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Autore: _Deadly_Poison_    19/04/2015    1 recensioni
Le parole a volte fanno male, sono spietate... feriscono e lasciano segni profondi.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nando, mangia! Ti si vedono le costole per quanto sei magro, non ti vedi? Stai in piedi per miracolo, ma i miracoli non durano a lungo. Prima o poi, collasserai se continui così.
Il ricordo della voce di mio padre mi feriva profondamente. Cosa vedeva lui, che a me sfuggiva? Guardai il mio riflesso nello specchio, fissandolo per minuti interri, senza nemmeno batter ciglio. La conclusione era la stessa di una settimana prima: dovevo fare qualcosa per perdere i chili di troppo. Mi toccai l'addome, con disgusto.
Tutto grasso! Che schifo... pensai passandoci la mano sopra, un paio di volte.
Anche di viso ero ingrassato. Nel vedermi, avvertì un senso di nausea. Fuggì al bagno, inginocchiai vicino alla tazza del water, e spinsi due ditta giù per la gola. Una contrazione forte, e lo stomaco buttò fuori quel poco che prima aveva ingerito.
Mi pulì la bocca. Stavo già meglio. Sciacquai il viso con acqua fredda e iniziai a prepararmi per andare a scuola. Frequentavo il quinto anno di liceo scientifico, e non vedevo l'ora di andarmene via da quella piccola cittadella dove tutti conoscevano tutti. Mi opprimeva. La parola "privacy" era priva di significato per i suoi concittadini, abituati a chiacchierare e a spettegolare. Avere un segreto in quel posto era un'impresa impossibile da realizzare. Soprattutto per quello che volevo andare via, lontano, diventare una delle tante facce anonime della folla.
Infilai i jeans e una maglietta a maniche corte con su scritta "La misura del tuo penne, non è nemmeno un quarto del mio IQ". Mi ero appena guadagnato il diritto di essere malmenato dai miei compagni. Pazienza.
«Hai presso i soldi per la merenda?»  mi urlò dietro mia madre.
Sospirai chiudendo gli occhi e stringendo forte i denti. Perché continuava a tormentarmi con merende, pranzi e cene?
«Possibile che per voi, tutto si riduca al mangiare?» dissi rassegnato in un finale. «Sì, li ho presi, contenta?»
«Passa dalla Catia, le ho detto di prepararti un panino alla mortadella per oggi» aggiunse ignorando la mia risposta e la sofferenza celata nelle mi e parole.
Al solo suono della parola "mortadella", avvertì la minaccia incombente di un altro conato di vomito.  Mi precipitai a uscire e, una volta fuori, feci un paio di respiri profondi, purificatori.
Se avessi voluto sentire, avrei sentito mia madre singhiozzando dietro alla porta. Nell'ultimo periodo piangeva spesso, troppo. Era diventata insistente, mi seguiva, controllava di nascosto il mio telefonino e aveva persino parlato con i miei compagni. Temeva che mi drogassi. Ma quali droghe? Non fumavo neanche. Il malessere che lei percepiva in me, non aveva una spiegazione facile.  Nemmeno io sapevo definirlo.
Avevo smesso di ascoltare, di sentire, i loro lamenti, ne avevo abbastanza dei miei. Mi avviai senza voglia verso il liceo. Camminavo a passi grandi, con il mento appoggiato al petto e la schiena curva. I capelli lunghi, castani, raccolti in una coda, e occhiali da sole. Con il mio metro e novanta, sembravo un filo d'erba piegato dal vento.
«Ehi, testa di cazzo, che vorresti dire con quella frase? Che io ce l'ho piccolo?» berciò un ragazzo, e il piccolo gruppetto che lo circondava, si schierò subito dalla sua parte.
Imbecille...  Feci finta di non sentirlo, anzi, non fingevo: semplicemente non volevo sentirlo, e continuai per la mia strada. Avevo cuciti addosso gli occhi di tutti i studenti di quell'edificio, come un fenomeno da baraccone. A volte erano sopportabili, altre invece, pesavano parecchio, e la mia, già fragile salute mentale, iniziava a risentirne.
Non uscivo più, non frequentavo più gli amici, per non parlare delle ragazze. La  bolla di sapone che mi ero inventato, mi separava da tutto e da tutti.
