Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: yingsu    14/04/2015    2 recensioni
I suoi occhi si aprirono nel buio della sua stanza, sulle travi di legno del soffitto. Il sudore e le lacrime gli impreziosivano il volto, come gocce di perla lucenti, riflettevano il colore della luna, piena fuori dalla finestra, alta nel cielo.
Sentiva freddo, gli sembrava che ogni cellula del suo corpo stesse tremando, congelata da quell’acqua che ancora lo bagnava, da quelle labbra che non era riuscito a baciare per l’ultima volta.
Si strinse nel lenzuolo, scosso dai brividi, dalla consapevolezza che forse Shisui aveva ragione, che non esisteva la pace per quelli come loro.
Erano figli della guerra, nati e cresciuti fra il sangue e i cadaveri, e nulla al mondo avrebbe mai cancellato dalla sua memoria quel volti pallidi, contorti e distorti. Morti. Migliaia di morti, e il sangue sul suo viso, sulla lama lucente e affilata come i suoi occhi.

▪ | Itachi centric | Accenni ShiIta (ShisuixItachi) |
▪ Storia partecipante all' "Uchiha Angst Contest" indetto da Ayumu_7 sul Forum di EFP
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fugaku Uchiha, Itachi, Mikoto Uchiha, Sasuke Uchiha, Shisui Uchiha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nick autore: yingsu

Titolo storia: Like a bird in the snow, there is no place to build your home.

Pacchetto: Tradimento + prompt (I demoni degli incubi notturni), Uchiha tormentato.

Personaggi ed eventuale pairing: Itachi, Shisui, Fugaku, Mikoto, Clan Uchiha, Sasuke. (ShiIta).

Genere: Introspettivo, Angst, Malinconico.

Eventuali Avvertimenti: Missing Moments.

Eventuali Note: Ci tenevo a spiegare un po’ di cose, solitamente faccio le note d’autrice alla fine, ma mi rendo conto che, in questo caso particolare, una bella infarinatura prima non farebbe male al fine della comprensione di questa One-Shot.

Ho voluto trattare di Itachi alternando più volte, ciclicamente, il sonno e la veglia, incubi e allucinazioni, realtà e finzione, come una grossa tela ingarbugliata. Il tutto rigorosamente introspettivo, a volte così tanto che sarà difficoltoso anche per chi legge comprendere appieno quando è sveglio e quando sta dormendo.

Non ho studi alle spalle per poter affermare che Itachi abbia sviluppato un disturbo post-traumatico da stress in seguito al massacro, ma vivo letteralmente circondata da psicologhe, e questo mi porta a discorrere spesso con loro di questi argomenti particolarmente delicati. Alla fine conosco abbastanza da poter supporre che il trauma lo abbia portato ad un leggero DPTS, ma non ho esagerato né strafatto, perché come ho già detto, potrebbe essere solo una cosa molto blanda, e niente di più. Non mi esprimerò in merito, vedetela come volete: DPTS, o semplicemente sogni dentro altri sogni, molto alla Inception.

Ma passiamo oltre, presenza molto sentita in questa storia è il pettirosso. Ho scelto proprio lui perché è un uccello molto solitario, si allontana e canta, mostrando solo di sfuggita la sua vera essenza. È il simbolo dell’imprevedibilità, e della riservatezza nei confronti dei suoi simili. Una leggenda dice che il suo petto è rosso perché si è avvicinato a Cristo sulla croce, sporcandosi con il suo sangue.

In più, nella cultura cristiana, è l’animale guida che accompagna le anime nel regno dei morti.

Per quanto riguarda l’unica coppia presente, ci terrei a precisare che ho preso spunto da una bellissima doujin di una delle mie fanartist preferite. Lei ha supposto che Shisui non fosse morto, una volta lanciatosi nel fiume, e che avesse chiesto ad Itachi di affogarlo, per porre fine alle sue sofferenze. Mi piace così tanto questa idea, la trovo così romantica e dolorosa che l’ho letteralmente assodata come una verità assoluta, e quindi mi è venuto spontaneo utilizzarla anche qui.

Ultima cosa, ho tenuto fede a quello che Tobi racconta a Sasuke, al fatto che Itachi si fosse ingozzato di farmaci per sopravvivere, solo per morire davanti al fratello.

E insomma, questo è quanto. Un lungo excursus sugli incubi di Itachi, sulla sua vita dopo il massacro, vista dai suoi occhi stanchi.

Il titolo della storia è un frammento della canzone «Friction», degli Imagine Dragons.

