Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
Segui la storia  |       
Autore: ejamary    16/04/2015    1 recensioni
Horas ha un'ambizione: costruire la nave più veloce delle Isole di Ferro. E' solo un manovale, ma nelle sue vene scorre un sangue antico e una determinazione fuori dal comune. La stessa determinazione che possiede Alla, sua figlia, cresciuta orfana di madre tra il sale e il ferro. Quando all'alba di un mattino di fine inverno la Sposa di Sale prende il largo con la sua ciurma di uomini induriti, Alla, la danzatrice della spada, crede sia per una comune razzia. Non può certo immaginare che un solo mattino basterà per metterla alla prova e per cambiare, indelebilmente, tutti gli altri mattini.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quelle chiamate le Terre dell’Ovest sono comprese tra le miniere della sorgente del Tumblestone a nord e il Lago Rosso a sud. Cosa ci sia a est, non lo so. Le coste scoscese e rocciose rendono difficile l’approdo, tanto più che grandi fortezze come Banefort o Crag le dominano dall’alto; ma dove la Zanna Dorata sfocia nel Mare del Tramonto è facile superare le correnti e risalire verso Lannisport o tagliare per la Strada del Fiume fino a Sarsfield. Il panorama è bellissimo: colline frastagliate che declinano in dolci pianure coltivate e fertili, vallate velate di nebbia e laghetti incastonati tra montagne rocciose e il fiume che limaccioso scorre veloce sotto il sole riempendosi di bagliori dorati. Dicono che nel nord ci siano le miniere più ricche di tutti i Sette Regni, con filoni di metalli preziosi facili da estrarre e grotte incrostate di gemme; ma la più grande vena d’oro si trova sotto Castel Granito, il monumentale palazzo di re Gerald Lannister. Un gigantesco promontorio di roccia rossa intagliato in torri, torrette di guardia, finestre strette e lunghe e balconate al cui interno è possibile vivere con tutti i comfort e gli agi di ogni palazzo costruito in pietra. Il suo ingresso è guardato da due grandi statue di leoni accucciati con gli occhi di rubino, mentre sulla cime della torre più alta sventola lo stendardo rosso e oro con il leone rampante. Ma noi, noi uomini di ferro siamo come i gabbiani: giochiamo con le insegne dei potenti, beffandoci dei loro grandi castelli e delle catene che loro chiamano potere mentre, liberi, voliamo sui nostri cari mari. La più occidentale propaggine dell’Ovest è la penisola di Kayce dove sorge Fuochi della Festa, a sua volta protetta dall’Isola Bella. Razziare Isola Bella è un gioco da ragazzi e le sue donne sono le più belle, ancor più delle leonesse Lannister: hanno capelli dorati e occhi limpidissimi, verdi o azzurri. Vestono stoffe scintillanti intarsiate di oro e argento e sono ambitissime come spose di sale; e se sulla Isole nasce un bimbo biondo quasi sicuramente nelle sue vene scorre per metà sangue dell’Ovest. A sud, continuando a scendere lungo la costa, si incontrano boschi di latifoglie ricchi di selvaggina che cacciamo volentieri dopo una razzia, finché non si giunge alla fortezza di Crakehall, i cui signori sono orgogliosissimi. Seguire la Strada del Mare porta all’Altipiano. E qui, l’opulenza diventa magnifica: campi in cui messi e frutti crescono quasi spontaneamente, fattorie prospere, fiumi lenti e placidi, boschi folti e strabordanti di cacciagione, prati che a primavera si riempiono di fiori fin dove l’occhio può arrivare, mulini che a fatica riescono a macinare tutto il grano prodotto, miniere di gemme meravigliose, e ovunque villaggi, città, mercati, castelli e fortini. L’Altopiano è la terra che il Dio creò perché noi Uomini di Ferro potessimo sfamarci tutto l’anno. I vigneti affacciano quasi sul mare, le colline sono appena ondulate e ingioiellate da fortezze come Acquachiara, Bandallon o Corona Nera; alla foce del Vino di Miele sorge Vecchia Città la splendida con il suo faro gigantesco, e attorno a lei i castelli di Arnia del Miele e Tre Torri; diametralmente davanti, l’isola di Arbor produce i vini migliori di Westeros. Ma quest’oggi, ci siamo fermati molto prima, prima della foce del Mander, dove le Isole Scudo occupano una frastagliata baia cristallina. La nebbia del primo mattino ci ha protetti dall’occhio di Vecchia Quercia e abbiamo raggiunto Scudo di Quercia in poco tempo: da qui sarà facile aggirare Scudo del Sud e prendere il mare aperto.
