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Autore: Juliet91    27/12/2008    5 recensioni
Londra, 1900. Ellary Blase ha diciassette anni quando lascia finalmente l'orfanotrofio dove ha vissuto per sette lunghi anni. A portarla via è una coppia benestante, i Dwight, che hanno bisogno di un'altra domestica per la loro lussuosa villa. Al suo arrivo, Ellary scopre che i coniugi hanno un figlio di diciannove anni: Rhys. Un giovane misterioso che trascorre le sue giornate rintanato nella sua stanza, uscendo solo per esercitarsi al pianoforte. L'introspezione e la riservatezza di Rhys susciteranno la curiosità di Ellary, che pian piano entrerà a far parte della sua vita. Anche se la vita, non sempre va come vogliamo noi. Molti altri personaggi entreranno mano a mano a far parte della storia, svelandosi in un turbinio di colpi di scena che ci condurranno fino alla fine di una complicata storia d'amore, amicizia, seduzione, inganno, misteri e difficoltà.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Rilessi quel biglietto più e più volte, assaporai quelle parole che ad ogni lettura assumevano un significato diverso, lasciai che l'odore delle rose si impossessasse dei miei sensi proprio come avevo fatto la sera prima quando Javier mi aveva fatta custode dei fiori appena colti. Non mi capacitavo del fatto che un ragazzo meraviglioso come lui fosse rimasto tanto affascinato da me dopo un solo incontro da compiere un gesto così azzardato. Lo stupore non mi impediva comunque di sentirmi lusingata. Non ero abituata alle attenzioni che stavo ricevendo negli ultimi giorni, ma di certo non erano una novità sgradita.
Posai le rose sul comodino e riposi con cura il biglietto all'interno del cassetto e mi lasciai cadere di nuovo sui morbidi cuscini alle mie spalle. Un sorriso si dipinse sulle mie labbra quasi senza che me ne rendessi conto e poco dopo una risata infantile mi scuoteva le spalle e mi privava del respiro. Quando mi calmai, decisi che era ora di alzarmi dal letto. Mi diressi verso l'armadio e ne estrassi il mio abito blu scuro col colletto bianco ed il piccolo grembiule che - me ne accorgevo solo adesso - aveva decisamente bisogno di essere lavato. Sgattaiolai fuori dalla camera e percorsi in punta di piedi il corridoio, desiderosa d'infilarmi nel bagno e di non incontrare nessuno prima d'essermi resa più presentabile. Mi sfilai la camicia da notte e la appoggiai sulla cassettiera in legno, mi lavai con l'acqua piacevolmente tiepida ed indossai gli abiti giornalieri. Con gesti veloci ed esperti raccolsi i miei capelli lunghi e lisci in una treccia laterale, che fermai con un nastro verde scuro leggermente sfilacciato. Raccolsi la camicia da notte e mentre attraversavo il bagno a grandi passi diretta alla porta intravidi la mia immagine riflessa nello specchio a mezzo busto posizionato in fondo alla stanza, sul piano in marmo dove la signora Elizabeth si pettinava prima d'andare a dormire. Tornai sui miei passi fermandomi davanti a me stessa. Ero una ragazza particolare, così mi ero sempre sentita dire. Mia madre aveva capelli ancor più lisci dei miei, di un rosso intenso ed occhi dello stesso verde delle fronde degli alberi a primavera; mio padre, invece, aveva capelli castani ed occhi nocciola. Dal loro connubio ero nata io, fatta di colori sovrapposti di cui si scopriva la vera natura solo osservando attentamente. La mia chioma castano scuro, sotto i raggi del sole, rivelava riflessi di un rosso potente. I miei occhi, apparentemente color cioccolato, mostravano a chi era abbastanza sensibile da notarlo schegge di un luminoso verde. Rimasi immobile ad osservare la mia immagine riflessa nello specchio. C'era qualcosa di diverso nella ragazza che ero abituata a vedere. Cercai in ogni lineamento ed in ogni espressione che mi apparteneva, ma non trovai nulla che confermasse la mia sensazione. Ricordo che una volta, da bambina, vidi mia madre in lacrime. Fu l'unica volta che la vidi piangere.
"Ti sei fatta male, mamma?", le domandai.
"Sì, la mamma si è fatta molto male", mi rispose lei con aria triste.
"Dove?", chiesi con la consueta ingenuità di chi conta ancora gli anni sulle dita delle mani.
"La ferita c'è ma non si vede. L'essenziale è invisibile agli occhi, ricordalo Ellary... ricordalo".
