Capitolo 36
Fu la mezz’ora più lunga della mia vita. Le navi
inglesi attraccate al porto di Boston continuavano a sparare bordate, e mentre Putnam berciava ai soldati di raccattare i fucili e
togliersi dal centro del campo di battaglia, io ero riuscito a trasportare Haytham in un punto un po’ più coperto, ai piedi del bosco.
Lì le palle di cannone non erano ancora arrivate.
Pregavo che Connor si
sbrigasse. Non mi interessava la riuscita dell’impresa, le navi avrebbero
potuto anche raderla al suolo, Boston. A me interessava Mastro Kenway. Dovevo portarlo a New York.
Mi ritrovai a contare i secondi, perché starmene
con le mani in mano mentre il mio maestro rischiava di lasciarci la pelle, beh,
mi rendeva piuttosto nervoso. E vedere l’Assassino correre verso di me non mi
era mai sembrato tanto rincuorante. In un’altra situazione magari mi sarei
nascosto, troppo pigro per affrontare faccia a faccia quel ragazzone di un
metro e novanta, ma Haytham era a terra, privo di
sensi e con una ferita alla testa. Le cannonate erano cessate, facendomi
pensare che fosse riuscito ad uccidere gli equipaggi inglesi. Beh, tanto
meglio.
«Connor!» Con una mano gli feci cenno di avvicinarsi, e dopo aver
scambiato un paio di parole con Putnam mi raggiunse
con passo lungo e rilassato. «Muoviti,
per l’amor di Dio» ringhiai
quando era abbastanza vicino da sentirmi, ma sembrò allarmarsi solo dopo avermi
guardato in faccia.
«Che succede?» Gli occhi puntati sul corpo di suo padre,
i pugni stretti lungo i fianchi.
«È solo svenuto, aiutami a portarlo fino ai
cavalli» strinsi le caviglie
del mio maestro attendendo che il ragazzo lo sollevasse da sotto le ascelle, ma
con mio sorpresa non si mosse. Forse era sconvolto, e sperai in cuor mio fosse
così, perché mi rifiutavo di pensare che vederlo incosciente e ferito non gli
facesse provare neanche un minimo di dispiacere. «Si può sapere che stai aspettando?» Sbottai alzando lo sguardo.
L’Assassino sobbalzò. «Sì, scusa» lo afferrò saldamente per la redingote e lo alzò da terra,
aiutandomi a spostarlo da quella posizione scomoda e, sebbene riparata,
comunque troppo esposta.
Attraversammo la collina senza difficoltà,
specialmente grazie al sabotaggio delle navi inglesi e mentre camminavamo lanciai
un’occhiata ad Haytham. L’espressione rilassata, il viso
pallido, come fosse morto.
No. No, santo Dio, che diavolo andavo a pensare?
Aveva solo un taglio. Uno stupidissimo taglio sulla fronte. Non è mai morto
nessuno per una ferita del genere, e poi gli avevo sentito il battito pochi
minuti prima: era regolare. Un po’ debole, ma regolare. Sapevo riconoscere un
uomo in fin di vita, e lui non lo era.
«Issalo sul cavallo» borbottai adagiando i piedi a terra e
obbligandomi a controllare il tremore alle mani mentre scioglievo il nodo alle
redini.
«Dove vuoi che lo porti?»
Mi voltai verso il ragazzo. «Tu?»
«Certo, altrimenti chi?» Cercai di capire se fosse serio o se mi
prendesse in giro.
«Io, per esempio.» Serrò le braccia sul petto, le mani
nascoste sotto i bicipiti e lo sguardo strafottente.
«Tu dovresti restare qui, i soldati hanno
bisogno di te.»
«No» incalzai, «tuo
padre ha bisogno di aiuto»
sottolineai con disappunto. Ha bisogno di
me, cristo.
«Posso portarlo io ovunque serva. Hai
ammazzato Washington per avere questo incarico, non perdere tempo in altre
faccende.» Soffocai a stento
una risata isterica, imponendomi di non colpire il naso del nativo un’altra
volta. Il taglio sulle nocche bruciava già abbastanza per farmi desistere.
