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Autore: Aika Morgan    26/12/2008    13 recensioni
Flavia è morta. Fa caldo, afosa giornata di maggio che preannuncia quella che sarà un’estate ancora più afosa dell’anno scorso, è l’estate del 2004. Tutti a scuola si chiedono chi sia stato quel bastardo che ha ucciso Flavia. Beh, io lo so, ma non lo dirò mai. Perché dovrei? La odiavo, tutti dicono che era bella, studiosa, simpatica, ma non ne sono mai stata convinta.
Genere: Thriller, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'C'era una volta l'het'
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Nei panni di un assassino.

 

Flavia è morta. Fa caldo, afosa giornata di maggio che preannuncia quella che sarà un’estate ancora più afosa dell’anno scorso, è l’estate del 2004. Tutti a scuola si chiedono chi sia stato quel bastardo che ha ucciso Flavia. Beh, io lo so, ma non lo dirò mai. Perché dovrei? La odiavo, tutti dicono che era bella, studiosa, simpatica, ma non ne sono mai stata convinta. Bella era bella, occhi neri e ca­pelli castano chiaro, ma non aveva niente di simpatico oltre la sua bellezza, era vuota, superficiale, nessuno la conosceva veramente come l’ho conosciuta io. E dire che non eravamo mai state amiche, dove ero io non era lei e dove non ero io era lei, ma so molte più cose di quante qualcun altro possa saperne, più delle sue amiche, più del suo ragazzo. Non rivelo la mia identità, almeno finché non mi scopriranno, è inutile, nessuno ar­riverà mai a pensare che conoscevo Flavia, non ha nessuna importanza sapere se sono bionda o bruna, alta o bassa, bella o brutta, sono l’unica a sapere come sono andate esattamente le cose e questa è la cosa che conta veramente… E sono sicura che nessuno capirà mai che sono stata io, quindi perché espormi così tanto?

 

Flavia è morta. E’ il 12 maggio, un giorno prima che venga uccisa, manca poco meno di un mese alla fine della scuola. Mancano solo due anni e tutti potremo respirare l’aria di libertà che si respira usciti da scuola dopo il diploma.

L’ho osservata per tutta la giornata, Flavia, è così falsa, perché finge di essere quello che non sa­rà mai? Perché non lo dice al mondo intero che non è la donna di successo che la credono tutti, che non è quello che appare? Cosa le costerebbe?

Tutti ora, dopo la sua morte, dicono che sapeva come avere successo… Tutti chi? Quelle sceme delle sue amiche, i professori, convinti che per avere successo nella vita bisogna es­sere bravi a scuola, nessuno ha mai capito com’era veramente e come la sua morte sia stata una li­berazione per me che la odiavo con tutto il cuore.

Non chiedetemi perché la odiavo, cosa mi aveva fatto, perché volevo la sua morte, non saprei cosa dire. Come un’interrogazione per la quale non c’è stato il tempo di prepararsi, non uscirebbe alcuna parola dalla mia bocca se mi chiedessero il motivo del mio odio per Flavia. Non mi ha mai fatto niente in fondo, ma c’è bisogno di un motivo fisico per odiare qualcuno? C’è bisogno di parlarci e di frequentare questo qualcuno per odiarlo? La odiavo e basta. Mi dava fastidio come si metteva in mostra, come parlava, come si muoveva, come veniva ammirata, non era invidia, non mi è mai im­portato di questo, l’apparenza è effimera, non serve a niente, si spezza quando cominci a praticare una persona, ma una volta tanto, anche senza praticarla, avevo capito come era Flavia. E per me una persona che maschera quello che ha dentro non ha importanza, non riuscirei mai ad apprezzarla. Per questo motivo l’ho uccisa. Non mi vergogno del mio gesto, l’ho uccisa, lo ammetto, ho ucciso Fla­via, non mi andava la sua doppia personalità. Sono un’assassina, non me ne vanto, né voglio che qualcuno pensi che sono pazza ad ammetterlo: vado fiera del mio ruolo, come Lady Macbeth era fiera di avere ucciso il re per fare in modo che suo marito lo sostituisse.