Ero piccola, ma lei mi aveva chiesto di ricordare ed io l'avevo fatto. L'essenziale è invisibile agli occhi. Forse è davvero così. Forse, quel cambiamento che percepivo senza saper localizzare, era avvenuto dentro me. Effettivamente, mi sentivo più adulta, responsabile, completamente padrona della mia esistenza. I miei giorni da orfanella sembravano così lontani... I ricordi di quella vita, nonostante fossero passati solo pochi giorni da quando l'avevo lasciata definitivamente, erano già sfumati. Che bisogno avevo di conservare nella memoria le umilianti sgridate di Catherine MacLeod, i furti notturni o la degradazione in cui era avvolto quel palazzo di periferia, costruito di nostalgia e dolore? L'unica cosa di cui non volevo cancellare neanche un dettaglio era la mia amicizia con Faith. Un dettaglio a colori che spicca su una foto in bianco e nero. Sentivo tutto il peso della sua assenza. Avevo un buon rapporto con Edna, ma non era la stessa cosa. Con Faith mi ero sempre sentita libera di dimenticare ogni convenzione e far crollare quella maschera che la società si aspetta di vederti indossare. Senza di lei, non ne ero in grado. Era come se alla ricetta perfetta mancasse l'ingrediente segreto. Faith era il mio ingrediente e senza di lei la miscela non aveva sapore.
Con un sospiro, scacciai la malinconia e tornai nella mia stanza. Piegai la camicia da notte e la misi sotto al cuscino, rifeci il mio letto e scesi in cucina, dove feci colazione con Edna. La consumammo con più calma del solito: i Dwight erano fuori città e sarebbero tornati solo l'indomani e Rhys... beh, c'era o non c'era non faceva poi molta differenza.
«Devo andare al mercato oggi. Ti va di accompagnarmi?», mi chiese Edna mentre pulivamo le tazze che avevamo utilizzato.
«C'è da chiederlo?», risposi eccitata.
«Corri ad indossare il tuo abito buono allora! Finisco io qui».
Tornai al piano di sopra e mi chiusi alle spalle la porta della mia stanza. Aprii l'armadio e mi trovai di fronte all'unico vestito degno di nota che possedevo. Era entrato a far parte dei miei averi solo qualche giorno prima, quando la signora Dwight mi era piombata silenziosamente alle spalle, tenendo con entrambe le mani quel tessuto pregiato coperto da un leggero velo trasparente. Aveva sorriso della mia espressione perplessa e porgendomi il vestito aveva detto che apparteneva a lei, ma che da tempo aveva smesso d'indossarlo. "Sicuramente è della tua taglia e preferisco donarlo a te piuttosto che lasciarlo in mani estranee. Abbine cura, mi raccomando. Era di mia sorella". Ringraziandola, avevo preso con delicatezza il vestito color porpora ed ero corsa a provarlo, chiedendomi quando avrei potuto indossarlo. Bene, il momento era arrivato! Volteggiai davanti allo specchio, soddisfatta di come quel colore intenso si abbinasse con la mia pelle bianco perla. Mi poggiai una mantellina di lana nera sulle spalle per sfuggire al solletico del vento e impaziente di percorrere le vie di Londra, imboccai il corridoio diretta alle scale. Ormai conoscevo tanto bene quella casa che non avevo più bisogno di guardare dove andavo. I miei piedi si muovevano quasi da soli, mentre io guardavo in basso per sistemare meglio le pieghe del vestito e pensavo a cosa avrei detto ad Javier quando l'avrei rivisto, alle cose che avrei ammirato in città, ai volti in cui mi sarei imbattuta, a... Mentre ci passavo davanti, "la porta che non si apre mai" si aprii con impeto improvviso, prendendomi quasi in pieno volto. Riuscii a schivarla, ma mi piazzai proprio sulla traiettoria di Rhys, che usciva dalla sua stanzetta traboccante fogli e spartiti con un'energia di cui non l'avrei mai creduto capace. Mi travolse, facendomi quasi cadere, ma anche stavolta riuscii a tenermi in piedi, ritrovandomi con la schiena al muro ed un'espressione incredula dipinta in volto. Ovviamente, il gentiluomo non si fermò per scusarsi e continuò la sua folle corsa verso le scale. Stavo per lasciare che un'esclamazione sarcastica sfuggisse casualmente dalle mie labbra, ma mi fermai quando mi accorsi che lui stesso stava borbottando qualcosa. «Ci sono, ci sono! Stavolta ci sono!». Aggrottai le sopracciglia e rimasi