«Stammi a sentire, ragazzino» mossi un passo verso di lui,
puntellandogli un dito sul petto, «io non ho ucciso nessuno, gli Inglesi sono decimati, non attaccheranno
più dopo il tuo intervento e i rinforzi dei patrioti non arriveranno prima di
domani. Non c’è bisogno che resti qui, Israel saprà
dare istruzioni in caso di necessità.» Tirai il cavallo per le briglie per avvicinarlo al corpo,
poi sollevai Haytham, posizionandomi davanti a lui e
appoggiando le sue braccia sulle mie spalle.
«Gradirei mi dessi una mano» borbottai mettendo un piede sulla staffa,
le mani a stringere i polsi del Gran Maestro per tenerlo in posizione eretta. Connor sbuffò, spingendo suo padre per le gambe mentre io
salivo in sella.
Era una posizione alquanto scomoda, ed ero ben
consapevole che così facendo mi sarei limitato nella velocità, ma era l’unica
soluzione. Non avevo un carro e non avrei perso tempo a cercarlo.
«Parla tu con Putnam,
digli che ho avuto un imprevisto e che tornerò il prima possibile.» Attesi che annuisse e mi congedai,
spronando il cavallo e tornando sui miei passi. Mi misi il braccio sinistro di Haytham in torno alla vita, la sua mano appoggiata sul
cavallo dei miei calzoni, e l’altro appeso alla mia spalla, in modo da
afferrarlo facilmente nel caso rischiasse di cadere, la testa appoggiata alla
mia schiena.
Era ancora vivo, il suo respiro caldo e regolare
sul collo me lo confermò ed io mi calmai, stringendogli il polso destro e
accelerando leggermente l’andatura.
Il viaggio mi portò via sei ore, lasso di tempo
in cui credetti seriamente di arrivare a New York troppo tardi.
Prima che si facesse buio ne approfittai per
smontare –lasciando Haytham in sella- in prossimità
di un fiume e bagnare una pezza. Mi ero poi issato su una staffa per lavargli
la ferita alla tempia, per ripartire quindi al galoppo verso New York,
ignorando il fatto che spronare in quel modo il cavallo avrebbe rischiato di
far cadere entrambi, ma preferii correre il rischio. La foresta era un posto
pericoloso di giorno, di notte era insidiosa due volte tanto. Con me avevo solo
una spada e una pistola con qualche proiettile, armi che mi avrebbero salvato
la pelle contro una ronda di una decina di uomini al massimo, ma contro un
lupo, o peggio ancora un orso, non avrei avuto certamente la meglio.
Per grazia divina arrivammo a Fort George sani e
salvi, e le guardie all’entrata del forte mi aiutarono a tirare Haytham giù da cavallo e a portarlo dentro.
Istintivamente pensai a Jenny, a come avrebbe
preso la notizia e iniziando a formulare scuse plausibili per scagionarmi.
Un momento. Scagionarmi da cosa? Non era stata
colpa mia, perché mi sentivo responsabile? Avevo abbandonato l’esercito per
portarlo al sicuro, questo sarebbe dovuto bastare.
«Charles?!» Alzai lo sguardo, fermandomi a metà rampa di scale insieme
alla guardia. Jenny era lì, in cima, intenta a guardarci sconvolta. «Cosa ci fai qui? Cos’è successo a mio fratello?» Ripresi a salire, il braccio del mio maestro
intorno al collo e metà del suo peso sulla spalla sinistra.
«Calmati, è solo svenuto. Ha preso una
botta in testa.» Non aggiunsi
altro e trascinai a fatica Haytham nella sua stanza. Dopo
averlo adagiato sul letto intimai alla sentinella di uscire, venendo sostituita
prontamente da Jennifer. Entrò in camera affannata, una mano sul petto e gli
occhi sbarrati, puntati sul viso ferito del Gran Maestro.
«Dovrebbe riprendersi» parlai per primo, dandole forse la
risposta che più le interessava sentire. Afferrai uno stivale di quello che
avevo considerato mio padre negli ultimi vent’anni e lo sfilai, adagiandolo a
terra, accanto al letto. «L’ho
trovato ferito a Boston.»
«Credevo fossi a Valley Forge» sussurrò ancora scossa e chiudendo la
porta. Tolsi anche l’altro stivale, poi annuii.
«Infatti. Mi è giunta voce che a Boston
fossero sbarcati altre giubbe rosse, poi mi hanno detto che Haytham
era lì e…» gesticolai
imbarazzato, infilando poi la mano in tasca per non risultare ridicolo, «… e sono andato a Bunker Hill.»