Consiglio come colonna sonora l’ascolto di questa canzone: Apocalyptica - Nothing Else Matters.

Spero che sia comprensibile, per prima cosa, e che vi piaccia.

Buona lettura!

 

 




 

 

 

 

 

«I demoni degli incubi notturni».

 

 

 

 

Freddo. I pantaloni gli si appiccicavano alle gambe, zuppi di acqua, di lacrime.

«Non c’è pace per quelli come noi».

Il sangue caldo sulle sue mani, fra le sue dita, su quella maschera di cera che sorrideva, senza occhi. Si sarebbe sistemato tutto, lo avrebbe salvato. C’era ancora una possibilità.

Le dita fra quei capelli morbidi, fini come la seta, e una frase sospesa nel vento. L’ultima.

«Metti fine a questo dolore».

No. Non poteva chiederglielo, non poteva farlo.

Gli sfiorò le guance, la pelle pallida, come neve fredda e umida, si squagliava sotto il suo tocco tiepido, rigata dalle sue lacrime calde che, come pioggia primaverile, creavano solchi in quel pianto vermiglio, cancellando ogni cosa.

«Fa dannatamente male…» lo sentì mormorare, le labbra appena schiuse in un gemito muto di dolore, in una preghiera che lui non voleva esaudire.

Non lo avrebbe ucciso, non poteva ucciderlo.

«…T-ti prego», era il sussurro del vento, lo scrosciare del fiume che accarezzava le rocce, le proprie gambe molli e le braccia di Shisui.

Lo stridio dei suoi denti che si sfregavano, la mascella serrata, contratta in una smorfia che gli faceva male al volto. Non era giusto.

Non poteva lasciarlo, non era abbastanza forte per portare quel fardello pesante da solo.

Non era abbastanza grande. Non era come lui.

L’acqua fredda sulle mani, la corrente troppo forte cercava di portarlo via, di strappargli la presa da quelle ciocche bagnate, da quel viso che sotto lo specchio del fiume sembrava sorridergli ancora. Sentiva la presa sui polsi, ferrea, come un cappio – bruciava come sale sulle ferite, come lacrime sul suo labbro sanguinante.

Lo sentiva dimenarsi sotto di sé, mentre chiudeva gli occhi, serrava le palpebre restando al buio, sperando che tutto finisse, che morisse in fretta.

Che fosse solo un sogno, e che quelle mani gli stessero afferrando i polsi per gioco, in un assurdo ed infantile gesto di supremazia. Avrebbe dovuto baciarlo, adesso. Chinarsi su di lui e sussurrargli all’orecchio che non avrebbe più dovuto uccidere nessuno, se lo avesse voluto. Che con una sola parola lui avrebbe cancellato via tutto quel dolore, quei corpi morti che si portava sulla coscienza, carica come un carro di cuori che pesavano più di una piuma.

Condannati. Erano tutti condannati a morire.

La presa sulle sue braccia si allentò piano, fino a sparire, seguita dal tonfo sordo dell’acqua che si scostava, facendo posto anche all’unica parte di lui che ancora non voleva lasciarlo.

Era finita, finita davvero.

Aprì gli occhi mentre le ginocchia cedevano sotto il peso di quel dolore che si diramava in ogni parte del corpo, facendolo tremare come il bambino spaventato che era. Gli girava la testa, l’acqua era un intreccio di capillari rossi che scorreva verso valle. Lontano da lui.

La sua bocca si spalancò in un grido muto di dolore mentre si accartocciava su se stesso, come un origami in fiamme, su quel cadavere che sorrideva, galleggiando sull’acqua, davanti a lui.

Lo strinse fra le braccia, vicino al petto, mentre il suo corpo si sgretolava come polvere, in frantumi.

Cadeva a pezzi. Lui, la roccia alle sue spalle, Shisui. Di ceramica fra le mani di un mondo bambino, egoista e indelicato.

«Proteggi il villaggio, e il nome degli Uchiha».

Proteggi Sasuke.

 

 

I suoi occhi si aprirono nel buio della sua stanza, sulle travi di legno del soffitto. Il sudore e le lacrime gli impreziosivano il volto, come gocce di perla lucenti, riflettevano il colore della luna, piena fuori dalla finestra, alta nel cielo.

Sentiva freddo, gli sembrava che ogni cellula del suo corpo stesse tremando, congelata da quell’acqua che ancora lo bagnava, da quelle labbra che non era riuscito a baciare per l’ultima volta.