Accucciata aspetto il segnale. Il sole fa brillare la sabbia come argento e oro macinati insieme, e io non sto più nella pelle dall’adrenalina. E quando il segno convenuto arriva, scatto in avanti.
Una volta sono andata a caccia sui boschi di Orkmont. Tra i boschi che si arrampicano sulle rocce abbondano cinghiali e conigli, e io avevo con me una buona lancia. Non puntavo a niente di eccezionale, solo un arrosto fresco per cena, ma d’un tratto mi sono acquattata e ho visto per terra delle impronte che mi erano nuove. Le ho seguite e ho raggiunto una piccola cascata e una minuscola polla dove un torrente usciva dalla montagna e prendeva a scorrere verso la spiaggia. Lì, sulla riva, ho visto un cervo. Non era grande e le sue corna appena ramificate, ma ricordo che mi  è sembrato una preda degna di un re. Mi sono allora appostata e ho iniziato a muovermi lentissima, stando sempre attenta a rimanere sottovento per non fargli arrivare il mio odore. Sono rimasta ferma a lungo, fissandolo e aspettando dentro di me il momento propizio, raccogliendo tutto il mio coraggio e la mia agilità. Ero così concentrata che non sentivo più nemmeno gli uccelli cantare. Aspettavo un cenno, qualsiasi cosa. E quando il cervo ha mosso la testa leggermente di lato, mostrandomi il collo morbido, io sono scattata in avanti e gli ho conficcato la lancia nella gola. È stato così subitaneo che mi sono accorta di cosa era successo solo quando mi sono trovata le mani sporche di sangue. È un po’ quello che succede qui: prima di rendermi conto di cosa sto facendo, l’ho già fatto. La punta della mia spada rosseggia e io non so a chi appartiene questo sangue. Per un attimo attorno a me c’è solo un vortice di corpi che si urtano in mulinelli senza controllo. Poi d’un tratto vedo Guilin e inizio a danzare. Alcuni razziatori si dirigono verso le costruzioni più massicce: magazzini e granai, stalle, armerie. Io guardo loro le spalle e non perdo un colpo; lavoro con i piedi per mantenere sempre la stessa distanza da tutti gli avversari e non spreco le forze a minacciare invano con fendenti azzardati, come fanno i contadini. Io paro ogni colpo e poi, appena un varco si apre, bagno la lama nel sangue. Tenere testa a così tanti uomini contemporaneamente è difficile, ma Guilin al mio fianco falcia tutti quelli che si avvicinano troppo alle nostre gole scoperte. Amo il combattimento. La lucidità che maneggiare una spada mi regala non ha prezzo. Il mio piccolo corpo diventa solo uno strumento a servizio dell’acciaio, e una forza superiore mi domina. È qualcosa che ha a che fare con la sopravvivenza e gli istinti primordiali, e tuttavia non sono mai padrona di me stessa come nella mischia. Il sangue rosso bagna la terra sabbiosa; urla di donne e pianti di bambini si mescolano alle bestemmie degli uomini, e io sorrido nel sentire, sotto il sole di un inverno che pareva senza fine, il rumore del ferro. Dietro di me sento mio padre gridare la ritirata: adesso non sono più nelle retrovie, ma in prima fila. Inizio a farmi strada tra i corpi con gesti misurati, inesorabili, passo dopo passo. Non guardo in faccia nessuno, letteralmente. Sono contadini come gli altri. D’un tratto, però, alle nostre spalle risuonano voci diverse e la terra non riesce ad attutire del tutto il rumore di zoccoli che percuotono il terreno.
-Soldati- dico a Guilin.
-Alla svelta- mi fa cenno col capo di andare avanti e io inizio a correre con la spada davanti a me. Alle mie spalle, sento il nitrito di cavalli da guerra. Perché diamine ci sono soldati dei Gardener nei paraggi?
Lo spostamento d’aria mi avverte del pericolo prima che io possa percepirne l’olezzo. Fulminea, mi butto a terra e scarto a sinistra ingoiando la sabbia. Quando mi rialzo ho già la spada alzata a parare il primo colpo del cavaliere. Il suo destriero è gigantesco, tutta la testa più alto di me, e lui da quell’altezza ha un vantaggio incredibile, così rifletto che bisogna accorciare le distanze e mi preparo a colpire il cavallo. Ma d’improvviso il cavaliere poggia piede sulle staffe e scende dalla sella.