Presi posto in fondo alla classe, come sempre, e iniziai a scarabocchiare su un foglio. Dal carbone morbido della matita prendevano forma figure tanto belle quanto inquietanti, con visi d'angelo e sguardi diabolici, miraggi incantevoli che ingannavano la mente. Una volta, ero molto bravo a disegnare, ma ormai nemmeno quello mi entusiasmava più. Accartocciai il foglio con rabbia, come se volessi fargli male.
«Peccato, quella a destra ti era venuta bene» sussurrò una voce all'orecchio, e il respiro caldo mi fece venire i brividi. «Bella anche la maglietta. Oggi ti sei dato da fare.»
Rimassi immobile, respirando appena. Jeni era l'unica che mi rivolgeva la parola, l'unica che lasciavo sbirciare nel mio mondo.
«Sono curioso di sapere se anche il tuo amico Samuele la pensa allo stesso modo» borbottai aggrottando le sopracciglia.
«Secondo me, gli è piaciuta di più quella con "Sei lo spermatozoo impazzito di mio padre"» ridacchiò lei.
Sorrisi anch'io in un angolo di bocca. Quella volta le presi di brutto. Avevo portato per settimane il ricordo violaceo sotto un occhio. Vedere la faccia interdetta di quello lì, beh, non aveva prezzo. Vai per l'occhio nero!
Le parole sussurrate appena, mi svegliarono dal torpore in cui annegavo e uno stormo di pensieri iniziarono a svolazzarmi per la testa. Jeni era mia amica, l'unica che mi capiva e mi dava un po' di coraggio. Jeni era leggermente ipocondriaca, ma era eccessivamente bella e, strano ma vero, anche intelligente. No, perché misoginismo a parte, le bellissime non sentivano il bisogno di aumentare la massa muscolare dei loro neuroni. Piuttosto si aumentavano le taglie dei reggiseni, era un investimento a lungo termine, con guadagno garantito. Lei invece, godeva di "pettorali" perfetti e di materia grigia abbastanza da passare per una nerd. Jeni non era..., anzi, io non ero alla sua altezza. Non lo sarei mai stato. Punto.
Tornai a nascondermi dentro la mia bolla. Là dentro, niente e nessuno, poteva raggiungermi. Con la mente occupata ad alzare muri di difesa, quello che succedeva intorno non mi sfiorava nemmeno. Non avrei saputo dire di cosa stavano parlando i miei compagni, o cosa spiegassero i professori, ma non me ne importava un bel niente.
Le ore le tolleravo, a fatica, ma ce la facevo. La mensa era un momento, quantomeno delicato. Guardavo il cibo con repulsione, e anche il cibo mi guardava schifato. A dirla tuta, non piaceva a nessuno il cibo della mensa del liceo.
Presi un vassoio e mi misi in fila per essere servito.
«Oggi, zuppa di fagioli e ceci, cotoletta di maiale con spinaci, yogurt e arance» lessi sul foglio attaccato sulla porta.
Fortuna che avevano già un nome, altrimenti non avrei saputo dare un nome alla poltiglia melmosa dal colore improbabile, e neanche alla ciabatta intirizzita che si nascondeva vergognata sotto una palla verde, irregolare. Mi venne il dubbio che erano spinaci, ma chissà? L'unica che preservava l'immagine originale, era l'arancia. Aveva troppi zuccheri, la scansai direttamente. Presi la bottiglia d'acqua, quella poteva andare bene.
I tavoli erano già occupati quando arrivai. Mi sedetti ad un tavolo in disparte, vicino a Enrico; un altro emarginato come me. Dopo cinque minuti lui aveva fatto fuori tutto, io ancora cercavo il coraggio di toccare l'acqua.
«Ma la mangi 'sta roba o no?» disse mentre masticava a bocca aperta.
Mi faceva impressione: ingurgitava qualsiasi cosa, e si vedeva. «Puoi prenderla, se vuoi. Io non ho fame» risposi. Basta che non mangi anche me.
Da un tavolo si alzò un tizio con il piatto di zuppa in mano. Veniva dritto verso di me. Lo riconobbi subito. Joele aveva un "debole" per me. Era dal primo anno di liceo che mi tormentava con i suoi scherzi patetici e le battute senza senso.
