è già uscito... credevo sarebbe passato prima di andare all’aeroporto.-

Silenzio. Matthew si scusò. Non ebbe il coraggio di aggiungere consolazioni di circostanza, sapeva che Arthur gli avrebbe riattaccato in faccia. Non era il tipo da ammettere facilmente la sofferenza, ne da resa facile. Non riusciva ad immaginare come potesse sentirsi davvero in quel momento, perciò non pretese di capirlo. In qualche modo intuì che non stava piangendo. Gli riusciva impossibile immaginare gli occhi verdi di Arthur appannati dalle lacrime. Piuttosto poteva immaginarli venati di rosso, insonni, ma con ancora una scintilla combattiva.

-Quando parte il volo?-

-Tra un’ora, se il tempo non peggiora. In televisione dicono che forse potrebbero sospendere i decolli per la tempo...-

Lo stridio di un paio di gomme sull’asfalto lo interruppe, facendolo sobbalzare. Riportò istintivamente lo sguardo alla finestra e vide un ramoscello ancora tenero e verde spezzato sbattere contro il vetro, spezzato da un colpo di vento più forte. Come ipnotizzato osservava quella piccola piantina a cui aveva dedicato tante cure amorevoli e silenziose, mentre Arthur gli diceva qualcosa al volo prima di riattaccare rudemente. Tipico di Arthur.

Se solo avesse prestato maggiore attenzione a quelle impressioni, a quei presentimenti, forse le cose sarebbero andate diversamente. Era e sarebbe rimasto per sempre il più grande rimpianto della sua vita.

  
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