«Dio mio. Gli hai salvato la vita.» Alzai lo sguardo su di lei giusto in
tempo per vederla mentre si tappava la bocca con una mano per soffocare un
singhiozzo, e mi si strinse il cuore. Non volevo vederla così. Avrei dovuto
fare qualcosa, avrei dovuto fare di più.
«Vieni qui.» Mi abbracciò di slancio e nascondendo il viso contro la
giacca, trattenendo il respiro e reprimendo un altro singulto. «Non piangere, non è in pericolo di vita» le poggiai una mano sulla schiena per
tranquillizzarla, lanciando un’occhiata al Gran Maestro per accertarmi che
respirasse ancora. Vidi il petto alzarsi lentamente e chiusi gli occhi, dando
una pacca sulla spalla di Jenny.
«Dovrebbe stare al caldo» dissi rompendo il silenzio, «va’ a prendere qualcosa per disinfettargli
la ferita, io ho potuto solo sciacquarla» si staccò da me asciugandosi gli occhi e la guardai in
silenzio mentre lasciava la stanza. Mi avvicinai al letto e coprii Haytham, poi spostai la sedia che teneva alla scrivania
portandola vicino al letto, quindi mi ci sedetti per aspettare Jennifer.
Quando aprii gli occhi la stanza era buia e
silenziosa e dovetti strizzare un paio di volte le palpebre per capire di
essere a Fort George.
Mi mossi di poco e feci scricchiolare la schiena,
accorgendomi in quel momento di avere una coperta addosso. Mi misi seduto
ancora mezzo assonnato, scorgendo Jennifer davanti a me, seduta su uno sgabello
ai piedi del letto del fratello, le braccia appoggiate al materasso e la testa
sugli avambracci. Dormiva profondamente, rabbrividendo di tanto in tanto.
Mi alzai sospirando, non avrei comunque ripreso
sonno, quindi la coprii per bene. Dopo essermi assicurato che fosse al caldo
lasciai la stanza, chiudendo delicatamente la porta e percorrendo il corridoio
con passo stanco, lasciandomi guidare dalla fioca luce lunare che a malapena
illuminava il pavimento. L’indomani sarei ripartito per Bunker Hill, con un po’
di fortuna sarei arrivato insieme ai rinforzi inviati di Philip.
Svoltai l’angolo, trovandomi davanti la guardia
che mi aveva aiutato a portare Haytham fino alla sua
camera.
«Stavo cercando voi, generale Lee.» Sussurrò timoroso.
«È successo qualcosa?» Scostai lo sguardo e sbirciai oltre la
finestra, tentando di capire cosa avesse spaventato la sentinella.
«No. No, è tutto a posto. Solo...» si torturò le mani, giocherellando con le
pellicine intorno alle unghie, «i vostri colleghi sono qui, signore. Parlo dei generali Ward, Schuyler e Putnam.»
Inarcai un sopracciglio. Ward
sarebbe stato plausibile, ma Philip e Israel? Com’era
possibile? Li avevo lasciati a Valley Forge e Bunker Hill. «Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. Hanno chiesto di voi.» Imprecai a mezza voce. Quei tre mi
avrebbero mandato nei casini, porca puttana.
Scesi le scale saltando gli scalini due a due,
raggiungendo la porta che si affacciava sul cortile interno. La spalancai con
poca grazia, attraversando il piazzale con passo pesante.
Li vedevo. Se ne stavano lì, davanti alle guardie
poste all’entrata del forte.
«Cosa ci fate qui?!» Sbottai inchiodando davanti a loro.
Artemas
sogghignò lascivo. «Potremmo
chiederti la stessa cosa, Charles. Credevo che un comandante non abbandonasse i
suoi soldati per tornare a casa. Che è successo?, ti
mancava la tua sgualdrina?»
Serrai un pugno e sorvolai obbligandomi a
mantenere il controllo, poi guardai Putnam. «Credevo che il ragazzo ti avesse spiegato
tutto.»
«Sappiamo perché sei qui, amico, ma sono
successi degli imprevisti.»
Alzai le sopracciglia.
«Ovvero? Sono arrivate altre giubbe rosse?»
«Temo che loro non possano sentire» indicò con il mento i soldati alle mie
spalle schioccando la lingua. Purtroppo aveva ragione. Le questioni riguardanti
l’esercito non potevano essere divulgate a terzi.