«Ehi, Cicione, levati!» disse al ragazzo seduto vicino a me.
«Adesso mangio, non rompere il cazzo.»
Pezzettini di spinaci presero il volo dalla bocca di Enrico, alla faccia di Joele.
Rispetto, fratè! pensai mentre cercavo di soffocare una risatina.
Un mare di occhi puntarono su di noi. Quel misto di incredulità e rabbia dipinse il volto di Joele di un rosso accesso, che faceva contrasto con la maglietta bianca (ormai a schizzi verdi) che indossava. Cicione mi piaceva.
«Tua madre si preoccupa che tu non mangi abbastanza, Nando» commentò sforzando un sorriso tirato. «Ha ragione, sai? Ti perdi dentro i calzoni. Tieni,» disse porgendomi il piatto, «mangia!»
Prima che io potessi prenderlo, lui rovesciò il contenuto sulla mia maglia. Tutto. Fino all'ultima goccia. Rideva come un deficiente, e anche gli altri ridevano. Io no. A me veniva da vomitare.
«Anoressico del cazzo! Tu e la merda intelligente che scrivi sulle magliette, mi avete stufato» ribatté fiero di se, mentre tornava dai suoi amici che lo accolsero con uno plauso.
Enrico sospirò, poi prese il cucchiaio e iniziò a raschiare la melma dalla mia maglia. Non mi scomposi. Non mi difesi. Che senso aveva? Erano tutti d'accordo a etichettarmi come "anoressico": mia madre, mio padre, i compagni di scuola, il medico di famiglia, anche la psicologa. Facile catalogare la gente.
Scansai Ciccione e il suo cucchiaio, presi la mia sacca e me ne andai. La schiena curva, le gambe scricchiolanti e la testa che mi girava. Il muro vicino all'uscita, era tappezzato con fotografie degli studenti, in diverse situazioni: tornei, premiazioni, olimpiadi. In una di loro vidi me stesso. Sempre alto (ma non curvo come una canna piegata dal vento), con la divisa della squadra di basket e un sorriso ebete stampato in faccia. Una faccia che non riconoscevo, occhi che non erano i miei. Quello lì nella foto era sereno, tranquillo, felice. Io no. Avevo smarrito la felicità. Mi ero perso nella mia vita e barcollavo nel buio della mia anima.
In quella foto non ero un "Anoressico del cazzo", ero una promessa del basket. Sentì la guancia bagnata e mi resi conto che stavo piangendo. Uscì correndo senza metà, correvo e basta. Le lacrime continuavano a venire giù a fiumi. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo pianto? Una vita, pensai ansimando.
Mi fermai sopra il ponte, aggrappandomi al muretto in cemento. Volevo buttarmi, ma non avevo il coraggio. Dall'acqua mi guardava un estraneo con la faccia scavata e gli occhi pianti.
Per la prima volta, vedevo la mia immagine, quella reale. L'acqua non mentiva, l'acqua mi mostrava me. Mi sporsi ancora un po' per vedermi meglio, ma una mano mi prese per la maglia e mi tirò indietro.
«Ma sei scemo?» urlò spaventata una ragazza. «Pensi che risolvi qualcosa buttarti in testa? Idiota!»
Mi mancava la voce. Avrei voluto dirle che non avevo intenzione di suicidarmi, solo di guardarmi nell'acqua, ma le parole non volevano uscire. La fissavo e basta.
«Ehi, tutto a posto? Vuoi che chiami qualcuno, che devo fare?»
Mi fiondai su di lei e la baciai. Un bacio famelico, quasi disperato, che mi costò uno schiaffo tremendo.
«Scu-scusa» balbettai vergognato. «Volevo vedere se sono ancora vivo.»
Da sotto i capelli rossi, due occhi verdi mi guardavano sbalorditi, non sapendo cosa credere.
«E...?» chiese ancora lei.
«Non lo so.»
«Andiamo a prendere un caffè, forse alla fine capisci» disse prendendomi sotto braccio.
Lasciai che mi guidasse. L'avrei seguita ovunque fosse andata, anche in capo al mondo.
   
 
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