-Ad un fante donna bisogna mostrare cavalleria, anche se è un’assassina- dice col melodioso accento del sud. Io non rispondo. Gli lascio credere che potrebbe prendermi ogni volta al colpo successivo schivando appena i suoi attacchi, e intanto lo osservo. Sotto la sua armatura con la mano dorata in campo verde suda copiosamente. Non ha elmo e la testa bionda è scoperta, così come la tenera gola. Lo faccio stancare ancora un po’, giusto per essere certa che, quando proverò una finta e poi punterò alla sua testa, non avrà abbastanza forza per intravedere i numerosi punti lasciati scoperti nella mia difesa. E così faccio. Un solo fendente, pulito, e la sua testa spiccata rotola nella sabbia. Povero illuso. È allora che lo vedo. Guilin è in difficoltà. È ferito, sanguina dalla testa e sembra star per perdere i sensi. Non ci penso nemmeno su e corro verso di lui in tempo per intercettare la lama diretta al suo petto. Paro un fendete, poi un altro, affondo e ottengo che il mio avversario mi faccia respirare un poco. Un passo alla volta avanzo, incalzandolo, e mi rendo conto che questo soldato combatte come me, con gesti precisi e aggraziati, senza fretta e senza foga. È basso e fisicamente robusto, e tiene la celata dell’elmo abbassata. Non guardare in viso il mio nemico mi disturba, così cerco di sfiancarlo finché non rimarrà senz’aria dentro la sua scatola di metallo, oppure si deciderà a mostrarsi in volto per il verme che è. Danzo attorno a lui con passi lenti e misurati, ma le nostre mani e le nostre braccia non smettono un secondo di muoversi. Le spade si incontrano e sprizzano scintille, mentre goccioline di sangue volano ovunque. Ma ad un certo punto io faccio un passo falso. Sento il terreno sotto i piedi mancarmi e perdo l’equilibrio. È un attimo, ma il mio avversario non perde l’occasione e con l’elsa della spada mi colpisce nel bel mezzo del petto. Il colpo è forte e mi manda distesa per terra nella sabbia con il respiro mozzo. Mi giro per recuperare la spada, ma il piede del soldato schiaccia la mia mano a terra con tutto il peso. Soffio tra i denti per il dolore. Vedo il baluginare di una lama sopra di me e capisco che è finita. Che oggi il prezzo di ferro lo pagherò io. Rivolgo un ultimo pensiero a casa mia, al mare, a mio padre, e alzo la gola perché capisca che sono pronta a morire. Il soldato punta il freddo acciaio sulla mia pelle e il solo tocco, in verità, mi fa rabbrividire. Sto tremando tutta e sudo freddo.
-Avanti- lo minaccio scoprendo i denti.
Per tutta risposta lui si toglie l’elmo. Sotto il riverbero del sole compare una testa biondo scuro, un viso dalla pelle scurita dal sole come pane di orzo dorato e labbra piene e morbide. È un ragazzo quello che mi ucciderà. Calcolo che non deve avere nemmeno vent’anni, perché è imberbe. Il sudore cola lungo il collo possente. Due occhi mi fissano. Sono verdi come le praterie dell’Altipiano e hanno riflessi color miele, e ciglia fitte. Quei due occhi mi guardano senza odio e senza rancore, solo con interesse misto a divertimento. La pressione sulla mia gola si allenta, e la mia mano è di nuovo libera da ogni costrizione. Il soldato mi guarda un’ultima volta, uno sguardo che mi scivola addosso come un gatto che fa le fusa e poi mi volta le spalle lasciandomi tramortita e attonita nella sabbia. Lo guardo camminare via da me. Vorrei inseguirlo ma le gambe non rispondono ai miei impulsi. Qualcuno chiama il mio nome e d’improvviso realizzo dove sono e cosa sto facendo. Recupero la spada con la mano sinistra (la destra, a giudicare dal dolore, è fratturata) e zoppicando raggiungo gli altri. Mio padre deve aiutarmi a salire sulla nave perché io sono ancora frastornata e appena sento sotto di me il fondo di legno il dolore alla mano inizia a diventare forte e pulsante. Abbiamo perso uomini: ci vuole qualcuno che li sostituisca ai remi. Mio padre si mette al timone e io e Guilin ci troviamo con i manici di abete in mano. Siamo feriti entrambi, ma siamo solo marinai: e quando il comandante ordina, si ubbidisce. Mi concentro sull’oheh degli altri rematori per calmare il mio cuore che batte e con gli occhi chiusi, stringendo i denti ogni volta che le dita rotte strusciano malamente sul remo, passo cinque, dieci minuti, forse persino di più. Il mio corpo sottile è stremato dalla fatica ma non mollo la presa finché mio padre in persona non viene a togliermi il remo dalle mani e a prendere il mio posto.
