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Autore: vegeta4e    20/04/2015    2 recensioni
Haytham e Connor sono alla ricerca di B. Church, colpevole di aver tradito l'Ordine Templare e di aver sottratto a Washington i rifornimenti destinati all'Esercito Continentale. Il birrificio di New York è palesemente abbandonato e questo piccolo dettaglio obbligherà padre e figlio a collaborare, costringendo il Gran Maestro a lavorare separatamente sia con Charles sia con il figlio. Successivamente Haytham li convincerà a cooperare, tentando di metter da parte l'odio tra Assassini e Templari per raggiungere uno scopo più grande, desiderato da entrambe le fazioni: vincere la guerra contro gli Inglesi.
Ma non sarà questo l'unico intoppo. Torneranno vecchie conoscenze, vecchi problemi che H. Kenway credeva di essersi lasciato alle spalle. A cosa dare la precedenza? Ad una richiesta d'aiuto o a Washington che, battaglia dopo battaglia, sta perdendo sempre più terreno?
Questi eventi coinvolgeranno anche Connor e Charles Lee, nel bene e nel male.
Dal testo:
Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi assente e pensieroso.
«Signore? Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.
«Temo di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa» annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway, Jenny Kenway
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 36

Fu la mezz’ora più lunga della mia vita. Le navi inglesi attraccate al porto di Boston continuavano a sparare bordate, e mentre Putnam berciava ai soldati di raccattare i fucili e togliersi dal centro del campo di battaglia, io ero riuscito a trasportare Haytham in un punto un po’ più coperto, ai piedi del bosco. Lì le palle di cannone non erano ancora arrivate.

Pregavo che Connor si sbrigasse. Non mi interessava la riuscita dell’impresa, le navi avrebbero potuto anche raderla al suolo, Boston. A me interessava Mastro Kenway. Dovevo portarlo a New York.

Mi ritrovai a contare i secondi, perché starmene con le mani in mano mentre il mio maestro rischiava di lasciarci la pelle, beh, mi rendeva piuttosto nervoso. E vedere l’Assassino correre verso di me non mi era mai sembrato tanto rincuorante. In un’altra situazione magari mi sarei nascosto, troppo pigro per affrontare faccia a faccia quel ragazzone di un metro e novanta, ma Haytham era a terra, privo di sensi e con una ferita alla testa. Le cannonate erano cessate, facendomi pensare che fosse riuscito ad uccidere gli equipaggi inglesi. Beh, tanto meglio.

«Connor!» Con una mano gli feci cenno di avvicinarsi, e dopo aver scambiato un paio di parole con Putnam mi raggiunse con passo lungo e rilassato. «Muoviti, per l’amor di Dio» ringhiai quando era abbastanza vicino da sentirmi, ma sembrò allarmarsi solo dopo avermi guardato in faccia.

«Che succede?» Gli occhi puntati sul corpo di suo padre, i pugni stretti lungo i fianchi.

«È solo svenuto, aiutami a portarlo fino ai cavalli» strinsi le caviglie del mio maestro attendendo che il ragazzo lo sollevasse da sotto le ascelle, ma con mio sorpresa non si mosse. Forse era sconvolto, e sperai in cuor mio fosse così, perché mi rifiutavo di pensare che vederlo incosciente e ferito non gli facesse provare neanche un minimo di dispiacere. «Si può sapere che stai aspettando?» Sbottai alzando lo sguardo.

L’Assassino sobbalzò. «Sì, scusa» lo afferrò saldamente per la redingote e lo alzò da terra, aiutandomi a spostarlo da quella posizione scomoda e, sebbene riparata, comunque troppo esposta.

Attraversammo la collina senza difficoltà, specialmente grazie al sabotaggio delle navi inglesi e mentre camminavamo lanciai un’occhiata ad Haytham. L’espressione rilassata, il viso pallido, come fosse morto.