Si strinse nel lenzuolo, scosso dai brividi, dalla consapevolezza che forse Shisui aveva ragione, che non esisteva la pace per quelli come loro.

Erano figli della guerra, nati e cresciuti fra il sangue e i cadaveri, e nulla al mondo avrebbe mai cancellato dalla sua memoria quel volti pallidi, contorti e distorti. Morti. Migliaia di morti, e il sangue sul suo viso, sulla lama lucente e affilata come i suoi occhi.

Li vedeva ancora, ogni tanto, chiazze rosse nei suoi sogni, mostri e demoni degli incubi notturni. Strisciavano piano nel suo sonno, sotto il letto, uscivano dall’armadio e lo azzannavano alla gola, squartandolo, strappandogli la carne dalle ossa, brandello per brandello.

Frammenti di anima rubati, cocci di un vaso distrutto e incompleto.

Gocce di morte negli occhi, di dolore su un viso innocente di bambino.

Un singhiozzo gli scosse i polmoni e la cassa toracica, squarciando a metà il silenzio della notte. Si tappò la bocca con entrambi i palmi, chiudendo gli occhi, strizzando le palpebre con una tale forza da farsi quasi male.

Non era morto. Shisui non era morto. Non lo aveva ucciso, non lo aveva affogato. Quelle mani che ora soffocavano ogni gemito e sospiro non gli avevano strappato la vita, non avevano stretto quei capelli sotto l’acqua, rubandogli l’ultimo respiro.

Itachi

Gli sembrava di sentirlo ancora, di vederlo, seduto sul davanzale, cianotico, con quelle labbra livide. Sembrava un manichino, un orrido pupazzo di cera molle inzuppato.

L’acqua colava dal pavimento, dai suoi capelli scuri, e da quelle orbite svuotate, nere come la pece.

Barcollava per la stanza, camminando verso di lui, strisciando il piede destro sul pavimento, lasciando una scia scura dietro di sé.

Lui non gli avrebbe fatto del male.

Itachi.

Quella voce era una nenia infinita ed insopportabile, il canto delle cicale, la canto del fiume che si ostinava a ricordargli quello che aveva fatto.

La mano umida sul viso, sul collo e le clavicole, gli sfiorava la pelle scoperta dalla maglietta, gli asciugava le lacrime con altra acqua, e poi gli baciava la fronte e gli occhi, lo sporcava di rosso e di alghe, viscide fra le sue dite.

«Perché?» fu l’unica cosa che riuscì a sussurrare, a dire mentre le dita pallide di Shisui gli accarezzavano i capelli sciolti, gli sfioravano le labbra e le ciglia lunghe e sottili.

Per cosa?

Non riusciva a capirlo, a guardare oltre quei visi vuoti che incominciavano a prendere tutti le stesse orrende sembianze. Suo padre, sua madre, l’Hokage, Danzo. Tutti. Erano tutti uguali.

Che cosa devo fare, adesso?

Cosa?

Non rispose.

Il sorriso sulle sue labbra era l’unica cosa umana che gli restava, che dava un po’ di colore a quel teschio di neve. Il suo palmo sui suoi occhi stanchi, arrossati dal pianto, e poi il buio.

Non c’è pace, Itachi.

Non c’è pace per quelli come noi.

Un tuono squarciò il silenzio della notte mentre il suo corpo scattava, svelto, mettendosi a sedere.

Pioveva, l’acqua era filtrata dall’imposta socchiusa, gocciolandogli sulla fronte.

La chiuse con un sospiro, asciugandosi il viso nel lenzuolo già umido.

Era stanco di questi incubi, stanco di tutto.

Shisui aveva ragione: non c’era pace, non per lui.




 

 

Il sangue caldo sulla spada. Sulla lama.

Schizzò sul suo volto in un secondo, macchiandogli le labbra, sporcandogli la guancia e la fronte.

Le grida soffocate.

Le preghiere di una donna, di una madre.

Non sarebbero bastate, nulla sarebbe bastato.

Mi dispiace.

Si girò di scatto, svelto, un bambino in lacrime singhiozzava, correndo nel corridoio, dentro l’armadio, dove di solito si nascondevano i mostri.

Ma non c’erano demoni spaventosi quella notte, solo lui.

L’unico vero mostro, l’angelo della morte inviato dall’alto per sistemare ogni cosa.

Basta.

Un tonfo, la caviglia stretta fra le sue dita, e quegli occhi pieni di lacrime, lo sguardo di un bimbo che non avrebbe più giocato in giardino, che non avrebbe visto la luce dell’alba un’altra volta.