-Coraggio Alla, scendi sottocoperta. C’è del vino- mi dice asciutto ripulendo il legno dal sangue di cui l’ho impregnato –Controlla il bottino e poi aiuta Guilin al timone.
-Sì capitano- rispondo, perché sulla nave è vietato chiamarlo padre. Ondeggiando per la stanchezza scendo le scale di legno e mi ritrovo nella stiva. Lungo le pareti sono ammucchiati beni di ogni tipo: botti di vino, sacchi di grano, mazzi di oche e capponi legati per le zampe, perfino scrigni di stoffe e pellicce. Al centro, legati in cerchio, ci sono una donna già matura con i capelli rossi e il viso piccolo e affilato, due ragazze poco più grandi di me con i capelli ricci castano chiaro, forse sorelle, e infine una ragazzina di nemmeno tredici anni, biondissima e pallida con due enormi occhi violetti. La donna ha una veste di stoffa pesante che le stringe sul petto, e che in corrispondenza dei capezzoli è bagnata. Capisco subito che deve essere in periodo di allattamento e so già chi l’ha presa: tra i nostri c’è un rematore giovane, Aina il Santone, a cui la serva del padre ha lasciato un figlio bastardo prima di morire per le bastonate del padrone. Probabilmente il ragazzo terrà il bambino con sé; e pare gli abbia appena trovato una balia. Le due sorelle piangono in silenzio e quando passo davanti a loro mi urlano di liberarle, di avere pietà. Io slaccio le corde che legano loro i piedi, ma non quelle delle mani. Che camminino pure dove vogliono, tanto ormai siamo in alto mare e, a meno che non vogliano affrontare tuta la ciurma e gettarsi in acqua, non si muoveranno da qui. La ragazzina mi sorprende. Sotto una pesante pelliccia bagnata è nuda, ma non piange né scalpita: rannicchiata su se stessa, fissa il vuoto con sguardo vacuo. Io arrivo fino al fondo della nave e appesa ad un chiodo arrugginito trovo una borraccia di stomaco d’agnello. Con la mano buona la prendo e la stappo: rum stagionato. Decido che me lo sono meritato e ne ingoio due sorsi abbondanti. Il bruciore nella gola mi fa tossire e lacrimare gli occhi, ma d’un tratto anche i dolori che ho lungo il corpo diventano meno urgenti e i muscoli del mio collo si rilassano. Torno indietro e offro la borraccia alla ragazzina, che mi sta simpatica. Questa mi guarda con i suoi occhi enormi bordati di ciglia quasi bianche e non dice una parola. Mi guarda e basta. Chi non accetta aiuto non ne ha bisogno, mi dico, e mi vado a sedere contro una botte in un angolo. Bevo un altro sorso di rum e mi preparo a steccare la mano. Con i denti strappo il ruvido lino delle vele accatastate e ne ricavo diverse strisce: arrotolo una di queste in modo da formare un stecca improvvisata e vi distendo sopra la mano e l’avanbraccio, lottando per tenere stese le dita, poi con le altre lego la mano e le falangi strettamente. Infine, siccome il polso è gonfio e tumefatto, imbevo l’ultima benda nell’acqua gelida con cui i rematori si lavano a fine viaggio e la poggio sopra la steccatura. Fa un male cane, e devo appoggiare la testa alla botte per non cadere bocconi per terra. Sento dei passi sulle scale e un uomo scende nella stiva. È calvo con solo un pizzetto nero e ispido, il naso che dopo essersi rotto in una colluttazione da ubriachi è rimasto storto e gobbuto. Ereg Spinadipesce non mi rivolge nemmeno uno sguardo. È coperto di sudore e punta direttamente al bacile di acqua fredda. Si sciacqua in fretta e si gira verso le prigioniere, che sono percorse da un fremito. In effetti Spinadipesce è gigantesco, con le spalle larghe quanto un tronco e braccia irte di muscoli. Guarda ad una ad una le ragazze, poi quasi con aria annoiata fa cenno alla bionda di avvicinarsi. Lei lo fissa senza dire nulla, come paralizzata, allora Spinadipesce l’afferra di peso e se la carica sulla spalla come un sacco. Nemmeno ora la ragazza dice nulla, la vedo solo tremare come una foglia secca, con gli occhi violetti che le ingoiano il viso. Ereg la lascia cadere a peso morto a pochi metri da me, tra due botti di vino di Arbor, e con malagrazia le toglie di dosso la coperta di pelliccia. La pelle della ragazzina è diafana, ma liscia e morbida come quella di una bambina. Il ventre è piatto, quasi le si possono contare le costole, ma i seni cominciano già a crescere e promettono di