lì impalata a fissarlo mentre scendeva i gradini con la stessa gioia di un animale selvatico rimesso in libertà dopo un lungo periodo di prigionia. A metà della discesa inciampò sui suoi stessi piedi, ma con una manovra da esperto equilibrista riuscì ad evitare la caduta che lo aspettava a braccia aperte. Non riuscii a trattenere una risata soffocata di fronte a quella scena esilerante. Una volta ritrovato del tutto l'equilibrio, si riaggiustò i grandi occhiali dalla montatura nera e quadrata sul naso, si tirò su le maniche arrotolate della camicia e scrollò la testa per scacciare le ciocche dei capelli ormai troppo lunghi che gli erano finite sugli occhi. Si voltò un secondo, mi guardò come se tra me ed i quadri che abitavano il corridoio non ci fosse alcuna differenza, e scese a due a due gli ultimi gradini. Quindi sparì nel salone e pochi minuti dopo, una melodia malinconica e dolce allo stesso tempo riempiva la casa. Dunque era quella, la sua illuminante scoperta. Scesi lentamente le scale, come se il rumore dei miei passi potesse rovinare l'atmosfera che quel bizzarro pianista stava creando. Mi affacciai nella stanza dove stava avendo luogo quel piccolo concerto dedicato a tutti e scritto per nessuno. Era come se quella fosse una soglia impenetrabile. Come se varcandola, avrei spezzato qualcosa. Una forza che non sapevo spiegarmi mi attirava all'interno, mentre un'altra, altrettanto forte, mi teneva inchiodata lì dov'ero. Al limitare del mio mondo, all'inizio del suo.
«E' molto bravo, vero?», mi sussurrò Edna all'orecchio. Mi limitai ad annuire, senza distogliere lo sguardo da quello spettacolo a cui non ero stata invitata. «Su, andiamo ora», disse la mia collega, cercando di ottenere la mia attenzione. Annuii di nuovo e ancora prigioniera di un luogo senza tempo, la seguii come un'ombra verso la porta principale. Un timido vento invernale giocò con le ciocche dei miei capelli sfuggite alla treccia e mi bastò la carezza di un lontano raggio di sole per sentirmi totalmente in pace con me stessa. Le note del compositore di fiabe arrivavano fin lì. Mi voltai a guardare la porta chiusa, immaginando quel ragazzo che dava tutto ciò che aveva da offrire ai tasti di quello strumento che possedeva più cuore di molti noi umani.
«Ellary... muoviti!», disse la voce spazientita di Edna, che aveva già varcato il cancello e mi aspettava sul lato opposto della strada.
«Arrivo», risposi in un sussurro, più a me stessa che a lei.
Lasciai che il vento si portasse via i miei pensieri, che li nascondesse dove un giorno io avrei potuto trovarli. E, magari, quel giorno sarei anche stata in grado di capirli.

• • •

Camminammo in silenzio, entrambe perse in un luogo che l'altra non conosceva o, chissà, di cui magari era assidua frequentatrice.
Spesso, inconsapevolmente, le persone si incontrano nei sogni e nei pensieri. Convinti dell'assurdità di questi ultimi, non abbiamo il coraggio di rivelarli, privandoci così con le nostre stesse mani di una miriade di opportunità.
Che male c'è nel palesarsi di fronte ad una persona e di punto in bianco esclamare: "Mi sembrate una persona interessante, sarei lieta di fare la vostra conoscenza"? A mio modo di vedere, proprio nulla. Eppure persino io, a volte tanto sfacciata ed impulsiva da rischiare di apparire maleducata, non ne ero capace. Più volevo qualcosa, e più mi mancava il coraggio di andarmela a prendere. Era così ad esempio con Rhys. Al momento, non c'era nulla che mi sarebbe piaciuto di più che sapere cos'aveva quel ragazzo nella testa. Avrei voluto scuoterlo per le spalle ed urlargli in faccia di guardarmi. Avrei voluto sollevargli il mento e quello sguardo sempre basso, avrei voluto dirgli di aprire la finestra e respirare a fondo un po' d'aria pulita, di farsi accarezzare la pelle diafana dal calore del sole. Avrei voluto dirgli di guardare i suoi meravigliosi genitori, lui che aveva la fortuna d'averli accanto a sé, e dargli tutto l'amore che meritavano. Avrei voluto dirgli di abbracciare la vita e farne la sua composizione migliore. Avrei voluto dirgli tutto questo e mille altre cose ancora, ma preferivo restarmene ai margini della sua vita. In silenzio.
