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Autore: Lra_311    18/04/2015    0 recensioni
Amore, odio, dolcezza, rabbia, gioia, tristezza.
Soraya, una vita tragica, magica, strabica, stupida, sudicia... splendida!
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Soraya! Soraya muoviti o faccio tardi!»

Mio padre, capace di urlare anche alle 7 di mattina, dolce come un limone non fatto, super impegnato con il suo prezioso lavoro, tanto da star via giornate intere e dimenticarsi persino di nutrirsi. Era un medico, un infermiere per la precisione, anestesista in sala operatoria.
60 anni portati con rispetto ed eleganza, fisico slanciato, capelli brizzolati, un tempo neri come la pece, occhi marroni, sempre attenti e vigili, un sorriso per chiunque ne avesse bisogno... al di fuori della famiglia.

«Sandro, smettila di urlare! Soraya, datti una mossa!»

Ed ecco mia madre, dolce tanto quanto il marito e con una voce ancora più soave.
56 anni lei, cuoca di professione da una vita, capelli ricci e di un castano ramato, occhi cerulei, fisico più tozzo rispetto al marito.


«Soraya!»
«Arrivo, che diamine. Arrivo!»


Uscii dalla camera sbuffando, come al solito, misi il mio eastpak stellato sulle spalle sopra al chiodo di pelle nera con zip diagonale ed incrociai le braccia al petto poggiando una spalla al muro, lasciando cadere a terra il borsone di danza.

«Avete finito di urlare? Sono qui. Sono pronta. E sono solo le 7.20, è presto. Ci mettiamo venti minuti a fare la strada. E non cominciare con la storia che “non si sa mai”.»
«Modera i toni ragazzina e impara a vestirti. Stai andando a scuola, non ad una festa, ci vuole contegno.»


Mia madre e l'esagerazione, andavano a braccetto.
Non feci altro che rigirare gli occhi ed uscire di casa salendo sulla giulietta nera di mio padre, neanche avessi addosso chissà che abiti.
Semplici leggins neri, delle converse ai piedi ed una maxi maglia bianca in cotone. Era poi così esagerato?
Infilai le cuffie nelle orecchie, accesi l'ipod e rimasi ammutolita per tutto il viaggio.
Era stancante, davvero. Non poter essere libera di prendere l'autobus come tutti i miei coetanei, no, io dovevo arrivare in auto perché mio padre lavorava a 10 minuti dal liceo scientifico che frequentavo ormai da 4 lunghi anni, ora ero al quinto e avrei finalmente finito e me ne sarei andata.

Certo non potevo lamentarmi, avevo ottimi voti e non perché studiassi tanto, avevo semplicemente un'ottima memoria, specialmente fotografica, il che mi era di grande aiuto visto che così potevo ricavarmi del tempo per tutte quelle attività che tanto mi piacevano.

Avevo iniziato a studiare danza da quando avevo 5 anni, danza classica per la precisione, poi a 14 anni mi sono iscritta ad una scuola di danza moderna, nello stesso paese dove andavo a scuola, così i giorni di danza mi fermavo lì e rientravo in autobus come i comuni cristiani.
A 9 anni avevo iniziato anche a studiare pianoforte e mi sono fermata ai 15, quando lo avevo sostituito con delle lezioni di canto, sempre nella stessa scuola dove studiavo danza.

Ora, a 18 anni, le giornate andavano più o meno tutte così: mio padre mi portava davanti scuola alle 8 meno 20, lì trovavo Natasha, Federica e Giovanni ed insieme andavamo a far colazione al bar difronte, andavamo quindi a lezione fino alle 14, a seconda del giorno andavo a mangiare a casa di uno di loro tre, ripagando i genitori dando ripetizioni ai figli minori senza chiedere soldi in cambio, alle 17 andavo a lezione di danza o canto che fosse e per le 19 arrivavo a casa per cena.
Certe sere alle 21 già dormivo, altre riuscivo a reggere fino alle 23.30, altre ancora le facevo in bianco.
Poi arrivava il weekend, noi il sabato non avevamo scuola, così andavo ad aiutare una vicina di casa nella sua pasticceria per guadagnarmi qualche soldino da mettere da parte.
Avevo grandi progetti per me, non volevo che i miei sogni venissero infranti dalla mancanza di soldi.


Ero fortunata, dovevo ammetterlo, madre natura mi aveva baciata alla nascita, oddio... ero una ragazza normale, come tante altre, avevo un corpo armonioso, fisico a clessidra, un metabolismo veloce, dei capelli corvini come mio padre ma boccolosi come mia madre, degli occhi color del cielo estivo ed un sorriso radioso, una pelle pulita e liscia.
Avevo tanti interessi che riuscivo in qualche modo a coltivare, mi piaceva disegnare, cucinare, decorare, danzare, cantare e suonare. Insomma, amavo l'arte in ogni sua forma tanto che per qualche tempo, durante la scuola media, pensavo di iscrivermi ad un istituto d'arte... ma dove mi avrebbe portata? Non a realizzare i miei sogni.
A 16 anni, grazie al mio aspetto fisico, ero riuscita ad iscrivermi ad un'agenzia di moda che mi faceva guadagnare abbastanza ad ogni scatto venduto.
Insomma, non potevo lamentarmi, avevo 18 anni, un bel conto in banca e degli amici su cui potevo sempre contare.