diventare, tra qualche anno, belli grossi e succosi. Tra le gambe un ciuffo di peluria biondissima dice chiaramente che è già donna. Spinadipesce la guarda con voracità, le accarezza il collo e i fianchi, poi si sfila con un colpo solo la tunica sporca di sudore e sangue. Giro lo sguardo perché mi sento leggermente in difficoltà e stringo meglio i lacci della mia mano bendata. Sento però gli ansiti di Ereg e le urla da maiale scannato della ragazzina. Le due sorelle hanno ripreso a piangere, terrorizzate. Io appoggio la testa alla botte e cerco di ignorare la cacofonia chiudendo gli occhi. Non mi piace che queste cose avvengano qui, sulla nave, in primo luogo perché tecnicamente appartiene a mio padre, ed è come stuprare una serva in casa mia; in secondo luogo perché poi il sangue e il sudore dovrò ripulirli io; e in terzo luogo perché ci sono io ad assistere, e mi sembra una mancanza di rispetto nei miei confronti. Sono pur sempre una fanciulla di sedici anni, e la violenza degli uomini, più che attrarmi, mi infastidisce. Ma non posso ordinargli di smetterla, anche se sono il vicecapitano: se è stato lui a rapire la ragazza allora ella è sua, così dice la legge di ferro. Dall’olezzo di sesso e sudore capisco che la cosa è ormai finita. Riapro gli occhi e con lo sguardo inchiodo Spinadipesce che nel bacile di acqua fredda si sciacqua il membro coperto di sangue verginale. –La prossima sei tu- ghigna guardandomi e additando il suo sesso. –Toccami e ti infilo la spada su per il culo- rispondo annoiata –Anzi, tocca un’altra donna su questa nave e butto quel vermicello ai pescecani come lenza da pesca.
-Avanti, Al, il vecchio Hoth oggi ci ha lasciato la pelle. Permettimi di gioire per non averne ricalcato le orme.
-Non su questa nave- rispondo glaciale. Mi alzo e mi avvicino alla ragazzina, che giace rannicchiata come un sacco vuoto. Le sue cosce sono viscide di sangue.
-E ti dico anche un’altra cosa, Ereg- parlo a voce bassa per non spaventarla mentre le sollevo delicatamente il busto e la faccio appoggiare al sartiame di riserva –Questa te la porti a casa e la fai vedere a tua moglie. All’ultima hai lasciato un bel bastardo in grembo, mio padre non vuole altri orfani tra i piedi. Basto io.
-Senti Alla, perché non te ne vai a quel paese?
Sento la presenta di Ereg alle mie spalle prima che la sua ombra si proietti sul pavimento di legno. Con la mano sana sguaino la spada e prima che possa fare nulla gliela punto esattamente sul petto. È ancora nudo come il verme che è e il sesso gli ballonzola grottescamente tra le gambe. La sua intera persona mi fa ribrezzo dopo quello che ha fatto oggi.
-Vogliamo discuterne col capitano?- sussurro dolcemente premendo la punta tra la peluria scura del petto –Abbiamo anche dei testimoni su quali belle parole mi hai rivolto oggi.
Porto alla cintura lo scalpo dell’ultimo uomo che mi ha mancato di rispetto.
-O forse preferisci che la risolviamo io e te, sulla terraferma?
Non c’è storia. Ereg è grande e forte come un toro, ma quando combatte è lento e impulsivo. Non avrebbe una sola chance contro di me, e lo sa bene. Lo lascio andare senza aspettare risposta, convinta di averlo intimorito abbastanza. Prenderà con sé la ragazzina e forse la farà diventare una serva della moglie, Laure. Nonostante sia molto più giovane di lui, Laure gli ha già dato un figlio, un ragazzo che ora ha quasi la mia età, ed è una persona molta forte e buona. Accoglierà la preda in casa sua e se ne prenderà cura. Questa ragazza sopravvivrà.
-Come ti chiami?- le chiedo. La sua pelle bianca è disseminata di unghiate rosse e gonfie. Prendo la fiaschetta e le medico le ferite, ma per il sangue che ancora continua a perdere da in mezzo alle gambe non posso fare nulla. Finirà prima o poi. La ricopro con una vela e a forza le faccio ingoiare qualche sorso di rum. –Ti farà sentire meglio- le dico. Lei non risponde. Che sia diventata muta? Poi mi accorgo che un rivolo di sangue le spunta anche dal labbro spaccato. La medico con pazienza e alla fine lei pigola in un soffio:-Laith.
-Bene Laith, benvenuta sulle Isole di Ferro- dico sarcastica. Le lascio la fiaschetta e risalgo sul ponte.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones / Vai alla pagina dell'autore: ejamary