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Autore: Roro_pillo    26/12/2008    9 recensioni
“Chi ti ha dimenticato?”, chiesi retorica, aprendo la copertina. Non c’erano nomi. Solo una scritta, scolorita. “Death Note?”, lessi, sfiorandola. Era incavata nel nero. Le parole erano ossa bianchissime, e le osservai, sorridendo. Intrigante.
Pura follia. Puro delirio, pura pazzia. Un'adolescente frustrata, uno Shinigami, la voglia matta di cambiare il mondo...
Genere: Generale, Romantico, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Fate1

.:Fate:.

Prologo - Il Death Note

*\* Mm... Non mi picchiate!
ù.ù Ecco, dopo il mio sclero-urletto vi spiego un po' da dove esce questa storia: è colpa di Elie. Sìsì. Aveva scritto una storia, tempo fa, che oggi mi ha fatto leggere. E io l'ho costretta ad accettarmi come partner e scriverla con me. XD
La riscriveremo da capo.
Poi... *.* Ci ispireremo a DN! [Death Note per i profani]
Ovviamente, la storia sarà diversa. ù.ù Ma... Leggete, vah. XD E commentate, se volete il prossimo capitolo! XD (Se non si fosse capito, sono quella matta di Roro XD). */*

 

“In piedi. Saluto!”.

Sollevai appena gli occhi dal quaderno consumato, continuando a giocherellare con una penna che avevo rinvenuto nei meandri del mio astuccio, nascosta da un evidenziatore che non avevo mai usato e una gomma da cancellare nuova di zecca. Facevo il minimo indispensabile, a scuola, con risultati ugualmente ottimi.

E mi annoiavo comunque.

“Kagome, c’è Koga alla porta”, mi avvisò una mia compagna di classe – bassa, e piuttosto tarchiata –, indicandomi l’avvenente youkai che mi attendeva accanto all’ingresso. Il suo sguardo era curioso, e si aspettava di vedermi saltellare di gioia, alla notizia che il mio nuovo ragazzo – o, perlomeno, quello che si professava tale – aveva deciso di lasciare la sua classe per raggiungere me, una primina.

Sospirai.

Koga.

L’ennesimo problema della mia vita.

Per carità, bello, con un sorriso mozzafiato, abbastanza capace nello sport e assolutamente negato per tutto il resto.

Bello, ma inadatto. Per me, almeno.

“Arrivo subito!”, borbottai, afferrando malamente il mio quaderno di matematica e riponendolo, indispettita, all’interno dello zaino rosa confetto. Avevo dei gusti assurdi. Che schifo.

Non avevo voglia di sopportarlo, quel giorno. Non avevo voglia di sorridere, gentile, e di chiedergli – ipocrita – informazioni – di cui non mi interessava nulla – sulla sua giornata. La nostra relazione era così effimera che ridacchiai, pensando a come sarebbe stato bello mollarlo davanti a tutti senza una spiegazione. Avrei trovato eccitante, sentirmi dare della puttana, e della traditrice.

Ma Koga era un gentleman. Neppure se avessi baciato con la lingua un altro ragazzo davanti a lui, mi avrebbe insultata.

Era un idiota.

“Ciao, tesoro”, mormorò, vedendomi. Si sporse in avanti, attendendo un mio gesto, ma io lo ignorai palesemente, continuando a sistemare l’interno del mio zaino.

“Ciao”, dissi a denti stretti, perseverando a camminare, imperterrita. “Oggi il professor Totosai ci ha fatto la predica. Sono ancora arrabbiata”, spiegai – falsamente – per rabbonirlo. Poverino. Lo trattavo sempre piuttosto male.

Lui sorrise, afferrandomi per la vita e camminando abbracciato a me. Odiavo quel contatto. Ma, alla fin fine, detestavo fare del male alle persone – specie se innamorate di me. Ero una crocerossina. Mia mamma lo ripeteva sino alla nausea, mio nonno lo diceva per scherzare, mio fratello mi insultava per questo.

Non riuscivo a maltrattare nessuno.

Ipocrita.

Preferivo sorridere gentile.

Ipocritamente.

“Andiamo a casa mia?”.

Mi fermai di botto, stringendo convulsamente le dita intorno allo zaino, e lasciando andare i lacci con cui stavo giocando. Non aveva ancora capito nulla. “Ti ho ripetuto centinaia di volte che non desidero fare nulla. Non ti basta starmi accanto?”, sbottai, dimenandomi – la presa sui miei fianchi s’intensificò, ma scorsi nei suoi occhi un velo di scuse. Non mi lasciai traviare. “Koga, mollami. Voglio tornare a casa mia. E tu non sei compreso nel mio itinerario giornaliero”.