Perché quel ragazzo passava così spesso tra i miei pensieri?
Avevo conosciuto anche Javier, il quale, a quanto pareva, mi aveva mandato assieme ai fiori un chiaro invito ad approfondire la nostra conoscenza; c'era stato quello strano gioco di sguardi con William Townsend il quasi-dottore, che mi aveva lasciato boccheggiante in cerca d'aria con il cuore che tentava di sfondarmi il petto.
Incontri senza dubbio interessanti. Attenzioni che mi lusingavano. Ma non c'era storia. Quando vedevo Rhys, era come se vedessi un punto interrogativo con le gambe che vagava in cerca di qualcuno tanto abile da saperlo capire. Ero sempre stata un'amante delle sfide e questa era forse una delle più interessanti con cui mi ero confrontata fino ad allora.
Man mano che ci avvicinavamo le voci si facevano più alte, i colori più vivaci, gli odori più intensi. Passammo accanto ai primi banchi: una ragazzina proponeva semplici gioielli fatti a mano per poche monete, un sempliciotto tentava di spacciarsi per gran letterato nella speranza di vendere qualcuno dei suoi libri ingialliti ed un'anziana ingobbita metteva a disposizione la sua abilità di cartomante. Notando che avevo rallentato il passo già rapita da quelle prime offerte, Edna mi tirò per un braccio e mi fece quasi correre. Lanciavo una scusa dopo l'altra, dirette a tutte le persone che urtavo al mio passaggio. Dopo una quindicina di passi, tornai finalmente ad essere una donna libera.
«Benvenuta a Farringdon Road!».
Girai su me stessa guardandomi attorno: sciami di bambini urlanti si rincorrevano sui ciottoli sconnessi della strada, schivando le gambe degli adulti, nascondendosi sotto le gonne delle loro madri impegnate a contrattare il prezzo della verdura; i commercianti chiamavano a gran voce i compratori, decantando la qualità della propria merce ed i prezzi convenienti; uomini eleganti passeggiavano fumando la pipa, con le loro signore sottobraccio; un ragazzo con il volto truccato di bianco intratteneva i passanti mimando scene esileranti, probabilmente per il semplice piacere di strappare un sorriso al prossimo; una giovane donna seduta su una cassa da frutta all'angolo della strada studiava qualcosa di fronte a sé, cercando di riprodurlo sul blocco di fogli bianchi che teneva in mano.
Lo so, non c'è nulla di magico in tutto questo, ma la mia era un'anima sognatrice. La mia immaginazione non ha bisogno di nulla per partire al galoppo. Guardavo tutte quelle persone intorno a me e mi chiedevo chi fossero, dove andassero, se erano innamorate, se erano felici, se avevano un sogno, se quel sogno l'avessero realizzato, se preferivano il tè o il caffè, se sentivano freddo oppure se tutto quel calore umano bastasse a scaldarli. Un ragazzo a cui davo circa venticinque anni stava comprando un mazzo di rose rosse, ma notai che al centro ce n'era una bianca. Sei l'unica fra tante. Chissà a chi erano destinate... Chissà se si amavano già o se sarebbe stata una rivelazione. Camminavo cerando di tenere d'occhio Edna e seguirla nella folla, ma nel frattempo continuavo a posare lo sguardo ovunque riuscivo. Scrutavo i volti delle persone ed osservavo le loro scelte, fantasticavo sull'esistenza di quegli sconosciuti consapevole che quelle storie mi avrebbero fatto compagnia quando mi sarei sentita troppo sola. Mi piaceva definirmi una collezionista. Sì, ero decisamente una collezionista. Una collezionista di persone, di volti, di frasi, di emozioni, di profumi, di pensieri. Tante piccole collezioni private contenute dentro una grande scatola talmente colorata da risultare psichedelica. Sopra, un'etichetta con quattro lettere scritte in grassetto: vita. Chiunque poteva aprirla e saltarci dentro, ma una volta fatto il salto non c'era modo di tornare indietro. Ogni episodio, anche quelli che in un primo momento ci sembrano del tutto insignificanti, hanno un'influenza su di noi. O più precisamente, su quelli che saremo. Probabilmente, se non avessi visto con quanta facilità e con quanto poco preavviso ci viene portata via, non sarei stata in grado di amare tanto la vita. Quando ero persa in quel tipo di pensieri mi sembrava di essere invisibile e al contrario