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Autore: Soqquadro04    19/04/2015    5 recensioni
[What if? | possibili spoiler!teorie sui finali | possibile OOC]
I. Love
II. Life
III. Death
«Ti amo.» dice lui, ma non risponde e ora piange davvero, sente il volto bagnato di lacrime non sue, «Ti amo.» lo ripete ancora e ancora, come se volesse scolpirlo tanto a fondo dentro di lei da lasciargliene il ricordo anche quando non potrà ricordare più nulla, ma l'ha già fatto – l'ha fatto ogni notte, con ogni bacio, ogni carezza sussurro giuramento.
L'ha già fatto.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Eccoci qui col secondo capitolo, che è decisamente meno ottimista del precedente ma ancora non è una tragedia - il che non l'ha reso meno facile da scrivere ma un po' ha aiutato, perché dopo la puntata ho questa totale malinconia addosso che mi rende ansiosa e agitata e non so sinceramente nemmeno io come mi sento.
Piccole note tecniche:
1. Il titolo viene dall'omonima canzone dei The Smiths, che vi consiglio vivamente di ascoltare perché è bellissima;
2. Nella mia testa la compulsione non ha funzionato perfettamente con Elena perché dopo aver preso la cura non è comunque più un essere umano e basta, è tornata indietro dall'immortalità alla mortalità, qualcosa dev'essere successo nel frattempo;
3. La confusione e la quasi totale assenza di punteggiatura nelle parti fra parentesi è totalmente voluta, per rendere la confusione dei sogni di Elena e il fatto che lei non li ricorda mai completamente, ma solo a spizzichi e bocconi.

A presto,
la vostra Soqquadro

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II. Life
Last night I dreamt that somebody loved me


Can you lie next to her,
and give her your heart, your heart

as well as your body?
And can you lie next to her
and confess your love, your love
as well as your folly?
And can you kneel before the king,
and say I’m clean, I’m clean?
[...]
A white blank page and a swelling rage, rage.
You did not think when you sent me to the brink, to the brink,
you desired my attention but denied my affections, my affections.

So tell me now, where was my fault
in loving you with my whole heart?

Oh, tell me now, where was my fault
in loving you with my whole heart?

Lead me to the truth and I will follow you with my whole life,
oh, lead me to the truth and I will follow you with my whole life.
Mumford and sons – White blank page

 

«Accidenti! No, no

La macchina ha un sobbalzo, il motore tossisce disperatamente cercando di tirare avanti un altro metro, ma senza molto successo – dopo un paio di borbottii si spegne definitivamente, il buio fuori dai finestrini che si fa improvvisamente troppo denso, senza più la luce solitaria dei fari.
La donna mastica una maledizione fra i denti, battendo il palmo contro il volante. Gira la chiave un paio di volte, ma quando non succede nulla si limita a sbuffare e slacciarsi la cintura, passandosi le dita fra i capelli. Rimane un istante a guardarsi intorno, cercando di distinguere qualcosa del paesaggio di fuori, poi sospira e si rassegna a uscire dall'auto.

L'aria della notte è gelida, l'odore di pioggia imminente fortissimo e penetrante. Le scarpe affondano nella terra impregnata di umidità mentre muove qualche passo, stiracchiandosi, voltando la testa da una parte e dall'altra – solo boschi, da entrambi i lati della strada, e giusto davanti a lei un cartello che la avverte che si trova a un chilometro da Mystic Falls.

L'aveva notato sulla cartina, quella mattina, un piccolo paesino della Virginia, tremila anime a dire tanto, due ore di viaggio da Richmond – si era fermata lì per visitare una mostra, una giornata soltanto, poi era ripartita, e oh, quel tizio gliel'aveva detto che avrebbe dovuto far controllare la macchina.
Non sia mai che ascolti un consiglio intelligente – è così da lei rimanere bloccata nel mezzo del nulla, a notte fonda, senza neppure un telefono funzionante, (il suo cellulare è morto circa mezz'ora prima, per una qualche punizione divina, suppone) che le verrebbe persino da ridere.

Elena Gilbert, l'avventuriera da due soldi.

Alla fine cede a un sorriso – fra sé e sé, piccolo, quasi invisibile, perché sa di sembrare pazza a sorridere in un momento del genere, quando potrebbe esserci chissà che cosa appostato fra i cespugli. Non che si aspetti effettivamente un assassino armato di ascia – probabilmente la cosa più minacciosa che abbiano mai visto a Mystic Falls è una volpe arrabbiata.