Feci cenno ai due vigilanti di rientrare, e solo
quando oltrepassarono la soglia e chiusero il cancello si degnarono di darmi
una spiegazione.
«Vedi, Charles, il fatto è che sospettiamo
ci sia un traditore tra le nostre fila.
«Cosa?» Sbottai sconvolto. «Non è possibile, chi sarebbe?»
Philip restò impassibile, e Ward
si passò una mano tra i capelli mentre Israel faceva
l’ennesimo tiro dal suo sigaro. «Tu.» Non
riuscii a schivare un pugno in pieno volto, poi persi i sensi.
Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi fu
il contorno sfocato delle mattonelle di New York. Capii che mi stavano
trascinando da qualche parte, perché mi sentivo sballottato, ma non avevo la forza
sufficiente per camminare da solo.
«Cristo, che mal di testa- borbottai con un
fil di voce. Alcuni risero, e improvvisamente mi fu tutto chiaro. Un terzo uomo
aprì una porta e di colpo venni investito dal buio. Non capivo dove fossi e per
un attimo ringraziai di essere guidato da chi evidentemente riusciva ad
orientarsi anche nell’oscurità più totale. Preso dal panico strizzai le
palpebre, riuscendo a mettere a fuoco i miei aguzzini.
Artemas
Ward e Philip Schuyler, i
due generali dell'Esercito Continentale scelti dal Congresso oltre a me e Israel Putnam, mi trascinarono di
peso fino a quello che, a primo impatto, definii uno scantinato. Era un luogo
buio e umido, illuminato a malapena da una finestrella, a stendo vedevo dove
stavamo andando. Il pavimento era di pietra grezza, lo intuii dal rumore della suola e dalla superficie sconnessa che più di una volta
aveva messo alla prova il mio equilibrio.
«Legate questo figlio di puttana» grugnì Ward, il
quale mi lanciò con poca grazia contro la sedia posta al centro della stanza.
Mi voltai verso di loro senza capire cosa stesse succedendo, ma senza darmi il
tempo di comprendere, Artemas e Philip mi costrinsero
a sedermi. Israel, davanti a me, trascinò un'altra
sedia e vi si accomodò dopo averla girata al contrario, come era solito fare il
ragazzo indiano. Si appoggiò allo schienale con un gomito e accese un sigaro
con tutta calma, inspirando e soffiando il fumo verso l'alto come nulla fosse.
«Cosa volete? Che cazzo significa questa
pagliacciata?» Non mi
risposero, limitandosi a prendermi i polsi e legarmeli dietro la schiena.
«Philip! Cosa diavolo...» tentai di dimenarmi, ma il pugno che mi
spaccò il labbro superiore assestatomi da Artemas mi
lasciò pietrificato. Erano impazziti tutti quanti? L'unico che non sembrava
interessato a pestarmi era Putnam, troppo concentrato
a fumare.
Ward
mi si piazzò davanti, poggiando un piede sul bordo del sedile della sedia sulla
quale sostavo, esattamente a un centimetro dalle mie palle.
«Parlerai. Eccome se parlerai, sporco
bastardo» ghignò sadico ed io
deglutii non sapendo cosa aspettarmi.
«Perché l'hai fatto, Charles? Eri uno dei
nostri, ma probabilmente speravi che nessuno avrebbe sospettato di te» intervenne Schuyler.
Li guardai alcuni secondi senza fiatare, che avessero capito?
«Fatto cosa?» Tentai di cavarmela.
«Sai benissimo di cosa parliamo, Lee.
Dell'omicidio di Washington. Se parlerai avrai un trattamento dignitoso, forse.
Non costringerci ad usare le maniere forti.»
Risi nervosamente. «State scherzando? Non so nulla di questa
storia, non ho ucciso io George» la gola divenne improvvisamente secca, il cuore iniziò a battere troppo
veloce, ma dalla mia parte avevo la mia innata abilità nel mentire, che mi
aiutò a sostenere gli sguardi inquisitori dei miei due colleghi.
«Parla!» Ward mi afferrò per il bavero
della giacca «Sanno tutti che
invidiavi il ruolo di Washington, chi altro avrebbe potuto ucciderlo? Sarebbe
passato a te l'incarico di Comandante in Capo, è inutile mentire» sputò delle gocce di saliva che mi
arrivarono dritte sul viso, non trattenni una smorfia.