Sospirò – affranto – e mi lasciò andare. Sentii il mio corpo reagire di sollievo, e mi domandai – per l’ennesima volta – perché avevo accettato di stare con lui, se non lo desideravo.

Non ero bella.

Non particolarmente, almeno.

Un metro e sessantasei scarso, i capelli ondulati lunghi sino a metà schiena e gli occhi eccessivamente grandi. Colori banali – nero e cioccolata – e stereotipati creavano un orrendo contrasto con la mia carnagione pallida, e la mia aria stressata non mi aiutava ad apparire bella, donandomi due occhiaie spaventose.

Non capivo cosa ci trovasse Koga in me.

E non mi importava.

“Scusami”, mugugnò, facendo un passo indietro e sospirando. “Non volevo irritarti, Kagome. E la mia proposta non aveva quella motivazione. Pensavo… Pensavo che avremmo potuto studiare insieme”. Le sue ultime parole – false – furono un flebile sussurro, e lo osservai mettersi la mani in tasca, abbassando i suoi occhi color del mare. Era imbarazzato. E sapeva che non me la sarei bevuta.

Tenero, alla fin fine. Stronzo, ma tenero.

“Oggi torno a casa da sola”, commentai, dandogli un colpetto sulla spalla e allontanandomi lungo il corridoio, lenta e indispettita.

Poteva avere tutte le ragazze della scuola.

Aveva scelto me, ma, se gli avessi dato buca, ci sarebbero state trecento ragazzine urlanti disposte a consolarlo.

Lo tenevo legato a me solo per non darlo a loro, in realtà.

Salutai svogliatamente la bidella seduta all’ingresso, poggiando la mano sull’enorme maniglia antipanico e spingendola verso il basso – con un clic rugginoso si aprì, e io uscii all’aria aperta, seguendo i miei compagni di classe per il vialetto.

Una folta di vento.

Mi voltai, notando che il mio fermacapelli – il mio fermacapelli preferito – era volato via, atterrando qualche metro più in là, nei pressi del magazzino in cui solevamo riporre gli articoli sportivi. “Cavolo”, commentai sottovoce, correndo sull’erba ancora umida per la precedente pioggia e chinandomi.

C’era qualcosa di strano, lì.

Dalla minuscola stanza proveniva un cupo rumore – ferro che sbatte – e una voce, roca e divertita, raggiunse le mie orecchie.

Sobbalzai. “Chi sei?”, chiesi, ben conscia che no, non avrei ricevuto risposta.

Era forse Koga?

Magari, voleva punirmi. Voleva prendermi un po’ in giro per averlo piantato ancora una volta in asso. O, forse, voleva attirarmi nello stanzino solo per gioco. Voleva farmi paura.

Ridacchiai, aprendo la porta e chiamandolo a gran voce.

Nessuno.

La stanza era vuota.

Non un’anima, non una persona. Solo palloni, tappetini e corde per saltare.

Null’altro.

“Koga, se il tuo è uno scherzo non fa ridere”, sbottai, frustrata. Ero insofferente alle prese in giro, e odiavo cordialmente coloro che sfottevano. Se Koga non l’avesse smessa, non gli avrei più rivolto la parola.

Era una promessa.

“Koga?”.

Inciampai.

C’era qualcosa, sul pavimento. In quei pochi metri – era la stanza più piccola di tutto l’istituto – c’era qualcosa di strano. Gattonai un po’, finché con le dita non sfregai quel qualcosa.

“Che…?”, esordii, alzandolo – un quaderno. Un banalissimo quaderno nero, unto, sporco, vecchio.

Banale, e inutile.

“Chi ti ha dimenticato?”, chiesi retorica, aprendo la copertina. Non c’erano nomi. Solo una scritta, scolorita. “Death Note?”, lessi, sfiorandola. Era incavata nel nero. Le parole erano ossa bianchissime, e le osservai, sorridendo. Intrigante.

Poi un rumore – passi – raggiunse le mie orecchie. Mi voltai di scatto, incontrando due iridi d’oro.

“Tu chi sei?”, mormorai, la voce rotta dal terrore e l’adrenalina che scorreva nelle vene.

Lui rise, passandosi una mano tra i lunghi capelli d’argento e sospirando. “Uno Shinigami”, gongolò, facendo un passo in avanti ed inchinandosi – beffardo. Mi stava prendendo in giro. “Salve, nuova padrona del Death Note”.

 

 

  
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