Per il villaggio.

La primavera sanguinava sopra di lui, ricoprendolo di uno strato viscido di sangue bollente.

Ogni petalo che cadeva, ogni fiore che lo sfiorava si tramutava in rubino liquido, come pioggia vermiglia sulla sua testa, sui suoi capelli.

Pioveva sangue.

Il sapore ferrigno sulla lingua gli annebbiava ogni altro senso, il fiato si condensava in piccole nubi bianche davanti a lui, mentre un sentore di nausea gli stringeva la bocca dello stomaco, gli strizzava le budella cercando di fermarlo, di bloccare quei muscoli tesi che impugnavano la katana.

Mi dispiace.

Perdonami Sasuke, non c’è altro modo.

Paura.

La vedeva negli occhi vitrei di quei cadaveri, mentre la vita li abbandonava, uno ad uno.

Mai. Non si sarebbero chiusi mai.

Volti distorti, grida mute, incubi.

Nessuno. Non si sarebbe salvato nessuno dopo quella notte.

Così doveva essere, così gli era stato ordinato.

Perdonami.

Dall’alto di quel palo della luce vedeva ogni cosa, vedeva le case sanguinare, la luna piena, testimone muta di quel massacro.

Vedeva Sasuke.

Buio.

Un conato di vomito gli schiuse le labbra, costringendolo a contorcersi nel futon, sopra il tatami. Sentiva il sapore del sangue sulla lingua, colargli giù, nell’esofago. Bollente. Vivo.

La mano che stringeva la stoffa bianca era macchiata di nero, si dipanava lentamente, come una tela di ragno, sopra i suoi vestiti, sul suo avambraccio.

Sentì il bisogno impulsivo di spogliarsi, di togliersi quei vestiti sozzi di dosso, mentre Kisame dormiva qualche metro più in là.

Strisciò fuori dalle coperte, alzandosi in piedi, sfilandosi la maglia in un gesto di ribrezzo, raggiungendo il lavandino con una strana urgenza che gli faceva vibrare ogni nervo.

I palmi sotto l’acqua non volevano saperne di pulirsi, di togliersi quel sangue di dosso. Non importava quanto sfregasse, poteva strofinarle fino a quando la sua pelle si fosse consumata, fino alle ossa, ma nulla sarebbe cambiato. Niente.

La neve fuori dalla finestra sembrava brandelli di carne, vermiglia sull’erba, sulle fronde degli alberi.

Fece scorrere la porta in carta di riso, lasciando che l’aria gelida lo investisse, cristallizzandolo sul posto, davanti a quell’odore nauseante di morte.

Un uccellino cantava una nenia lugubre, funebre in mezzo a quel cumulo di morti, in quel macello in putrefazione. Zampettava sulla neve, lasciando minuscole impronte, quasi invisibili,

Aveva il petto macchiato di sangue, come lui. Come le sue mani.

Non aveva una casa, un riparo per il freddo. Non aveva niente. Solo quel liquido rosso addosso.

Lo osservò beccare la testa di un uomo, chinarsi e strappargli un occhio, e poi divorarlo, frammento dopo frammento, pezzo dopo pezzo.

Era anche lui così, solitario, un pessimo attore di una commedia che lui stesso aveva messo in atto.

Ma il pettirosso era felice.

Sembrava felice.

Sei felice, Itachi?

No.

Si accasciò sul pavimento, le mani sugli occhi, fra i capelli, mentre quel grido muto gli graffiava la gola, artigliandosi alla sua trachea. Sentiva il sangue scorrergli giù, verso lo stomaco, come acqua bollente che incendiava ogni cosa, ustionandolo dall’interno.

Perché lui non era felice?

Perché Shisui era morto sorridendo?

Perché?

Sentì i passi di Sasuke sul pavimentò, la voce di sua madre che urlava che era pronta la cena. Era quella la felicità, e lui aveva disintegrato ogni cosa, ogni attimo. Era rimasto solo.

Solo.

Come il pettirosso nella neve.

Un gemito strozzato gli uscì dalle labbra, mentre le sue mani stringevano la stoffa del futon fino a farsi male. Non riusciva a mettere a fuoco il lampadario sopra la sua testa, e tanto meno le pareti della stanza. Tutto era una grossa macchia pallida e indistinta, aloni di oggetti, frammenti di immagini che le sue cornee non riuscivano a metabolizzare. Non più, almeno.