«Ve lo ripeto: non l'ho ucciso io. Non
avete prove» mi colpì un
altro pugno, stavolta di Philip. Mi piegai in avanti e sputai a terra un grumo
di sangue mentre i piedi di Artemas uscivano dal mio
campo visivo. Mi sforzai di concentrarmi sul rumore metallico che udii alla mia
sinistra per capire cosa stesse facendo, ma il dolore alla mascella mi
offuscava i sensi.
Philip Schuyler mi
afferrò per i capelli, costringendomi ad appoggiarmi allo schienale. Deglutii
sangue e saliva, osservando Ward che trafficava sul
ripiano accanto a me.
«Spoglialo» disse senza nemmeno voltarsi. L'altro ridacchiò come se non
stesse aspettando altro, mi liberò i polsi e d'istinto mi alzai, ma non feci in
tempo a fare un passo, un calcio nelle reni mi spezzò il respiro, facendomi
inginocchiare. Non riuscii a trattenere un lamento e senza preavviso Philip mi
strappò via la redingote, afferrandomi un braccio e sbattendomi di nuovo sulla
sedia. Mi rilegò i polsi, stringendo la corda così forte quasi da impedire la
circolazione sanguigna.
«Cosa volete fare?!» Domandai nervosamente sforzandomi di non
entrare nel panico, anche se sapevo cosa mi attendeva. Le mani di Philip
spuntarono da dietro, infilò due dita nello spazio tra due bottoni, aprendomi
la camicia con un gesto deciso e lasciandomi a torso nudo. Solo in quel momento
Artemas si girò, osservando compiaciuto ciò che aveva
davanti. Si rigirò tra le mani delle pinze e avvertii chiaramente un macigno
all'altezza del petto, come una sfera infuocata che irradiava calore al resto
del corpo. Avrei dovuto interpretarla come adrenalina, ma scartai subito questa
ipotesi, dato che ero paralizzato. Era paura, consapevolezza, impotenza dinnanzi
agli eventi. Mi trovavo in balìa di due folli che mi accusavano dell'omicidio
del loro amato George Washington. Beh, forse un po' c'entravo, ma non era morto
per mano mia, Cristo santo.
«Vediamo quanto resisti, Lee» sorrise Artemas
appoggiando l'estremità appuntita sulla mia carne «È la tua ultima occasione per dire la
verità» potei notare una nota
di sadismo nella sua voce, come pregasse che tacessi per divertirsi a giocare
al chirurgo con me.
«Non la so la
verità, Ward. Con l'omicidio di Washington non
c'entro. Puoi chiedere a chi vuoi, quella notte ero a Fort George» risposi mantenendo la calma. Non potevano
farmi nulla, non senza le prove. Eravamo d’accordo con Jenny, che avrebbe detto
senza indugi che quella notte era nel mio letto, impegnandomi con altro.
Trascinò le pinze di lato lasciandomi un solco
arrossato sul pettorale, fino a stringere il capezzolo sinistro nella morsa di
metallo. Serrai i denti soffocando un gemito e guardai fisso Artemas, mentre Philip teneva le mani sulle mie spalle, come
ad assicurarsi che stessi fermo. Deglutii a vuoto, avevo la bocca secca come se
non bevessi da giorni.
«Non ricordi nulla?» Abbandonai la testa all'indietro e chiusi
gli occhi, aprii la bocca ed inspirai tentando di calmarmi.
«Non lo so, maledizione» raddrizzai il capo, tornando a fissarlo «Non lo so!» Urlai esasperato, le cosce dure e i polsi tremanti per lo
sforzo.
Fu un secondo, urlai con tutto il fiato che avevo
in corpo, fottendomene altamente dell'orgoglio, della reputazione e stronzate
varie. Con un gesto secco mi strappò il capezzolo, lasciando che cadesse a
terra come un qualsiasi pezzo di carne morta.
Una mano di Philip si staccò dalla mia spalla per
scivolare sul collo. Con due dita mi ruotò la testa, che avevo piegato in
avanti per fissare con orrore il sangue colare rapidamente fino alla vita e
imbrattare i calzoni. Non stava accadendo realmente. No.
«Ma guardalo, sta già piangendo» ridacchiò sadico. Sfiderei chiunque a
rimanere impassibile, maledetti bastardi. Strizzai gli occhi per liberarli dalle
lacrime e lanciai un'occhiata sofferente a Israel,
che buttò il mozzicone del sigaro a terra espirando l'ultima boccata di fumo,
come a implorarlo di farli smettere. Si alzò e lo spense definitivamente con la
punta dello stivale, solo allora si degnò di riservarmi attenzione. Dopo aver
messo le mani in tasca avanzò di pochi passi, affiancando Ward.