 

13 maggio. Sono le due, usciamo da scuola, sono dietro di lei, la seguo, ho deciso una volta per tutte che non voglio vederla più, che ne ho abbastanza della sua ipocrisia. La cattiva è lei, voglio solo che si renda conto che la vita non può essere finzione. La seguo senza che se ne accorga, i miei passi sono leg­geri, lei non si gira a vedere se c’è qualcuno che la segue, non immagina nemmeno che tra qualche minuto sarà morta. La seguo ancora, fino in camera sua, si guarda allo specchio, si crede bella, la sua “bellezza” offusca tutto quello che c’è attorno a lei, non vede niente oltre quello, nem­meno me.

Va a prendere qualcosa da mangiare, è sola in casa, nessuno saprà mai che cosa le è successo real­mente. Crederanno che siano stati dei ladri, a cui lei ha opposto coraggiosamente resistenza. La cu­cina di casa sua è ampia, soleggiata, il sole che vedrà oggi sarà l’ultimo per lei. Mi avvicino sempre più silenziosamente, non si è ancora accorta di non essere realmente sola, di essere nel mirino di qualcuno che la odia a morte, che vuole vedere strisciare per terra, invocare pietà, vuole annientare non solo il suo corpo, ma anche la sua mente, farle capire che in realtà non è niente che ha fallito tutta la sua vita.

Ho deciso: ora o mai più. La colpisco silenziosamente con un coltello, cerco di tagliarle le vene, vo­glio che soffra, sono crudele, lo so benissimo, ma voglio vederla soffrire. Non succede mai di leg­gere cosa prova un assassino nell’uccidere, ebbene io posso dirlo. Se odi la tua vittima è una soddi­sfazione ucciderla. Flavia non si accorge della morte, forse non si rende conto della gravità della cosa, è troppo stupida per capire che la morte non è un gioco.

Prima di andarmene guardo il suo cadavere, la sua posizione, il suo sguardo, che non ha avuto nemmeno il tempo di chiedermi di risparmiarla… E’ semisvenuta per terra, in bagno, l’ho seguita anche lì, prima che la colpissi si stava spazzolando i capelli, la spazzola le è caduta dentro la vasca da bagno, avrebbe voluto recuperarla, come se avesse potuto difendersi con quella.

Mi chiedo se l’abbia capito che domani per lei non esiste, che non vedrà più nessuno, che se aveva dei sogni sono stati infranti per sempre… Domande a cui nessuno potrebbe rispondermi, se non Flavia. Ma Flavia giace morta sul pavimento, il sangue che le esce dalle vene ne è la testimonianza.

 

Me ne vado. Ho compiuto quella che per me era una “missione”, sono felice, so che se mi trovas­sero mi sbatterebbero in galera, ma non mi troveranno mai, non capiranno mai che sono stata pro­prio io ad uccidere Flavia, nessuna traccia, nessuna pista potrebbe mai ricondurre a me, nessuno sa che la conoscevo, anzi che sapevo tutto di lei, la conoscevo forse meglio di quanto lei conoscesse sé stessa. E anche se succedesse, che importanza avrebbe? Un assassino sa di sbagliare, ma nel mo­mento in cui uccide diventa incapace di pensare alle conseguenze… Non capiranno mai chi sono io, né chi sia stata veramente Flavia…

 

Non lo capiranno… Sono passati due giorni dalla morte di Flavia, continuo ad osservare tutti quelli che la conoscevano: il suo ragazzo, le sue amiche, i professori, tutti si chiedono come sono andate in realtà le cose. A scuola è anche venuto un ispettore di polizia, per interrogare le amiche più in­time di Flavia, quelle con cui ha parlato l’ultima volta, prima di andare incontro alla morte. Le guardo, affrante come non mai, e mi viene da ridere al pensiero di quanto siano state sciocche a cre­dere che la loro Flavia fosse davvero una brava ragazza. Non era cattiva, ma era una nullità, non aveva senso la sua vita, ricca di frustrazioni, di lotte per apparire forte, quando invece era una po­vera stupida, condizionata da quello che pensavano gli altri.

Continuo ad osservare: per loro sono invisibile, nessuno si cura né si curerà mai di me, sono sottile come un fantasma, eppure posso vantarmi di averla conosciuta, di conoscere il motivo della sua morte.

 

La polizia ha interrogato tutti, ma nessuna pista, nessuna traccia è stata trovata, ho capito che le mi­gliori amiche di Flavia, Delia e Gabriella, sono le maggiori indiziate: non sono riuscite a fornire un alibi convincente. Delia, singhiozzando, ha detto che subito dopo scuola era tornata a casa sua, ma nessuno può confermarlo con esattezza, lei non abita qui, ma a quindici chilometri di distanza, di autobus che possono riportarla a casa ne passano ogni dieci minuti, la polizia sa benissimo che avrebbe po­tuto benissimo uccidere Flavia in dieci minuti e prendere un autobus diverso dal solito.