Mystic Falls – se lo ripete un paio di volte, voltandosi verso il cartello mentre s'incammina lungo la via principale, oscura e tranquilla.
Mystic Falls.

Il silenzio è immenso, lì in quel luogo che pare sospeso nel tempo, su quella strada fiancheggiata dagli alberi – del tutto irrazionalmente, si ritrova quasi ad apprezzare quel contrattempo. È una di quelle sere fredde che, da quando può ricordare, le mettono addosso una malinconia strana, dolorosa, una di quelle notti in cui nei sogni una voce che non è la sua la chiama da un punto nascosto della sua coscienza – chiama il suo nome con un tono strano (rimpianto e sofferenza e quella che le sembra ogni volta la dolcezza più amara al mondo), e sussurra qualcosa che lei non capisce, di persone che non esistono e di una famiglia che non ha mai avuto e di un uomo che non ha mai amato.

È orfana, Elena, una delle tante anime abbandonate di questa Terra, e nessuno l'ha mai presa con sé, e ce l'ha fatta da sola in questa sua vita – ha studiato e anche se avrebbe voluto diventare medico, da bambina, infine aveva optato per il giornalismo perché aveva anche voluto viaggiare, vedere il mondo per com'era, vedere la vita e conoscere gente (il che potrebbe anche essere ironico, per qualcuno, visto che nemmeno conosce se stessa).

Ora Elena ha ventotto anni, vive a New York, ha una gatta con cui va d'accordo un giorno no e l'altro anche e un rapporto complicato con gli uomini – ha sempre voluto dei figli, una famiglia, ma ogni volta che potrebbe davvero essere quella buona, se soltanto tentasse, qualcosa la frena e c'è una parte di lei che non riesce a pensare a nient'altro che al dolore che proverà se non lo fosse, o se succedesse qualcosa di orribile e astratto. Sa che la distruggerebbe, se si innamorasse per davvero e non per gioco, se si permettesse di lasciare ancora una volta che i sentimenti la guidino – ed è assurdo, perché Elena non ha mai sofferto così.

Ricorda un amore adolescenziale, finito senza drammi, e un paio di relazioni al college che non potrebbero nemmeno essere definite relazioni – nessun trauma, nessuna storia appassionata e travolgente, niente che avrebbe potuto lasciarla distrutta a tal punto. E dubita di aver dimenticato una cosa simile.

 

(Nei sogni delle notti limpide, Elena vede un uomo e le fiamme morenti di un camino – Elena sente il rumore di vetri infranti e risate d'estate e grida e sussurri
noi sopravviviamo sempre
ma noi chi, e la sua voce è così chiara, eppure lei non ne ricorda mai il volto.
Sa solo che è bello – bello tanto da fare male – e che è meglio così, che ricordare i suoi occhi potrebbe ucciderla).

 

Il gracchiare di un uccello – un corvo, pensa – la fa girare di scatto, strappandola brutalmente ai suoi pensieri.
Può avvertire il battito frenetico del suo stesso cuore fin nelle tempie, il respiro spezzato, ma scossa il capo e si dà della sciocca – l'adrenalina le scorre nelle vene e si sente così viva, come quando hai paura di morire, ma il perché Elena non lo sa. Non c'è niente di così minaccioso, è una notte come tante – forse solo l'oscurità sembra un po' troppo densa, nemica ancestrale degli esseri umani.

Sorride di nuovo, un altro sorriso minuscolo, mentre si volta, scrollando le spalle. Poi vede l'uomo.
È ancora lontano, forse una ventina di metri, forse anche venticinque – non riesce a vederlo in viso, non c'è abbastanza luce, solo il debole riflesso delle nuvole in cielo, e lui se ne sta seduto con noncuranza sul cofano di un'auto squadrata dalla carrozzeria di un inusuale celeste, parcheggiata accanto a un altro cartello, sotto la pozza luminosa di un unico lampione.


 

Benvenuti a Mystic Falls

 

C'è qualcosa di così dolorosamente familiare, in quella scena – se solo

 

(«Damon...»
dita intrecciate il riflesso del vetro nei suoi occhi
«Lo so.»).

 

ricordasse, se solo potesse ricordare perché a volte si sveglia con le guance umide e il bisogno di gridare che le si strozza in gola.