No. No, santo Dio, che diavolo andavo a pensare? Aveva solo un taglio. Uno stupidissimo taglio sulla fronte. Non è mai morto nessuno per una ferita del genere, e poi gli avevo sentito il battito pochi minuti prima: era regolare. Un po’ debole, ma regolare. Sapevo riconoscere un uomo in fin di vita, e lui non lo era.

«Issalo sul cavallo» borbottai adagiando i piedi a terra e obbligandomi a controllare il tremore alle mani mentre scioglievo il nodo alle redini.

«Dove vuoi che lo porti?»

Mi voltai verso il ragazzo. «Tu?»

«Certo, altrimenti chi?» Cercai di capire se fosse serio o se mi prendesse in giro.

«Io, per esempio.» Serrò le braccia sul petto, le mani nascoste sotto i bicipiti e lo sguardo strafottente.

«Tu dovresti restare qui, i soldati hanno bisogno di te.»

«No» incalzai, «tuo padre ha bisogno di aiuto» sottolineai con disappunto. Ha bisogno di me, cristo.

«Posso portarlo io ovunque serva. Hai ammazzato Washington per avere questo incarico, non perdere tempo in altre faccende.» Soffocai a stento una risata isterica, imponendomi di non colpire il naso del nativo un’altra volta. Il taglio sulle nocche bruciava già abbastanza per farmi desistere.

«Stammi a sentire, ragazzino» mossi un passo verso di lui, puntellandogli un dito sul petto, «io non ho ucciso nessuno, gli Inglesi sono decimati, non attaccheranno più dopo il tuo intervento e i rinforzi dei patrioti non arriveranno prima di domani. Non c’è bisogno che resti qui, Israel saprà dare istruzioni in caso di necessità.» Tirai il cavallo per le briglie per avvicinarlo al corpo, poi sollevai Haytham, posizionandomi davanti a lui e appoggiando le sue braccia sulle mie spalle.

«Gradirei mi dessi una mano» borbottai mettendo un piede sulla staffa, le mani a stringere i polsi del Gran Maestro per tenerlo in posizione eretta. Connor sbuffò, spingendo suo padre per le gambe mentre io salivo in sella.

Era una posizione alquanto scomoda, ed ero ben consapevole che così facendo mi sarei limitato nella velocità, ma era l’unica soluzione. Non avevo un carro e non avrei perso tempo a cercarlo.

«Parla tu con Putnam, digli che ho avuto un imprevisto e che tornerò il prima possibile.» Attesi che annuisse e mi congedai, spronando il cavallo e tornando sui miei passi. Mi misi il braccio sinistro di Haytham in torno alla vita, la sua mano appoggiata sul cavallo dei miei calzoni, e l’altro appeso alla mia spalla, in modo da afferrarlo facilmente nel caso rischiasse di cadere, la testa appoggiata alla mia schiena.

Era ancora vivo, il suo respiro caldo e regolare sul collo me lo confermò ed io mi calmai, stringendogli il polso destro e accelerando leggermente l’andatura.

 

Il viaggio mi portò via sei ore, lasso di tempo in cui credetti seriamente di arrivare a New York troppo tardi.

Prima che si facesse buio ne approfittai per smontare –lasciando Haytham in sella- in prossimità di un fiume e bagnare una pezza. Mi ero poi issato su una staffa per lavargli la ferita alla tempia, per ripartire quindi al galoppo verso New York, ignorando il fatto che spronare in quel modo il cavallo avrebbe rischiato di far cadere entrambi, ma preferii correre il rischio. La foresta era un posto pericoloso di giorno, di notte era insidiosa due volte tanto. Con me avevo solo una spada e una pistola con qualche proiettile, armi che mi avrebbero salvato la pelle contro una ronda di una decina di uomini al massimo, ma contro un lupo, o peggio ancora un orso, non avrei avuto certamente la meglio.