Chiuse gli occhi inspirando profondamente, sentendo l’addome infossarsi in modo innaturale, creando una conca, mettendo in vista le ultime costole della sua gabbia toracica, troppo piccola. Gli comprimeva i polmoni, gli strappava il fiato schiacciandolo sotto il fantasma di un peso che faticava a sopportare. Si sentiva un uccello in una gabbia di carne, stretto fra le dita di un uomo. Imprigionato. Finito. Tormentato. Senza ali per scappare. E il suo petto sanguinava fra quelle mani, mentre la vita lasciava lentamente il suo corpo.

Ma non poteva morire. Non doveva farlo.

Non aveva ancora mantenuto le sue promesse.

Un colpo di tosse gli frantumò le ossa, squarciandogli i muscoli del torace, strappandoli in un unico ed inquietante clack.

Il suo corpo si contorse su se stesso, mentre il dolore si scioglieva diventando liquido, vermiglio sul palmo della sua mano che celava la bocca, proteggendo quel segreto.

Deglutì a fatica, mentre l’ossigeno si faceva fugace, volava via da lui, lontano, intrappolandolo in una campana di vetro che ovattava ogni suono, ogni rumore. Strisciò sul tatami, fino al flacone pallido ricolmo di pillole, le dita tremavano stringendosi attorno al contenitore in un gesto di convulsa disperazione.

Si ingozzò con quelle pasticche, le sentì mischiarsi al sapore del sangue, nella sua bocca, e poi bloccarsi fra le clavicole per qualche istante, creando un nodo a metà della gola, soffocandolo prima di sciogliersi lentamente, lasciandolo libero di deglutire.

Proteggi il villaggio e il nome degli Uchiha, non importa a che prezzo.

Proteggili.




 

 

La luna lo fissava dall’alto, con quei grandi solchi scuri fra il pallore di latte e miele. Sembravano due occhi, due enormi buchi neri che lo fissavano con aria triste e lontana.

Piangevano.

Poteva sentire ogni singola lacrima sulla sua pelle, mentre quelle due schiene ritte in segno di orgoglio e onore non volevano saperne di chinarsi, di ricordargli per l’ennesima volta che lui non era il figlio che avrebbero voluto. Quello che si meritavano.

Proteggi il villaggio della foglia.

Non c’era altro modo.

«Lo capiamo, Itachi», era una carezza sul viso, l’ultima. Gli sembrò di sentirne il tepore, dopo anni, la morbidezza di quelle dita sottili da donna. Da madre.

L’amava, così tanto che avrebbe ucciso chiunque le avesse fatto del male. Eppure ora era lui a fargliene, a tradirla, a farla pezzi. Ma quelle scapole appuntite non sembravano dare alcun cenno di dolore o sofferenza. Come le era stato insegnato: nessuna emozione, nemmeno un briciolo.

Per un istante la rivide incinta, con quella pancia gonfia, seduta sull’engawa accanto a lui. Sorrideva mostrandogli come il suo addome si muoveva lentamente, «Hai visto?» diceva, e le dita sulla sua schiena sembravano promettere che lei lo avrebbe protetto sempre, difeso da ogni male. Perché era sua madre, perché lui e quella pancia erano le cose più belle e speciali che la vita le avesse mai regalato. Ed ora lui stava distruggendo ogni cosa.

«Itachi, promettimi un’ultima cosa…», avrebbero potuto difendersi, attaccarlo e proteggersi. Voleva ucciderli entrambi, ma loro non si muovevano.

Sentì le gambe farsi sempre più molli davanti a quella richiesta, a quella frase sospesa nell’aria come un minuscolo granello di polvere.

Cosa? Cosa doveva promettergli?

«… prenditi cura di Sasuke».

Sasuke.

Lo farò.

Quel nome lo colpì con una tale forza da accartocciargli lo stomaco in una morsa crudele. La nausea gli dava la testa mentre la katana fra le sue dita tremava, minacciando di scivolare sul pavimento, lontano dai suoi palmi sudati e sporchi. Non aveva più il controllo su un solo singolo muscolo del suo organismo, tutto si lacerava in preda a quegli spasmi di dolore impalpabile che gli dilaniavano il petto. Piangeva.

Sale bollente sulle sue guance, sulla sua lingua, gli inzuppava le labbra tramutandosi in piccole gocce di pioggia che s’infrangevano sul pavimento.

«Non avere paura», ma ogni parte del suo corpo sembrava gridare.

Le orecchie scoppiavano, come se qualcuno gli stesse perforando i timpani con un legno appuntito. Passava da parte a parte del suo cranio, annebbiandogli la vita, distruggendo quella maschera fredda che si era imposto fino a quel momento.