Un presentimento le fa irrigidire le gambe, quando lui si porta alle labbra una bottiglia – è buio e per strada non ci sono che loro due, un uomo ubriaco e una donna completamente indifesa –, ma continua a camminare, lentamente, fino a che non è troppo vicina perché possa fingere di non averlo notato.
Lui non le fa caso, come se non fosse poi strano incontrare qualcuno che passeggia tranquillamente, a quell'ora – si ferma di nuovo, appena fuori dalla chiazza di luce, e esita solo un istante prima di parlare.

«Scusami...» gli dà del tu istintivamente, e lui solleva la testa di colpo, proprio mentre fa un paio di passi avanti per mostrarsi.
Elena aggrotta la fronte, al vederlo in viso – è più giovane di lei e c'è così tanto dolore nei suoi occhi che sembra non sia mai stato felice

 

Sono felice.»
sole lenzuola carezze esauste

oh, ti ho amato, ti ho amato così tanto).

 

(non ha mai nemmeno pensato che sul volto di qualcuno potesse vedersi così tanto), e la guarda come si guarderebbe un miraggio, con l'immensa speranza che sia reale e la consapevolezza ancora più grande che non lo sarà mai.

«Elena.» dice, e lo dice in un sospiro frantumato che era partito come una domanda, forse, il suo tono si è alzato sulla sillaba di mezzo ma poi è ricaduto giù, come se gli avessero dato d'un tratto la risposta.
Deglutisce, nel panico – non comprende. Non ha mai messo piede a Mystic Falls, e non ha mai conosciuto un uomo con il rimpianto scolpito nella piega delle labbra. Eppure lui la conosce, evidentemente.

«Come sai il mio nome?» la sua espressione sorpresa, un baluginio sofferente sul fondo delle iridi pallide e poi si ricompone in una maschera cortese che non la inganna nemmeno per un secondo.

«Oh, leggo quasi tutti i tuoi articoli. Ogni tanto hanno pubblicato anche una foto.» sorride con solo metà della bocca, un sorriso incrinato. Sa che è vero eppure non gli crede, Elena – sente che c'è qualcosa che non sta dicendo, ma sceglie di lasciar correre perché è veramente troppo buio, quella notte, per svelare segreti.

Lui salta giù dal cofano, ma non prova ad avvicinarsi ed Elena gliene è grata.
Ha gli occhi azzurri, di un azzurro invernale, lucidi di un passato sconosciuto alla luce giallastra del lampione. Per un istante, nell'attimo proprio prima che lui sollevi la testa a guardare il cielo, Elena ci legge dentro una gratitudine macchiata d'amarezza – forse è solo il buio, la sua sagoma sottile che gli si riflette dentro, ma ha l'impressione che la conosca molto meglio di quanto chiunque possa mai arrivare a fare leggendo le pubblicazioni del giornale.

 

Rimangono fermi così per un tempo indefinito, troppo vicini per ignorare l'esistenza dell'altro e troppo lontani per iniziare una conversazione – o almeno lo sarebbero se fosse una notte come tutte le altre e quello fosse un uomo come tutti gli altri.
«Cosa ti porta qui nella nostra ridente cittadina?» lui ghigna, sarcastico, ed Elena sa perfettamente cosa dovrebbe dire – dovrebbe sorridere e spiegare del telefono e della macchina abbandonata un chilometro prima, e chiedere se nella ridente cittadina esista un posto dove può fermarsi per lasciar passare le poche ore che li separano dall'alba e dalla riapertura di un meccanico.

Non dice nulla di tutto questo.

«Non lo so.» sussurra, e mentre le parole le escono di bocca sa già che è la verità – avrebbe potuto scegliere un'altra via fra le altre cinque strade possibili per tornare a casa e non imbattersi mai in quello sperduto crocchio di case. Avrebbe potuto, ma non l'ha fatto, ed Elena crede nel destino.

Lui ride, una risata secca e stanca che le ricorda qualcuno, ma non saprebbe dire chi.
Fa un passo avanti, come se qualcosa d'invisibile nell'oscurità l'avesse spinta.

«Tu vivi in città?» conosce già la risposta, ovviamente, perché è abbastanza improbabile che siano due, i passanti persi, ma vuole sentirselo dire perché a guardarlo sembra che non appartenga a nessun posto, tanto meno a quello.

L'uomo riprende in mano la bottiglia e beve un sorso – poi la alza nella sua direzione come a brindare, come a dire che non importa.
Un altro passo verso di lui, piccolo, quasi casuale – ciò che la spinge dal buio si fa più insistente, un solletico sul fondo della sua coscienza.