Per grazia divina arrivammo a Fort George sani e salvi, e le guardie all’entrata del forte mi aiutarono a tirare Haytham giù da cavallo e a portarlo dentro.

Istintivamente pensai a Jenny, a come avrebbe preso la notizia e iniziando a formulare scuse plausibili per scagionarmi.

Un momento. Scagionarmi da cosa? Non era stata colpa mia, perché mi sentivo responsabile? Avevo abbandonato l’esercito per portarlo al sicuro, questo sarebbe dovuto bastare.

«Charles?!» Alzai lo sguardo, fermandomi a metà rampa di scale insieme alla guardia. Jenny era lì, in cima, intenta a guardarci sconvolta. «Cosa ci fai qui? Cos’è successo a mio fratello?» Ripresi a salire, il braccio del mio maestro intorno al collo e metà del suo peso sulla spalla sinistra.

«Calmati, è solo svenuto. Ha preso una botta in testa.» Non aggiunsi altro e trascinai a fatica Haytham nella sua stanza. Dopo averlo adagiato sul letto intimai alla sentinella di uscire, venendo sostituita prontamente da Jennifer. Entrò in camera affannata, una mano sul petto e gli occhi sbarrati, puntati sul viso ferito del Gran Maestro.

«Dovrebbe riprendersi» parlai per primo, dandole forse la risposta che più le interessava sentire. Afferrai uno stivale di quello che avevo considerato mio padre negli ultimi vent’anni e lo sfilai, adagiandolo a terra, accanto al letto. «L’ho trovato ferito a Boston.»

«Credevo fossi a Valley Forge» sussurrò ancora scossa e chiudendo la porta. Tolsi anche l’altro stivale, poi annuii.

«Infatti. Mi è giunta voce che a Boston fossero sbarcati altre giubbe rosse, poi mi hanno detto che Haytham era lì e…» gesticolai imbarazzato, infilando poi la mano in tasca per non risultare ridicolo, «… e sono andato a Bunker Hill.»

«Dio mio. Gli hai salvato la vita.» Alzai lo sguardo su di lei giusto in tempo per vederla mentre si tappava la bocca con una mano per soffocare un singhiozzo, e mi si strinse il cuore. Non volevo vederla così. Avrei dovuto fare qualcosa, avrei dovuto fare di più.

«Vieni qui.» Mi abbracciò di slancio e nascondendo il viso contro la giacca, trattenendo il respiro e reprimendo un altro singulto. «Non piangere, non è in pericolo di vita» le poggiai una mano sulla schiena per tranquillizzarla, lanciando un’occhiata al Gran Maestro per accertarmi che respirasse ancora. Vidi il petto alzarsi lentamente e chiusi gli occhi, dando una pacca sulla spalla di Jenny.

«Dovrebbe stare al caldo» dissi rompendo il silenzio, «va’ a prendere qualcosa per disinfettargli la ferita, io ho potuto solo sciacquarla» si staccò da me asciugandosi gli occhi e la guardai in silenzio mentre lasciava la stanza. Mi avvicinai al letto e coprii Haytham, poi spostai la sedia che teneva alla scrivania portandola vicino al letto, quindi mi ci sedetti per aspettare Jennifer.

 

Quando aprii gli occhi la stanza era buia e silenziosa e dovetti strizzare un paio di volte le palpebre per capire di essere a Fort George.

Mi mossi di poco e feci scricchiolare la schiena, accorgendomi in quel momento di avere una coperta addosso. Mi misi seduto ancora mezzo assonnato, scorgendo Jennifer davanti a me, seduta su uno sgabello ai piedi del letto del fratello, le braccia appoggiate al materasso e la testa sugli avambracci. Dormiva profondamente, rabbrividendo di tanto in tanto.