Lo guardai in silenzio con le guance rigate, le labbra spaccate e socchiuse e
un capezzolo in meno.
«Non ero favorevole a questo metodo e non
lo sono tutt'ora, fa' in modo che non duri oltre. Lo dico per te» appoggiò le mani sulle ginocchia e si
piegò in avanti, puntando gli occhi nei miei.
«Lo giuro, Israel,
non lo so. Non so niente» non
disse nulla, limitandosi a fissarmi dubbioso per qualche istante. Dopo essere
tornato in posizione eretta iniziò a camminare pensieroso, percorrendo avanti e
indietro e con nervosismo gli stessi metri. Artemas e
Philip non gli staccarono gli occhi di dosso per un solo istante, mentre io
faticavo a respirare dato il magone che avevo alla gola. Avrei voluto piangere
dal male fino a morire disidratato, il pettorale sinistro era in fiamme,
pulsava come se stesse per prendere vita, e iniziai a temere che mi avrebbero
fatto fuori sul serio.
«Forse dice il vero» parlò dopo poco.
Ward
sgranò gli occhi «Tu
gli credi? Che cazzo dici, Israel? Questo bastardo ha
ucciso Washington, porca puttana!» Mi indicò.
«Non sono stato io!» Tentai di difendermi ancora.
«Deve pagare» deglutì rumorosamente, continuando a tenere l'indice a
due centimetri dal mio viso. Stavo perdendo il controllo, ero cosciente del
fatto che la lucidità mi stesse abbandonando. E cosa avrei fatto, poi? Avrei
iniziato ad urlare? A piangere? No, quello lo stavo già facendo -per il dolore,
s'intende-. Sarei morto così? E chi l'avrebbe mai detto, ero sempre stato certo
che me ne sarei andato con una pallottola in corpo, travolto da una palla di
cannone o trafitto da una spada «E io so come farlo parlare» abbassai lo sguardo per terra e smisi di respirare nel vano tentativo
di rallentare il battito cardiaco che, a causa della mancanza di ossigeno,
avrebbe ritrovato un ritmo normale. Non servì, ovviamente. Il cuore continuava
a martellare contro la cassa toracica, mentre Artemas
trafficava sul ripiano. Non trovai il coraggio di guardare. Non volevo sapere,
anche se in fondo sospettavo.
Quando si girò notai nella sua mano destra un alare
con la punta incandescente.
«Cosa…? No» deglutii incredulo, con l’ansia nel petto che a malapena mi
lasciava respirare «No, Artemas, tu sei pazzo.» Ghignò sadicamente, rigirandosi tra le mani il metallo
rovente.
«Hai intenzione di collaborare?» Si abbassò su di me, avvicinando la punta
bollente alla mia carne. «Non
costringermi ad essere ancora più stronzo, Charles.» Urlai come un bambino quando mi infilò la
punta incandescente nell’ombelico. Mi conficcai le unghie nei palmi e strizzai
gli occhi, soffrendo di più per la dignità che stavano calpestando che per il
dolore fisico.
Avevo il volto bagnato di sudore e lacrime, il
ventre in fiamme e la gola secca, ma mi imposi di non dargli la soddisfazione
di vedermi sconfitto o di sentirmi implorare pietà. Quello mai.
Philip, ancora dietro di me, mi raddrizzò il capo
con poca grazia, indirizzando il mio sguardo verso Ward.
«Allora? Ti è venuto in mente qualcosa?» Lo osservai mentre mi si avvicinava di
nuovo, gli occhi lucidi d’eccitazione e la lingua a leccarsi le labbra. «Non farmi continuare» ma nel dirlo iniziò a tracciare una linea
verticale con l’alare sul mio addome, dall’ombelico fino al petto. Mi morsi
l’interno delle guance fino a sentire il sapore metallico del sangue. I capelli
malamente appiccicati alla fronte, iniziai a tremare dallo sforzo, gocciolando
sudore e fissandolo con odio, come a dirgli che non mi sarei piegato alla sua
bastardaggine, perché ero più stronzo di lui.
«Non mi farai ammettere una colpa che non
ho, nemmeno morto» nonostante
la voce strozzata, scandii ogni parola guardando negli occhi.