Il ragazzo? Lo avevo, fino a quasi un anno prima, a metà estate.
Andrea, si chiamava, aveva un paio d'anni più di me e si era trasferito con il padre in Siberia per lavoro. Io e le relazioni a distanza non eravamo fatte per andare d'accordo, lui mi aveva detto che m'avrebbe aspettata e, finita la scuola, l'avrei raggiunto.
Mi spiace, proposta rifiutata, avevo i miei sogni, i miei desideri, non li avrei mai accantonati per nessuno, ma ero coerente, non chiedevo che nemmeno l'altro lo facesse per me.
La nostra storia di 3 anni era così finita, di comune accordo. Ancora ci sentivamo su facebook e whatsapp, ci eravamo lasciati in buoni rapporti, non era colpa di nessuno, era andata così.


«Hai intenzione di scendere o cosa?»

Sentii mio padre riportarmi alla realtà, mi ero persa nei ricordi e non mi ero resa conto di essere arrivata a destinazione.

«Come? Oh. Certo, scusa il disturbo eh.»

Lo salutai scendendo dall'auto e sbattendo la porta prima di raggiungere i miei amici che già se ne stavano seduti fuori dal bar, intenti a godersi il sole primaverile.


«Proprio non li capisco i tuoi, mia madre pagherebbe oro per averti come figlia e loro invece sono così assillanti e fastidiosi.»

Il commento di Natasha giunse mentre si alzava e mi abbracciava sospirando, in risposta le diedi un buffetto sulla guancia e le sorrisi con tranquillità.

«Ci sono abituata ormai, e comunque non dire così, tua madre è fiera di te. Quel quattro in matematica non ci voleva però... Cos'è? Marco ti porta via troppo tempo?»

Chiesi con un sorriso malizioso prima di salutare con un “ciao ragazzi” anche Federica e Giovanni.
Ordinai una spremuta ed un muffin al cioccolato bianco prima di sedermi e godermi il sole in faccia, sollevando gli occhiali da sole.


«Fai meno la diva, ragazza.»

Nemmeno mi servì aprire gli occhi per capire chi stava parlando in quel momento, quella voce fastidiosa l'avrei riconosciuta ovunque.

«Fai meno il rompipalle, Christian. Sei pesante, dico davvero.»

Risposi per poi guardarlo con un'occhiata alquanto eloquente. La sua presenza non era gradita.
Christian, 19 anni, aveva perso un anno ed ora frequentava la mia stessa classe. Era un bel ragazzo, capelli castani, occhi nocciola, fisico muscoloso ma non troppo, ed una mente niente male. Peccato fosse uno stronzo di prima categoria.
Vidi Federica tenere la testa bassa e mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore, cosa che ci accomunava, quindi non avevo dubbi sul fatto che si trovasse in difficoltà, ma ancora non capivo perché.


[...]

«Sai che ha Federica? Mi evita da questa mattina.»


Chiesi a Giovanni all'uscita da scuola, mentre ci recavamo a piedi a casa sua, che abitava a non più di 10 minuti di strada.
Era mercoledì ed era il suo giorno, il lunedì ed il giovedì andavo da Natasha ed il martedì ed il venerdì da Federica.
Scossi la testa pensierosa quando Gio mi chiese se fosse accaduto qualcosa il giorno prima a casa di lei, ma non mi sembrava, mi ero comportata come il solito, e poi era molto tranquilla fin quando non era arrivato Christian, era allora che s'era innervosita.
Quando lo feci notare al mio migliore amico -sì, lo so, non esiste amicizia tra maschio e femmina, ma lui è gay, quindi il problema non sussiste- lui si mise a ridere e mi portò il braccio destro intorno al collo stringendomi a sé.


«Yaya, yaya, ma certo! Sai, per essere una ragazza sei proprio carente nel campo “amore”»

Disse mimando con la mano sinistra le virgolette.


«Non puoi negare che Christian sia veramente un bel ragazzo, andiamo, è un fico da paura, qualsiasi ragazza della nostra classe, e non solo, pende dalle sue labbra, tranne te. E credo che al nostro Chris dia un po' fastidio questa cosa, credo proprio che Chris si sia preso una cotta per te, così come Federica ha una cotta per lui, quindi è nervosa quando lui si avvicina e ancora di più quando la ignora per dare attenzioni a te.
Davvero non ti sei accorta di nulla? Insomma, che ragazza sei?»


Si passò la mano sinistra fra i capelli biondi, sospirando rassegnato.
Era vero, ero una frana in quel campo, non credevo nell'amore, nemmeno mentre stavo con Andrea, tant'è che tutti continuavano a dirmi che fosse un errore, che lo vedessi più come un buon amico che altro. Forse era pure vero, ma non aveva importanza ormai.