Mi alzai sospirando, non avrei comunque ripreso sonno, quindi la coprii per bene. Dopo essermi assicurato che fosse al caldo lasciai la stanza, chiudendo delicatamente la porta e percorrendo il corridoio con passo stanco, lasciandomi guidare dalla fioca luce lunare che a malapena illuminava il pavimento. L’indomani sarei ripartito per Bunker Hill, con un po’ di fortuna sarei arrivato insieme ai rinforzi inviati di Philip.

Svoltai l’angolo, trovandomi davanti la guardia che mi aveva aiutato a portare Haytham fino alla sua camera.

«Stavo cercando voi, generale Lee.» Sussurrò timoroso.

«È successo qualcosa?» Scostai lo sguardo e sbirciai oltre la finestra, tentando di capire cosa avesse spaventato la sentinella.

«No. No, è tutto a posto. Solo...» si torturò le mani, giocherellando con le pellicine intorno alle unghie, «i vostri colleghi sono qui, signore. Parlo dei generali Ward, Schuyler e Putnam.»

Inarcai un sopracciglio. Ward sarebbe stato plausibile, ma Philip e Israel? Com’era possibile? Li avevo lasciati a Valley Forge e Bunker Hill. «Ne sei sicuro?»

«Sicurissimo. Hanno chiesto di voi.» Imprecai a mezza voce. Quei tre mi avrebbero mandato nei casini, porca puttana.

Scesi le scale saltando gli scalini due a due, raggiungendo la porta che si affacciava sul cortile interno. La spalancai con poca grazia, attraversando il piazzale con passo pesante.

Li vedevo. Se ne stavano lì, davanti alle guardie poste all’entrata del forte.

«Cosa ci fate qui?!» Sbottai inchiodando davanti a loro.

Artemas sogghignò lascivo. «Potremmo chiederti la stessa cosa, Charles. Credevo che un comandante non abbandonasse i suoi soldati per tornare a casa. Che è successo?, ti mancava la tua sgualdrina?»

Serrai un pugno e sorvolai obbligandomi a mantenere il controllo, poi guardai Putnam. «Credevo che il ragazzo ti avesse spiegato tutto.»

«Sappiamo perché sei qui, amico, ma sono successi degli imprevisti.» Alzai le sopracciglia.

«Ovvero? Sono arrivate altre giubbe rosse?»

«Temo che loro non possano sentire» indicò con il mento i soldati alle mie spalle schioccando la lingua. Purtroppo aveva ragione. Le questioni riguardanti l’esercito non potevano essere divulgate a terzi.

Feci cenno ai due vigilanti di rientrare, e solo quando oltrepassarono la soglia e chiusero il cancello si degnarono di darmi una spiegazione.

«Vedi, Charles, il fatto è che sospettiamo ci sia un traditore tra le nostre fila.

«Cosa?» Sbottai sconvolto. «Non è possibile, chi sarebbe?»

Philip restò impassibile, e Ward si passò una mano tra i capelli mentre Israel faceva l’ennesimo tiro dal suo sigaro. «Tu.» Non riuscii a schivare un pugno in pieno volto, poi persi i sensi.

 

Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi fu il contorno sfocato delle mattonelle di New York. Capii che mi stavano trascinando da qualche parte, perché mi sentivo sballottato, ma non avevo la forza sufficiente per camminare da solo.

«Cristo, che mal di testa- borbottai con un fil di voce. Alcuni risero, e improvvisamente mi fu tutto chiaro. Un terzo uomo aprì una porta e di colpo venni investito dal buio. Non capivo dove fossi e per un attimo ringraziai di essere guidato da chi evidentemente riusciva ad orientarsi anche nell’oscurità più totale. Preso dal panico strizzai le palpebre, riuscendo a mettere a fuoco i miei aguzzini.

Artemas Ward e Philip Schuyler, i due generali dell'Esercito Continentale scelti dal Congresso oltre a me e Israel Putnam, mi trascinarono di peso fino a quello che, a primo impatto, definii uno scantinato. Era un luogo buio e umido, illuminato a malapena da una finestrella, a stendo vedevo dove stavamo andando. Il pavimento era di pietra grezza, lo intuii dal rumore della suola e dalla superficie sconnessa che più di una volta aveva messo alla prova il mio equilibrio.