Il movente?

Avevano litigato. Flavia l’aveva accusata di provarci con il suo ragazzo, lei si era sentita umiliata e per la polizia è un buon motivo per uccidere… Un’altra aggravante per Delia è che ultima­mente lei e Renato, il ragazzo di Flavia, stavano sempre insieme, forse avevano davvero una storia alle spalle di Flavia, lei l’aveva scoperto, aveva litigato con Delia per questo motivo… Quanto sono illusi quelli della polizia! Non la sapranno mai la verità, non la sapranno mai … Mai.

 

Gabriella ha ammesso che tra Delia e Renato c’era qualcosa. Flavia si era arrabbiata con tutte e due, avevano litigato già da qualche giorno, Gabriella dice che entrambe volevano chiedere scusa a Fla­via e che vorrebbero poter tornare indietro, vivranno per sempre con il rimorso, così hanno detto entrambe, ma non hanno esitato a tradirla, a ridere di lei, Flavia era sola, altro che amiche! Chissà se qualcuno le voleva davvero bene o se tutti erano ipocriti con lei.

Mi fa un po’ pena, è bruttissimo che tutti siano ipocriti con te, ma non mi pento. Però so di essere stata sincera nel mio odio. L’unica persona sincera che Flavia abbia conosciuto sono stata io, la sua assas­sina, un pa­radosso, no?

Perché Gabriella avrebbe dovuto uccidere Flavia? Rancori. Gabriella ha sempre saputo di non poter essere come Flavia, covava del rancore nei confronti della sua amica, colpevole di essere migliore di lei. L’invidia dunque, l’invidia avrebbe spinto Gabriella a colpirla più e più volte? Se lo doman­dano tutti, è come se tutti sospettassero di tutti, è uno spettacolo vederli guardarsi con sospetto l’un l’altro pensando: “Potrebbe essere stato lui, potrebbe essere stata lei!”. Non la sapranno mai la ve­rità, non la sapranno mai … Mai.

 

Renato non ha molto da dire, solo confermare che frequentava Delia da qualche settimana. Sostiene che la amava, la povera Flavia, gli fa tanta pena, vorrebbe chiederle perdono… Maledetto vigliacco! Anche lui è un ipocrita, anche lui ha preso in giro Flavia, chissà se lei l’aveva capito o faceva come tutte le ragazze innamorate, che non sono in grado di distinguere la realtà dalla fantasia? No, non provo compassione per Flavia, è solo sdegno, lo proverei per chiunque fosse stato preso in giro in questo modo, nemmeno al mio peggiore nemico augurerei una cosa simile, nemmeno a lei avrei voluto che accadesse, credo che l’ipocrisia sia peggio dell’odio, almeno quest’ultimo è sincero da parte di chiunque.

 

Dovrebbe ringraziarmi, Flavia. Ho fatto in modo che il muro entro cui era rinchiusa si infrangesse, che la verità venisse svelata, anche se nessuno saprà mai che in realtà era una debole, una che comportandosi in un certo modo, facendo finta di sapere come avere successo, credeva di essere forte ed intelligente, quando invece era stupida o più semplicemente una bugiarda, che cercava di vivere pacificamente con gli altri, e di non mostrare il proprio carattere per non venire emarginata. Infatti non era emarginata da nessuno: tutti la cercavano, volevano essere suoi amici, la ritenevano una delle persone più in gamba della scuola, quando invece non era affatto vero. Ho cercato di fare in modo che nessuno la prendesse più in giro, che Delia e Renato avessero una storia alle sue spalle e ridessero di lei, che Gabriella si mostrasse comprensiva, ma che in realtà stava dalla parte di Delia. Quante cose ho evitato a Flavia, e non avrò mai la benché minima riconoscenza da parte sua… E’ morta e i morti non possono ringraziare.

 

Se mi tormentassi anche io nel dubbio, forse sospetterei di Delia o di Gabriella, ma so di essere stata io, solo io, io ho ucciso Flavia, Flavia è morta per mano mia, vorrei urlare al mondo il mio orgoglio, sono pazza, o forse no, un pazzo non ammetterebbe la propria follia. La polizia non mi interrogherà mai, a nes­suno importa sapere da me qualcosa, nessuno sospetta… Le mie parole sono sempre più sconnesse, sempre più uguali, sto sprofondando nella pazzia?