Lui abbassa quel suo sguardo d'inverno sulle sue gambe, come se capisse che quel suo avvicinarsi è solo parzialmente volontario, ed è uno sguardo tanto fisico che può quasi sentirlo, morbido come la carezza di un amante – quando la guarda di nuovo in viso Elena vede un nuovo dolore, diverso ed identico, più fresco, insopportabile.
Sa di esserne la causa, ma non sa il perché.

 

(pioggia ricorda la pioggia
«Promettimi che questo sarà per sempre.»
e i suoi occhi
i suoi occhi e il suo
sorriso
quando
«Lo prometto.»)

 

Aggrotta la fronte, una domanda che sale da qualche punto nascosto della sua mente e continua a seguire quella scelta alternativa, quella sbagliata, insensata, anche, perché veramente aveva solo intenzione di chiedere indicazioni – non sa perché le dà voce, non ascolta mai quella parte di sé che a volte sembra solo svegliarsi da un torpore indotto (ha sempre pensato di essere pazza, in un certo modo, perché è abbastanza sicura che nessun altro al mondo dovrebbe svegliarsi certe mattine con la precisa percezione di stare vivendo la vita sbagliata).
Lo fa lo stesso, però, perché pare che per una volta sia destinata a non sapere e quindi tanto vale continuare.
«Come mai sei qui?» lui la scruta, un sopracciglio inarcato – può vederlo ponderare le parole dietro le palpebre socchiuse

 

(ancora odore d'acqua e tristezza e identici occhi macchiati di luce
anche allora per
la prima
volta
«Vuoi un amore che ti consumi. Vuoi passione, avventura... e anche un po' di pericolo.»
sorriso affilato di sogni distrutti
in quell'incontro fortuito di due differenti
solitudini).

 

ed inciampare su quelle più dure e difficili, troppo taglienti per essere pronunciate davvero – esita e per un attimo crede che non le risponderà, e in fondo non lo biasimerebbe se decidesse di non farlo perché è stata morbosamente curiosa e ora sì che ha il terrore di aver risvegliato qualcosa di più che doloroso, più che straziante, perché lo sconosciuto continua a guardarla e il suo sguardo è quello di un uomo in agonia.

La osserva come se dovesse imprimersi nella memoria ogni singola linea del suo volto, ogni imperfezione trattenuta con cura e baciata e amata, con la stessa amara dolcezza con cui la voce dei suoi sogni la chiama per nome.
Quando parla, finalmente, spezza il silenzio in modo tanto improvviso da farla sobbalzare.

«Aspettavo una persona.» sorride di un sorriso disilluso e intristito di sottintesi che non potrà mai comprendere, ed Elena ora è tanto vicino che se allungasse una mano potrebbe toccarlo.
Chiude la destra a pugno, piantando le unghie nel palmo per sopprimere l'istinto di abbracciarlo che le muove le membra, improvviso e irrazionale.

Lui non si muove, resta perfettamente immobile, gli occhi fissi sul suo volto – confuso e sofferente e sembra solo così stanco.

Si stringe le braccia al seno, strofinando i palmi sugli avambracci per tentare di scaldarsi – una parte di lei sa perfettamente che in realtà non fa freddo, è solo che il bisogno di stringerlo a sé, ora che può sentire il calore del suo corpo e il ritmo stesso del suo respiro, è tanto forte da spaventarla.

«Ed è arrivata?» fatica a riconoscere la sua stessa voce – la domanda suona fragile e inconsistente e inutile, inutile più di tutto, perché se così fosse lui non sarebbe certo lì con lei – sarebbe con questa persona, da qualche parte, a ridere e a costruire qualcosa di utile, non certo a parlare con una sconosciuta nel mezzo della strada.
Elena non si capisce, quella notte, né tanto meno capisce lui e le sue risposte strane che non sono risposte.

«In un certo senso. È passato tanto tempo, ormai, da quando se n'è andata.» l'uomo fa un passo indietro, come per scoraggiare qualsiasi proposito di conforto possa venirle in mente.

 

(«Dio, vorrei che non dovessi dimenticarlo.»
parole confessioni e il suo sguardo
il suo sguardo
quando l'aveva detto
solo due parole
e tutto era stato diverso
tutto cosa Elena non lo sa
ma aveva fatto male).

 

Si passa una mano sul volto, un gesto solo esausto, mormora fra le dita come se potesse trattenere le parole.

«Dieci anni.» alza gli occhi di nuovo su di lei, un abisso azzurro, una fossa oceanica – potrebbe perdercisi dentro, venire trascinata a fondo, annegare. E non si sente in questo modo da così tanto tempo che nemmeno lo sa più, la sua stessa presenza che le elettrizza la cute e le lascia formicolare le labbra, una calamita attratta dalla sua gemella.
«Oh, Elena.»