«Legate questo figlio di puttana» grugnì Ward, il quale mi lanciò con poca grazia contro la sedia posta al centro della stanza. Mi voltai verso di loro senza capire cosa stesse succedendo, ma senza darmi il tempo di comprendere, Artemas e Philip mi costrinsero a sedermi. Israel, davanti a me, trascinò un'altra sedia e vi si accomodò dopo averla girata al contrario, come era solito fare il ragazzo indiano. Si appoggiò allo schienale con un gomito e accese un sigaro con tutta calma, inspirando e soffiando il fumo verso l'alto come nulla fosse.

«Cosa volete? Che cazzo significa questa pagliacciata?» Non mi risposero, limitandosi a prendermi i polsi e legarmeli dietro la schiena.

«Philip! Cosa diavolo...» tentai di dimenarmi, ma il pugno che mi spaccò il labbro superiore assestatomi da Artemas mi lasciò pietrificato. Erano impazziti tutti quanti? L'unico che non sembrava interessato a pestarmi era Putnam, troppo concentrato a fumare.

Ward mi si piazzò davanti, poggiando un piede sul bordo del sedile della sedia sulla quale sostavo, esattamente a un centimetro dalle mie palle.

«Parlerai. Eccome se parlerai, sporco bastardo» ghignò sadico ed io deglutii non sapendo cosa aspettarmi.

«Perché l'hai fatto, Charles? Eri uno dei nostri, ma probabilmente speravi che nessuno avrebbe sospettato di te» intervenne Schuyler. Li guardai alcuni secondi senza fiatare, che avessero capito?

«Fatto cosa?» Tentai di cavarmela.

«Sai benissimo di cosa parliamo, Lee. Dell'omicidio di Washington. Se parlerai avrai un trattamento dignitoso, forse. Non costringerci ad usare le maniere forti.»

Risi nervosamente. «State scherzando? Non so nulla di questa storia, non ho ucciso io George» la gola divenne improvvisamente secca, il cuore iniziò a battere troppo veloce, ma dalla mia parte avevo la mia innata abilità nel mentire, che mi aiutò a sostenere gli sguardi inquisitori dei miei due colleghi.

«Parla!» Ward mi afferrò per il bavero della giacca «Sanno tutti che invidiavi il ruolo di Washington, chi altro avrebbe potuto ucciderlo? Sarebbe passato a te l'incarico di Comandante in Capo, è inutile mentire» sputò delle gocce di saliva che mi arrivarono dritte sul viso, non trattenni una smorfia.

«Ve lo ripeto: non l'ho ucciso io. Non avete prove» mi colpì un altro pugno, stavolta di Philip. Mi piegai in avanti e sputai a terra un grumo di sangue mentre i piedi di Artemas uscivano dal mio campo visivo. Mi sforzai di concentrarmi sul rumore metallico che udii alla mia sinistra per capire cosa stesse facendo, ma il dolore alla mascella mi offuscava i sensi.

Philip Schuyler mi afferrò per i capelli, costringendomi ad appoggiarmi allo schienale. Deglutii sangue e saliva, osservando Ward che trafficava sul ripiano accanto a me.

«Spoglialo» disse senza nemmeno voltarsi. L'altro ridacchiò come se non stesse aspettando altro, mi liberò i polsi e d'istinto mi alzai, ma non feci in tempo a fare un passo, un calcio nelle reni mi spezzò il respiro, facendomi inginocchiare. Non riuscii a trattenere un lamento e senza preavviso Philip mi strappò via la redingote, afferrandomi un braccio e sbattendomi di nuovo sulla sedia. Mi rilegò i polsi, stringendo la corda così forte quasi da impedire la circolazione sanguigna.