Chi sono? Sono Delia, Gabriella o chi altri? Quest’assassino ce l’ha un nome, un volto? Se lo chie­dono tutti ai funerali, vogliono giustizia… La polizia continua ad indagare, non riesce a venire a capo di questo mistero. Posso dire di aver compiuto un “delitto perfetto”. L’arma non si trova, per forza, sono riuscita a pulire il coltello prima di andarmene, senza lasciare impronte che potrebbero fare capire la verità. Ho rimesso il coltello al suo posto, uguale a tutti quelli che si trovano a casa di Flavia, nemmeno io potrei riconoscerlo, io che l’ho usato, figuriamoci la polizia, anche se ormai esistono marchingegni complicatissimi, in grado di svelare ogni cosa.

 

Mi mescolo fra la gente, nessuno si accorge che sono l’unica a non piangere la morte di Flavia, sono indifferente, nessuno pensa che possa entrarci qualcosa con questa storia. Sono semplicemente l’assassina, potrebbero avermi interrogata, potrebbero avermi ignorata, mi estranio dalla situazione, guardo solo quello che succede… Se anche fossi Delia o Gabriella non lo capiranno mai, sono un’assassina, l’importante è questo. Mi mescolo agli altri, nessuno capisce che sono stata io, sono uguale e diversa. Uguale a tutti gli altri e diversa perché ho avuto il coraggio di uccidere, anche se non lo dirò mai, custodirò per sempre questo segreto, anche se al posto mio potrebbero accusare un innocente, non me ne importa niente, non avrei alcun modo per scagionare chiunque provassero ad incastrare.

 

21 maggio. E’ fatto. L’hanno capito chi ha ucciso Flavia. Hanno scoperto che sono stata io. Ma non potranno mai farmi niente, perché come se ne è andata Flavia, me ne sono andata anche io. Io sono l’assassina, ma sono anche la vittima. Flavia ha ucciso Flavia. Io sono l’assassina di me stessa, per questo non mi avrebbero mai trovato, non ho mai testimoniato, sono morta con Flavia, ho inscenato un omicidio, la verità è che volevo avere l’attenzione di qualcuno, non è vero che ero capace di avere successo. Appena morta mi sono ritrovata a scoprire molte cose sulle mie amiche, sul mio ra­gazzo, li credevo sinceri, e invece niente era vero.

Perché mi sono uccisa? Perché non ero quello che apparivo… Odiavo me stessa con tutto il cuore, perché fuori non ero come dentro… Sono sempre stata una persona molto fragile, ma fingevo di es­sere forte, fingevo di essere sensibile di fronte alle disgrazie altrui, ma non sono mai stata in grado di capirle sul serio, ero superficiale. Avevo tutto dalla vita, ma quello che volevo non c’era. L’affetto. Mi sentivo circondata da un muro di ipocrisia, volevo abbatterlo e l’unico mezzo era mo­rire. Non amavo particolarmente la mia vita, era troppo vuota, fatta solo di frivolezze, senza nemmeno un momento di riflessione.

In me erano due persone: dove c’era la Flavia allegra e sorridente, pronta a scherzare con gli amici, non c’era la vera Flavia, introversa, a tratti autolesionista e insoddisfatta di tutto, della vita, del mondo che mi circondava.

 

La Flavia introversa, al contrario di quello che si potrebbe pensare, capiva molte più cose della Flavia allegra: la sera si chiudeva nella sua stanza, si denudava davanti allo specchio e si rendeva conto di essere molto diversa, forse troppo, dall’apparenza che si era costruita. Il suo corpo non la soddisfaceva, il suo carattere le faceva schifo, meditava da tempo di farla finita, solo dopo mesi e mesi di ripensamento è riuscita a trovare il coraggio di morire, perché bisogna essere coraggiosi per prendere una decisione del genere, per voler morire ci vuole un attimo di coraggio che prevalga su giorni di ripensamento. E quell’attimo alla fine c’è stato.

 

Lo specchio, lo stesso davanti al quale lei si denudava ogni sera, era la mia ossessione. Cercavo di vedermi come gli altri mi vedevano, ma non ci riuscivo, ero troppo consapevole dei miei sbagli, dei miei errori, delle mie mancanze, ognuna di esse era come una piaga sul mio corpo, invisibile agli altri ma perfettamente noto a me… Quel corpo, così perfetto, non lo sentivo adatto a me, non era adatto ad una che si nascondeva dentro una campana di vetro, non lo volevo, non sapevo che farmene, ho rifiutato di starci dentro.