«Non me ne ha mai parlato, pensavo lo trovasse un bel ragazzo, ma non che si fosse presa una cotta. E comunque cancellati quel sorrisetto dalla faccia, Christian non è interessato a me, non lo vedi come mi tratta? Potesse farmi sparire dalla faccia della Terra lo farebbe, non ci sopportiamo proprio, lascia perdere.»
«Sei proprio cieca ragazza mia, sei proprio cieca. Spezzerai il cuore del nostro bad-sexy boy»


Gli tirai una gomitata sul fianco a quella risposta e mi liberai quindi della sua presa, ormai arrivati sotto casa sua, dove viveva con la madre e la sorellina di 5 anni.
L'appartamento non era poi molto grande, la piccola dormiva con la madre, ex infermiera nello stesso ospedale di mio padre ma in un altro reparto, ora a casa per via della depressione, Gio aveva la stanzetta ma non vedeva l'ora di andarsene da lì, non perché si trovasse male, anzi, ma voleva lasciare il paese, trasferirsi in città e vivere la propria vita. Fernanda non era niente male come donna né come madre, da quando il marito l'aveva lasciata per una ragazzina poco più grande di me, era precipitata in una forte depressione dalla quale non riusciva a riprendersi e che le aveva costato il posto di lavoro, così Gio doveva lavorare tutte le sere per riuscire a pagare parte dell'affitto e le bollette. A turno io, Federica e Natasha li aiutavamo con la spesa, e anche gli amici di famiglia davano loro una mano in un modo o nell'altro. Si erano sempre fatti voler bene, erano delle brave persone e meritavano che la gente li aiutasse. Giovanna d'altronde aveva sempre cercato di aiutare gli altri come poteva, era nella sua natura, una persona di gran cuore, davvero.

La giornata trascorse da copione. 
Pranzammo, quindi giocai con Matilde -la sorellina- e studiai insieme a Gio il nuovo materiale. Io studiai, lui si limitò ad evidenziare pagine intere, poi prese la sua fedele nikon e si mise a farmi un album fotografico, coinvolgendomi poi insieme a Matilde per gli scatti finali. 
Alle 16.40 lasciai l'appartamento e me ne andai all'ultima lezione di danza della settimana, mi feci la doccia calda e rilassante, poi fredda e tonificante, inebriata dai profumi che la gelatina doccia e lo shampoo firmati Lush mi lasciavano attorno, quindi mi asciugai, mi rivestii e salii in autobus addormentandomi come di consueto e, come al solito, l'autista gentile mi svegliò arrivata alla mia fermata.


Andava sempre così, era l'ultima corsa della giornata di quella linea, non sapevo perché non ce ne fossero altre, ma era l'ultima, ed era sempre del solito autista sulla cinquantina, capelli castano scuro e barbetta incolta, sguardo gentile di color nocciola e fisico tozzo. Amante della birra a giudicare dalla pancia.
Era sempre gentile con me, lo conoscevo da anni ormai e, da anni, mi svegliava giunti a destinazione. Il che non era semplice, perché il venerdì non scendevo mai al mio paese, ma dove lavorava mia madre. 
Lei, cuoca di un ristorante, per quell'ora si trovava a lavoro ed io la raggiungevo, mangiavo qualcosa in un posticino che mi riservava sempre il caposala, vicino alla finestra come piaceva a me, leggermente appartata per non stare troppo in mezzo alla confusione, e poi mi mettevo ad aiutare in sala dopo essermi cambiata.
Il venerdì non facevo molto, iniziavo a lavorare per le ore 20, non prima se non quando vedevo che c'era davvero bisogno di un aiuto extra. Anche il sabato e la domenica aiutavo in sala, sempre e solo nel turno serale, poiché durante il giorno lavoravo nella pasticceria vicino casa.


In quel ristorante mi conoscevano da quando ero nata, non tutti ovviamente, ma sicuramente il gestore, lo chef e il caposala, che fino ad un paio d'anni prima era un semplice cameriere.
In ogni caso era raro che chi venisse assunto se ne andasse presto, il clima era cordiale, non c'era tensione tra colleghi, si lavorava in pace anche se duramente. Superati i due mesi di prova quindi, si poteva star certi di aver trovato un posto fisso.
Poi c'era chi se ne andava per motivi vari, chi mollava, chi veniva licenziato per errori che il gestore proprio non sopportava, ma quello succede ovunque.

Essendo comunque mercoledì scesi alla solita fermata, mi fermai in pizzeria a mangiare una pizza con funghi e patate al forno, feci quindi la mia camminata di 15 minuti ed arrivai a casa per le 20 passate.
Andai in camera e mi misi al pc, controllando per l'ennesima volta il sito dell'università di Milano, la Bicocca, e guardai il piano di studi, aprendo poi i link dei vari corsi.
Niente di più interessante.  
Sognai ad occhi aperti davanti al pc, fino a quando lo squillare insistente del mio cellulare non mi riportò con i piedi a terra.


Due chiamate perse ed un messaggio di Nat. “Svegliati cazzo, la mamma di Gio si è suicidata.”

Nuovamente il cellulare riprese a squillare, questa volta risposi allarmata, era tutto vero, Fernanda non c'era più.

 

   
 
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