«Cosa volete fare?!» Domandai nervosamente sforzandomi di non entrare nel panico, anche se sapevo cosa mi attendeva. Le mani di Philip spuntarono da dietro, infilò due dita nello spazio tra due bottoni, aprendomi la camicia con un gesto deciso e lasciandomi a torso nudo. Solo in quel momento Artemas si girò, osservando compiaciuto ciò che aveva davanti. Si rigirò tra le mani delle pinze e avvertii chiaramente un macigno all'altezza del petto, come una sfera infuocata che irradiava calore al resto del corpo. Avrei dovuto interpretarla come adrenalina, ma scartai subito questa ipotesi, dato che ero paralizzato. Era paura, consapevolezza, impotenza dinnanzi agli eventi. Mi trovavo in balìa di due folli che mi accusavano dell'omicidio del loro amato George Washington. Beh, forse un po' c'entravo, ma non era morto per mano mia, Cristo santo.

«Vediamo quanto resisti, Lee» sorrise Artemas appoggiando l'estremità appuntita sulla mia carne «È la tua ultima occasione per dire la verità» potei notare una nota di sadismo nella sua voce, come pregasse che tacessi per divertirsi a giocare al chirurgo con me.

«Non la so la verità, Ward. Con l'omicidio di Washington non c'entro. Puoi chiedere a chi vuoi, quella notte ero a Fort George» risposi mantenendo la calma. Non potevano farmi nulla, non senza le prove. Eravamo d’accordo con Jenny, che avrebbe detto senza indugi che quella notte era nel mio letto, impegnandomi con altro.

Trascinò le pinze di lato lasciandomi un solco arrossato sul pettorale, fino a stringere il capezzolo sinistro nella morsa di metallo. Serrai i denti soffocando un gemito e guardai fisso Artemas, mentre Philip teneva le mani sulle mie spalle, come ad assicurarsi che stessi fermo. Deglutii a vuoto, avevo la bocca secca come se non bevessi da giorni.

«Non ricordi nulla?» Abbandonai la testa all'indietro e chiusi gli occhi, aprii la bocca ed inspirai tentando di calmarmi.

«Non lo so, maledizione» raddrizzai il capo, tornando a fissarlo «Non lo so!» Urlai esasperato, le cosce dure e i polsi tremanti per lo sforzo.

Fu un secondo, urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, fottendomene altamente dell'orgoglio, della reputazione e stronzate varie. Con un gesto secco mi strappò il capezzolo, lasciando che cadesse a terra come un qualsiasi pezzo di carne morta.

Una mano di Philip si staccò dalla mia spalla per scivolare sul collo. Con due dita mi ruotò la testa, che avevo piegato in avanti per fissare con orrore il sangue colare rapidamente fino alla vita e imbrattare i calzoni. Non stava accadendo realmente. No.

«Ma guardalo, sta già piangendo» ridacchiò sadico. Sfiderei chiunque a rimanere impassibile, maledetti bastardi. Strizzai gli occhi per liberarli dalle lacrime e lanciai un'occhiata sofferente a Israel, che buttò il mozzicone del sigaro a terra espirando l'ultima boccata di fumo, come a implorarlo di farli smettere. Si alzò e lo spense definitivamente con la punta dello stivale, solo allora si degnò di riservarmi attenzione. Dopo aver messo le mani in tasca avanzò di pochi passi, affiancando Ward. Lo guardai in silenzio con le guance rigate, le labbra spaccate e socchiuse e un capezzolo in meno.

«Non ero favorevole a questo metodo e non lo sono tutt'ora, fa' in modo che non duri oltre. Lo dico per te» appoggiò le mani sulle ginocchia e si piegò in avanti, puntando gli occhi nei miei.