Mi tirò un manrovescio con la mano sinistra,
colpendomi poco sopra l’occhio e spaccandomi il sopracciglio, ma non urlai. Gli
incisivi ben conficcati nella mia stessa carne, a torturare il labbro inferiore
mentre Artemas e Israel mi
fissavano in silenzio.
«Bene, allora. Vorrà dire che useremo le
maniere forti» sorrise
sadico, appoggiandomi di piatto l’alare sotto il mento e scottandomi. Aspirai aria
tra i denti e scattai all’indietro, scontrando contro il petto di Philip,
costantemente dietro di me per bloccarmi qualsiasi movimento.
L’occhio mi cadde su Putnam,
nascosto nella penombra della stanza, gli occhi chiusi. Forse pensava che tutto
questo fosse sbagliato, che tentare di estorcermi una verità falsa fosse
sbagliato, e magari sarebbe intervenuto per interrompere quella follia. Ammetto
che avrei gradito, ma ovviamente non fu così. Insomma, sarebbe stato troppo
semplice, no?
Sentii Ward trafficare
con qualcosa di metallico, e non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo da terra
per paura di scoprire quale diavoleria gli fosse saltata in mente. Fissai il bordo
dei calzoni macchiato di rosso e venni scosso da un brivido, constatando quanto
strano fosse essere schifati dal proprio sangue ma non da quello degli altri.
«Liberagli un polso» eh? Cosa?
Philip tagliò la corda che mi legava il polso
destro. Mi formicolava la mano, l’intero braccio era intorpidito e l’improvvisa
affluenza di globuli rossi diffuse un piacevole calore fino alla punta delle
dita.
Artemas
posò davanti ai miei piedi un secchio traboccante d’acqua, ed io notai solo in
un secondo momento il fumo che evaporava. Era bollente. Era acqua bollente,
Cristo santo, ed iniziai a capire che intenzioni avesse.
Con poca grazia mi afferrò il polso libero,
strattonandomi in avanti e avvicinandomi pericolosamente a quel pezzo di
metallo incandescente. Deglutii, sentendo improvvisamente il bisogno di
pisciare.
«Allora? Vuoi collaborare o ti ostini a
tacere?»
Inspirai a bocca aperta sperando di calmarmi. «Te l’ho già detto, Artemas.
Non ho ucciso nessuno, ero a Fort George a sbrigare altre faccende» puntai gli occhi nei suoi sperando che si
ricordasse di Jennifer, poi risi nervosamente. «Insomma, chi preferirebbe un omicidio ad una notte di piacere
con la propria donna?» Per
poco non caddi dalla sedia. L’altra mano di Ward mi
afferrò i capelli sulla nuca, spingendomi in avanti e facendomi scivolare verso
il bordo del sedile.
«Non fare lo spiritoso con me, Charlie» mi avvicinò la mano all’acqua, il vapore
mi scaldava la pelle quasi da scottarmela e per riflesso aprii il pugno,
guadagnando quei due centimetri in più prima di toccare il liquido. «Dimmi la verità» sibilò a denti stretti, le dita ancor più
serrate tra i miei capelli.
«Lo giuro» un’altra mano mi si appoggiò pesantemente sulla testa,
spingendomi verso il secchio e permettendo a Ward di
approfittarne. Vidi la mia mano sparire oltre il vapore in meno di un secondo,
immergendosi fino al polso nell’acqua bollente.
Urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in
corpo e cercai di trattenermi fino all’ultimo, ma non riuscii a trattenere le lacrime.
Abbandonai la testa contro la spalla di Artemas, che
ancora mi teneva saldo per il collo, e soffocai un singhiozzo serrando le
labbra tremolanti.
«Ti prego!» La mano bruciava, il braccio era scosso da spasmi ed io
strillavo e imploravo di avere pietà, imploravo di uccidermi, piuttosto, perché
non avrei retto oltre.
«Sshh» mi sussurrò all’orecchio, «è inutile urlare, tanto non può sentirti
nessuno.»
Okay, lol.
Qualcuno di voi starà fangirlando per aver azzeccato
parte di questo capitolo *lancia biscotto*. Sai che parlo a te, prendilo prima
che qualcuno te lo rubi, loool.
Ignoratemi, è l’ora che mi fa delirare. Grazie come sempre a chi legge e
recensisce, aw, vivogliobbene.