Colava sul suo viso, sciolta dalle lacrime, diventava molle e gelatinosa, come carta inzuppata.

«Paragonato al tuo, il nostro dolore svanirà in un istante», e lo sapeva. Aveva ragione.

La fitta di un momento, contro la sofferenza di una vita.

Li amava. Li amava entrambi, ma era giusto così.

Mi dispiace, mamma. Mi dispiace.

La presa ferrea sul manico della katana si fece più salda, consapevole.

Doveva proteggere il villaggio, con tutte le sue forze, con ogni mezzo possibile. A qualsiasi costo.

«Sono fiero di te, Itachi», era un eco lontano, la deflagrazione di un colpo che riecheggiava nella sua testa, schiantandosi contro la sua scatola cranica, ferendolo dentro.

Era la prima volta in cui li vedeva entrambi orgogliosi di lui, di quel figlio sfuggevole, modellato per essere perfetto. Ma la perfezione non esiste. Lui non era così.

Lo avevano capito, lo avevano capito solo adesso.

«Sei davvero un buon figlio».

Tutto finì in un attimo, la lama li trapassò entrambi, uno alla volta, mentre il sangue colava sul pavimento, gli schizzava sul volto già sozzo, bruciandogli la pelle.

Il petto gli si squarciò in due, mentre la spada strisciava sul legno, producendo un lievissimo suono, imitando l’urlo che la sua bocca non era stata in grado di rilasciare.

Il corpo di suo padre sopra quello di sua madre, inerme. Gli occhi aperti, vitrei, troppo lontani da lui, sembravano ripetergli di nuovo quanto lo avevano amato.

Chiedevano scusa, scusa per quello che gli avevano fatto, scusa per il tacito affetto negato.

Scusa.

La porta dell’entrata si aprì, seguita da quella voce infantile che stava aspettando.

Mi dispiace, Sasuke. Mi dispiace…

I suoi occhi si aprirono con uno scatto, vedeva Sasuke davanti a lui, una chiazza informe di chiaroscuro, più alto, più deciso, le spalle più larghe e dritte riflettevano una sicurezza che non gli aveva mai visto addosso.

Era fragile, Sasuke, come i petali di un fiore appena sbocciato, si ergeva vanitoso e superiore, incurante che un soffio di vento avrebbe potuto farlo a pezzi.

«Come va con lo sharingan? Dimmi fino a che punto sei diventato forte…», voleva vederlo combattere fino allo stremo, fino alla fine. Itachi desiderava morire davanti a lui, dargli quello che cercava da anni.

Sarebbe stato l’eroe, il vendicatore, colui che aveva riscattato il nome degli Uchiha.

Avrebbe ucciso suo fratello, l’uomo che aveva fatto a brandelli la sua innocenza, la sua famiglia. Gli aveva distrutto ogni cosa, ed ora lui si sarebbe preso la sua rivincita.

Per mamma, per papà, per se stesso. Per tutto il clan.

Ora capiva Shisui, capiva che cosa significasse essere felice.

Doveva mantenere solo quell’ultima promessa, una sola. Proteggi Sasuke.

Prenditi cura di lui.




 

 

Stava per morire, i polmoni faticavano a riempirsi mentre cercava di raggiungere Sasuke, premuto contro la pietra, in piedi, poteva sentirlo tremare da lì. Di terrore, paura.

Paura di morire, di non farcela, di essere debole.

Lo avrebbe difeso, non avrebbe più avuto paura. Lui era lì per quello, era sempre stato lì per lui.

«Sei diventato molto forte, Sasuke» la voce gli graffiava la gola, ogni lettera, ogni parola era un gorgoglìo, sangue sulle sue mani, nella sua gabbia toracica stanca, stufa di alzarsi e abbassarsi, «… hai combattuto fino all'ultimo».

Era quasi finita, quasi.

La mano tesa verso di lui, gli toccò appena la fronte placando quel timore infondato.

Non avere paura, Sasuke.

Gli sfiorò la testa, in un gesto gentile e dolce, in quel gesto di amore solo loro.

Mi dispiace, Sasuke. Mi dispiace.

Non ci sarà una prossima volta…

E mentre il suo cuore rallentava, perdendo battiti, lascandosi andare a quella morte che lo chiamava da tempo. Lo vide, il pettirosso nella neve – volava piano verso di lui, basso, leggero.

Cantava felice. Cantava.

Lo riportava a casa.

Sorrise.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: yingsu