«Lo giuro, Israel, non lo so. Non so niente» non disse nulla, limitandosi a fissarmi dubbioso per qualche istante. Dopo essere tornato in posizione eretta iniziò a camminare pensieroso, percorrendo avanti e indietro e con nervosismo gli stessi metri. Artemas e Philip non gli staccarono gli occhi di dosso per un solo istante, mentre io faticavo a respirare dato il magone che avevo alla gola. Avrei voluto piangere dal male fino a morire disidratato, il pettorale sinistro era in fiamme, pulsava come se stesse per prendere vita, e iniziai a temere che mi avrebbero fatto fuori sul serio.

«Forse dice il vero» parlò dopo poco.

Ward sgranò gli occhi «Tu gli credi? Che cazzo dici, Israel? Questo bastardo ha ucciso Washington, porca puttana!» Mi indicò.

«Non sono stato io!» Tentai di difendermi ancora.

«Deve pagare» deglutì rumorosamente, continuando a tenere l'indice a due centimetri dal mio viso. Stavo perdendo il controllo, ero cosciente del fatto che la lucidità mi stesse abbandonando. E cosa avrei fatto, poi? Avrei iniziato ad urlare? A piangere? No, quello lo stavo già facendo -per il dolore, s'intende-. Sarei morto così? E chi l'avrebbe mai detto, ero sempre stato certo che me ne sarei andato con una pallottola in corpo, travolto da una palla di cannone o trafitto da una spada «E io so come farlo parlare» abbassai lo sguardo per terra e smisi di respirare nel vano tentativo di rallentare il battito cardiaco che, a causa della mancanza di ossigeno, avrebbe ritrovato un ritmo normale. Non servì, ovviamente. Il cuore continuava a martellare contro la cassa toracica, mentre Artemas trafficava sul ripiano. Non trovai il coraggio di guardare. Non volevo sapere, anche se in fondo sospettavo.

Quando si girò notai nella sua mano destra un alare con la punta incandescente.

«Cosa…? No» deglutii incredulo, con l’ansia nel petto che a malapena mi lasciava respirare «No, Artemas, tu sei pazzo.» Ghignò sadicamente, rigirandosi tra le mani il metallo rovente.

«Hai intenzione di collaborare?» Si abbassò su di me, avvicinando la punta bollente alla mia carne. «Non costringermi ad essere ancora più stronzo, Charles.» Urlai come un bambino quando mi infilò la punta incandescente nell’ombelico. Mi conficcai le unghie nei palmi e strizzai gli occhi, soffrendo di più per la dignità che stavano calpestando che per il dolore fisico.

Avevo il volto bagnato di sudore e lacrime, il ventre in fiamme e la gola secca, ma mi imposi di non dargli la soddisfazione di vedermi sconfitto o di sentirmi implorare pietà. Quello mai.

Philip, ancora dietro di me, mi raddrizzò il capo con poca grazia, indirizzando il mio sguardo verso Ward. «Allora? Ti è venuto in mente qualcosa?» Lo osservai mentre mi si avvicinava di nuovo, gli occhi lucidi d’eccitazione e la lingua a leccarsi le labbra. «Non farmi continuare» ma nel dirlo iniziò a tracciare una linea verticale con l’alare sul mio addome, dall’ombelico fino al petto. Mi morsi l’interno delle guance fino a sentire il sapore metallico del sangue. I capelli malamente appiccicati alla fronte, iniziai a tremare dallo sforzo, gocciolando sudore e fissandolo con odio, come a dirgli che non mi sarei piegato alla sua bastardaggine, perché ero più stronzo di lui.

«Non mi farai ammettere una colpa che non ho, nemmeno morto» nonostante la voce strozzata, scandii ogni parola guardando negli occhi.

Mi tirò un manrovescio con la mano sinistra, colpendomi poco sopra l’occhio e spaccandomi il sopracciglio, ma non urlai. Gli incisivi ben conficcati nella mia stessa carne, a torturare il labbro inferiore mentre Artemas e Israel mi fissavano in silenzio.