 

(«È questo che si prova a non avere paura?»
mani contro mani graffi incisi nella carne
e poi
calma e buio e respiri sincroni
lui non aveva risposto
lei aveva capito
e l'aveva
baciato).

 

Elena crede al destino – non sa nemmeno perché, sa soltanto che ci sono state troppe coincidenze nella sua vita perché possa ancora chiamarle così –, ma non crede ai colpi di fulmine.
Crede all'amore, anche se ha ventotto anni e non ha ancora trovato l'uomo che cerca – e crede davvero che certi amori non finiscano anche quando finiscono.

Certi amori come quello che legge nelle iridi azzurre dello sconosciuto dolorosamente familiare – certi amori che non ci sono più per qualche motivo eppure vivono ancora e sanguinano ricordi nei sogni.
C'è qualcosa, nel modo in cui lui dice il suo nome, nel modo in cui l'ha detto, proprio con quell'espressione e quella luce e quell'immagine – l'immagine di qualcosa (sogno o il ricordo di un sogno) che brilla fra i pensieri per il tempo di un respiro.

(Elena.
Elena.
Elena.
il suo nome solo il suo
nome
migliaia di volte
e non l'ha mai più sentito così
mai più
dopo).

 

Indietreggia lei, ora, e scuote il capo, brandelli di notti frantumate che si uniscono in schemi fumosi e un'idea, solo un'idea, un'esplosione nel buio, lontana, e se solo- se solo potesse capire.

Chiude gli occhi, le palpebre serrate, più che può, cerca di non lasciar svanire quel filo rosso anche se taglia come una lama, come un vetro infranto – sente le sue mani prima di qualsiasi altra cosa, pelle contro pelle, le sue mani a circondarle il viso.
Ci si aggrappa con tutta la forza che ha, e lui ripete il suo nome ed è un momento e

 

«Non sei sicuro che funzionerà.»
il viso di un uomo – il viso di Alaric – distorto dalla tristezza
«È umana. Andrà come deve andare.»
occhi azzurri d'inverno liquidi di dolore fissi nei suoi

no no no

«Di cosa stai parlando? Ric- Damon. No! Lasciami!»
no non dopo tutto quello che è stato no per favore

no
non di nuovo

«Non smetterò mai di amarti. Mai, Elena – mi hai capito? Mai.»
mani forti attorno al suo volto e l'odore di pioggia una voce distrutta.

«Damon, cosa stai dicendo? Cosa stai facendo? Damon, non – no! Lasciami! Non puoi farlo, io- troveremo una soluzione. Come sempre.»
lacrime solo lacrime dita che lasciano segni sulla pelle le sue ultime carezze per asciugare il suo pianto una stretta troppo debole.

 

i ricordi la investono come un'ondata o massi franati dal suo cuore o un uragano di vento gelido.
Scene spezzate si susseguono senza sosta nella sua mente, la sofferenza e il sollievo di poterlo stringere a sé e il suo nome che le brucia le labbra – dimenticare, l'ha fatta dimenticare, ma ora Elena ricorda anche se non avrebbe dovuto, mai più (non importa il perché, il come, il quando – importano solo le sue mani e lo sguardo nei suoi occhi quando riapre le palpebre e lo vede, lo vede per davvero, dieci anni di mancanza che le hanno scavato la carne e quasi spento l'anima, colori offuscati e una vita che non le era mai appartenuta davvero).

Dovrebbe dire tante cose, potrebbe farlo, potrebbe chiedergli se ha aspettato ogni notte e come ha fatto lui a non ammattire quando il solo pensiero di non averlo visto stretto amato per dieci anni la sta facendo impazzire di dolore – la sola idea di averlo dimenticato, di nuovo, proprio quando aveva riavuto tutto, tutto, è tanto immensa e terribile da impedirle di respirare.

Potrebbe, ma Elena crede al destino e crede all'amore e hanno tempo, avranno tempo, e ora l'unica cosa che deve fare è guardare in quegli occhi – quegli occhi che la amano e l'hanno amata – e per un attimo, solo per un attimo, prima che debbano comprendere di nuovo come scoprirsi e parlare e ricordare, ecco, solo in quell'attimo, mentre dice il suo nome e il sorriso che gli attraversa il volto è solo grato di una gratitudine immensa, Elena si sente a casa.

«Damon

   
 
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