di quel che si potrebbe pensare, non è affatto una sensazione sgradevole. Il brutto è quando ti senti invisibile perché gli altri ti ignorano, ma quella di cui sto parlando io è una cosa completamente diversa. Ci sono momenti in cui mi sento invisibile perché sono io a volerlo. E' come se mi trovassi racchiusa in una gigantesca bolla di sapone. I suoni mi giungono ovattati e mi sento come separata da tutto ciò che mi circonda. Posso vedere e sentire le persone, senza che loro percepiscano me. Forse è un po' come essere in trance. Chi mi incrocia in quei momenti, non passa accanto a me, ma solamente al mio corpo. Vuoto. Leggero. Il veicolo di cui la mia anima si serve per fare un giro turistico tra storie che non mi appartengono. Mentre camminavo a passo svelto senza la più pallida idea di dove ci stessimo dirigendo con tanta determinazione, sorridevo agli occhi che incontravo. Perché ero felice. Felice di essere qui, adesso. Felice di essere quella che sono. Orgogliosa del mio cuore pieno di ferite, ma nonostante tutto ancora capace di amare. Felice. Una bambina che mi arrivava a malapena al ginocchio porse alla sua mamma un mazzo di fiori selvatici e lei, per ringraziarla, le diede un bacio affettuoso su una guancia paffuta. Felice. Una coppia di anziani camminava ai margini della strada, tenendosi fuori dalla folla. Le loro mani, segnate dal tempo, erano saldamente unite. Felice.
Quel giorno splendeva il sole.
Edna deviò di colpo a sinistra e si fermò poco più in là, dinanzi ad un banco di frutta. Era talmente bella e fresca che sembrava uscita da un quadro.
Salve, bentornata sulla Terra, Ellary.
«Visto che bella?» mi chiese Edna sorridendo orgogliosa, come se fosse lei la proprietaria del banco.
«Ma siamo sicure che è vera?» scherzai.
«Quant'è vero Iddio» rispose lei solennemente.
Arrivò il nostro turno e lasciai che fosse lei a dare istruzioni alla commerciante su cosa mettere nei sacchetti. Anche perché io ci avrei fatto mettere davvero un po' di tutto.
«E quindi... si potrebbe sapere da chi arrivano quei fiori?» mi domandò improvvisamente mentre la fruttivendola era occupata a fare i conti.
Mi aveva colto alla sprovvista. E non ero molto brava a mascherare l'imbarazzo. In men che non si dica sentii le mie guance tingersi di rosso e prima di parlare aprii bocca a vuoto un paio di volte.
«Sul biglietto non c'era il nome del mittente».
«Ma non pioveranno mica dal nulla... avanti, non sono nata ieri! Almeno un'idea devi pure averla».
«L'unico che potrebbe averle mandate è Javier...».
«Ne siete proprio sicura?» disse una voce alla mia destra, il lato cui davo le spalle. Quella voce mi era familiare. Vidi Edna sgranare gli occhi e trattenere un sorriso. Mi voltai lentamente. Cappotto elegante addosso, capelli castani ordinatamente pettinati, brillanti occhi azzurri e sorriso divertito. William Townsend si rigirava una delle mele rosse da dipinto tra le mani, poi si voltò verso di me dando il primo morso. Masticando, continuava a sorridere.
Nel frattempo, io avevo dimenticato chi ero, dov'ero, perché mi trovavo lì e soprattutto cosa dovevo dire. Perché qualcosa dovevo dire.
Quindi le rose le aveva mandate lui.
Non Javier l'intrepido spagnolo.
Le aveva mandate William occhi-di-ghiaccio-quasi-dottore.
Bene.
Svegliati Ellary, dì qualcosa!
Stava passando troppo tempo ed io continuavo a guardarlo con gli occhi sgranati per la sorpresa e la bocca semi aperta.
«Erano davvero belle. Le rose, intendo. Davvero un gran bel mazzo».
A quel punto, non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata.
Volsi lo sguardo verso Edna, in cerca di aiuto, ma la trovai impegnata a trattenere le risate. Beh, almeno si stavano divertendo.
«Sono felice che vi siano piaciute» disse William, cominciando a riprendersi.
Edna pagò la frutta e la donna le passò i sacchetti da sopra il banco. Grazie al cielo, tutto quell'imbarazzo stava per finire. Noi dovevamo proseguire ora.
«Magari vi sembrerò un gran cafone ma... beh pazienza. Ho tutto il giorno libero e sinceramente non so che farmene. Vi andrebbe un giro in mia compagnia?»
Come non detto.
  
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