 

In me erano due persone: la parte allegra, quella dell’apparenza, e quella vera, che odiava tutto, era insoddisfatta e infelice, capiva molte più cose di quanti gli altri immaginassero. E le emozioni re­presse tendono a prevalere sulle altre: la rabbia ha prevalso sull’allegria, ho deciso di farla finita, le due componenti della mia persona si odiavano, non si conoscevano, ma si odiavano.

E come avrebbero potuto conoscersi, se quando c’era una non c’era l’altra?

Ognuna sapeva dell’esistenza dell’altra, cercavano di annullarsi a vicenda, ma alla fine la loro guerra è finita e ha prevalso la morte, il desiderio di farla finita.

Sentivo freddo attorno a me, era il freddo che lasciavano tutte le persone che incontravo, e che mi trattavano con ipocrisia, magari con me erano amichevoli e simpatiche, ma in realtà mi pugnalavano alle spalle. In realtà sono state loro ad uccidermi, tutte le “brave persone” che conoscevo, la cui ipocrisia è stata in grado di ferirmi giorno dopo giorno, lasciando dei segni invisibili, ma indelebili.

 

Come ho fatto ad inscenare un omicidio? Non è stato poi così difficile, ci hanno messo sei giorni per capirlo, posso dire di essere stata abile. Mi sono tagliata le vene con un coltello e ho fasciato su­bito il polso, come avevo visto in un vecchio kolossal americano, Quo Vadis? Fasciare stretta la fe­rita ha evitato che il sangue uscisse velocemente. E comunque il coltello mi ha solo aiutato a morire, hanno fatto di più le ferite inflitte dall’ipocrisia, quelle che mi procuravo ogni giorno e che mi rendevano sempre più debole e decisa a farla finita. Sono andata in cucina, ho lavato il coltello, l’ho rimesso al suo posto. Il tutto con lucidità, ero tranquilla, sapevo a cosa andavo incontro, andavo in­contro alla morte, ne ero consapevole e in un certo senso felice. In bagno ho riaperto la ferita, ho gettato la benda con la quale avevo fasciato il polso e l’ho gettato nel wc, facendo in tempo a tirare lo sciacquone. Mi sono gettata a terra, nella posizione in cui mi ha trovato la polizia e ho aspettato.

Dopo quanto tempo sono morta? Secondi, minuti, ore? Mi sono risvegliata accanto al mio cadavere, ho avuto l’opportunità di vedere quello che è successo dopo, quello che dicevano quelli che mi “co­noscevano” di me, ma niente equivale alla realtà, solo io mi sono conosciuta veramente, gli altri non ne hanno avuto né la volontà, né la possibilità di farlo veramente.

 

Sono un’assassina. Ma non ho fatto del male a nessuno. Ho ucciso l’altra parte di me stessa, quella che non mi piaceva, l’ho annientata, il mio essere ha trionfato sull’apparenza, ora si crederà che mi sono uccisa per un ragazzo, ma non è vero. Passerò per la ragazzina viziata che non aveva avuto più pace da quando il ragazzo l’aveva lasciata, ma non è vero, un po’ mi dispiace che mi ricorderanno in questo modo, ma non posso farci niente.

 

Non posso dire di avere ucciso. La Flavia che tutti conoscevano non esisteva, non era niente. Si può uccidere quello che non esiste? Come Pigma­lione tutti quelli che mi conoscevano hanno plasmato una statua di me, ogni volta diversa, l’hanno costruita secondo le loro aspettative, senza preoccuparsi di confrontare la loro statua con la realtà, così io ho fatto l’unica cosa che c’era da fare, annientare la realtà…

 

Sono Flavia o la parte cattiva di Flavia? Non sono forse nessuna delle due, un’ombra, è rimasto questo di me, il ricordo svanirà, la mia ombra no, è eterna, vado in un mondo che non conosco, completamente diverso da quello in cui ho vissuto per 17 anni, il mondo della realtà, dove tutti mi conosceranno solo per quello che sono e dove potrò dire di aver contribuito a non essere effimera apparenza positiva, ma realtà, anche se è stata una realtà sadica e crudele, che mi ha portato a pun­tare il coltello contro me stessa. E ad uccidere Flavia.

 

FINE.

   
 
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