«Bene, allora. Vorrà dire che useremo le maniere forti» sorrise sadico, appoggiandomi di piatto l’alare sotto il mento e scottandomi. Aspirai aria tra i denti e scattai all’indietro, scontrando contro il petto di Philip, costantemente dietro di me per bloccarmi qualsiasi movimento.

L’occhio mi cadde su Putnam, nascosto nella penombra della stanza, gli occhi chiusi. Forse pensava che tutto questo fosse sbagliato, che tentare di estorcermi una verità falsa fosse sbagliato, e magari sarebbe intervenuto per interrompere quella follia. Ammetto che avrei gradito, ma ovviamente non fu così. Insomma, sarebbe stato troppo semplice, no?

Sentii Ward trafficare con qualcosa di metallico, e non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo da terra per paura di scoprire quale diavoleria gli fosse saltata in mente. Fissai il bordo dei calzoni macchiato di rosso e venni scosso da un brivido, constatando quanto strano fosse essere schifati dal proprio sangue ma non da quello degli altri.

«Liberagli un polso» eh? Cosa?

Philip tagliò la corda che mi legava il polso destro. Mi formicolava la mano, l’intero braccio era intorpidito e l’improvvisa affluenza di globuli rossi diffuse un piacevole calore fino alla punta delle dita.

Artemas posò davanti ai miei piedi un secchio traboccante d’acqua, ed io notai solo in un secondo momento il fumo che evaporava. Era bollente. Era acqua bollente, Cristo santo, ed iniziai a capire che intenzioni avesse.

Con poca grazia mi afferrò il polso libero, strattonandomi in avanti e avvicinandomi pericolosamente a quel pezzo di metallo incandescente. Deglutii, sentendo improvvisamente il bisogno di pisciare.

«Allora? Vuoi collaborare o ti ostini a tacere?»

Inspirai a bocca aperta sperando di calmarmi. «Te l’ho già detto, Artemas. Non ho ucciso nessuno, ero a Fort George a sbrigare altre faccende» puntai gli occhi nei suoi sperando che si ricordasse di Jennifer, poi risi nervosamente. «Insomma, chi preferirebbe un omicidio ad una notte di piacere con la propria donna?» Per poco non caddi dalla sedia. L’altra mano di Ward mi afferrò i capelli sulla nuca, spingendomi in avanti e facendomi scivolare verso il bordo del sedile.

«Non fare lo spiritoso con me, Charlie» mi avvicinò la mano all’acqua, il vapore mi scaldava la pelle quasi da scottarmela e per riflesso aprii il pugno, guadagnando quei due centimetri in più prima di toccare il liquido. «Dimmi la verità» sibilò a denti stretti, le dita ancor più serrate tra i miei capelli.

«Lo giuro» un’altra mano mi si appoggiò pesantemente sulla testa, spingendomi verso il secchio e permettendo a Ward di approfittarne. Vidi la mia mano sparire oltre il vapore in meno di un secondo, immergendosi fino al polso nell’acqua bollente.

Urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo e cercai di trattenermi fino all’ultimo, ma non riuscii a trattenere le lacrime. Abbandonai la testa contro la spalla di Artemas, che ancora mi teneva saldo per il collo, e soffocai un singhiozzo serrando le labbra tremolanti.

«Ti prego!» La mano bruciava, il braccio era scosso da spasmi ed io strillavo e imploravo di avere pietà, imploravo di uccidermi, piuttosto, perché non avrei retto oltre.

«Sshh» mi sussurrò all’orecchio, «è inutile urlare, tanto non può sentirti nessuno.»

 

 

Okay, lol.
Qualcuno di voi starà fangirlando per aver azzeccato parte di questo capitolo *lancia biscotto*. Sai che parlo a te, prendilo prima che qualcuno te lo rubi, loool.
Ignoratemi, è l’ora che mi fa delirare. Grazie come sempre a chi legge e recensisce, aw, vivogliobbene.

 

   
 
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