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Autore: melk    24/04/2015    0 recensioni
[Boheme]
1830. Rodolphe, Marcel, Schaunard e Colline vivono le loro pazze avventure da artisti squattrinati nelle pagine di Murger che Puccini usera' come base per la sua Boheme.
2015 Rodolfo, Marcello, Alessandro e Lawrence vivono le loro pazze avventure in una Bologna dove la vita da artisti squattrinati e' dura.
Genere: Comico, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Triangolo
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  1. Lawrence, Marcello, Alessandro, Rodolfo
 
Lawrence Gustav Hills, londinese, si era portato dietro dalla sua terra natale un cappotto dal quale mai, così diceva, si sarebbe separato. L’aveva cucito sua auntie Sandra, era in eco pelle, il primo cappotto in eco pelle nel quale non era morto di freddo. Era scuro, con gli alamari, due erano saltati. Gli faceva una gran figura addosso. La madre aveva tentato di dissuaderlo dal portarlo con sé in Italia, oh come on, it’s always sunny down there isn’t it ? gli aveva detto, è il paese del sole, che te ne fai, prende solo spazio in valigia.
Invece, aveva fatto bene a non separarsene ancora una volta. Gli inverni padani, per quanto Bologna sia a ridosso degli Appennini, si erano dimostrati umidi, di quell’umido fastidioso e penetrante per cui c’e’ bisogno di coprirsi bene.
E l’amore di Lawrence per quel cappotto era aumentato esponenzialmente quando aveva scoperto che era abbastanza lungo da poter diventare all’occorrenza una copertina, un sacco a pelo senza sacco, le volte che rimaneva a dormire da amici in giro. “Posso dormire anche sul divano”, diceva, “tanto mi copro con questo” e l’accento e il tono orgoglioso col quale si vantava del proprio cappotto lo facevano risultare buffo a chi lo conosceva bene e vanaglorioso (“quell’inglesino pedante”) a chi lo vedeva per la prima volta. Mentre se lo calcava addosso però, ogni accenno di vanagloria spariva: dalle tasche cadevano appunti, foglietti, biglietti di cinema, di treno, tappi di birra, piccole matite IKEA. “È un cappotto da filosofo” avrebbe bofonchiato allora ridacchiando come per giustificarsi di fronte a chi soffocava una risatina.
In alcuni momenti quell’inverno, il cappotto gli fece anche da vestaglia. Lawrence lo trascinava avanti e indietro per quel piccolo appartamento di via Paolo Fabbri insieme a una sciarpa lunga e nera calata su occhi, bocca e orecchie e a un paio di guanti a cui erano state tagliate le dita a metà perché ci si potesse scrivere. Questa vestizione era dovuta al fatto che, vista la generale assenza di liquidi di tutti e quattro i coinquilini, fu deciso che i tre mesi invernali sarebbero stati all’insegna dell’austerity sul gas. Dopo aver scelto la tariffa più bassa senza taglia, le istruzioni furono di usarlo poco e aprire le finestre una sola volta al giorno: Lawrence, Marcello, Alessandro e Rodolfo si erano trovati perfettamente d’accordo su questo punto. I soldi, quei pochi soldi che c’erano, li avrebbero spesi in altro. Il fatto che i vani abitabili puzzassero come una discarica era secondario.
Di tutte le città dello Stivale disponibili, Lawrence aveva scelto Bologna, una di quelle, a differenza di Firenze o Roma, per cui lo “oooh” di stupore degli ammiratori esteri non sussiste. Al limite, qualche intellettuale bofonchia: “Ah, la più antica università al mondo”, poi la cosa finisce lì. In effetti, inizialmente anche Lawrence avrebbe preferito Firenze. Tre anni prima però aveva scoperto che la propria università e quella del capoluogo toscano non erano convenzionate. Come spesso accade negli amori nati per caso, Bologna aveva saputo farsi volere bene e gli era rimasta nel cuore.
In seguito Lawrence era tornato in Inghilterra, aveva finito l’università, era stato cinque mesi a cercare lavoro a Londra poi, incurante del fatto che la maggior parte degli italiani glossasse questo aneddoto con la frase: “non era meglio rimanere là?” (frase che lo faceva imbestialire come poche cose), era voluto tornare. A dire la verità, essendo madrelingua inglese, non era mai veramente rimasto senza lavoro: insegnava, collaborava col British Institute, campava degnamente, pagava i contributi a un’assicurazione sulla vita (privata) e nel frattempo lavorava al suo grande romanzo. Non aveva tempo da regalare a nessuno. “Il tempo sprecato è un delitto”, diceva, “Ogni minuto sprecato si moltiplica esponenzialmente nel nostro destino” e nessuno lo capiva. Ma nella sua mente persa fra i meandri delle teorie che più lo convincevano, Lawrence era consapevole dell’importanza del viaggio della vita e non l’avrebbe piegato a nessuna logica. Ecco perché aveva preferito trasferirsi in un paese dove, per quanto la disoccupazione aveva cambiato radicalmente le cose, per educazione si lavora per vivere non si vive per il lavoro. Non gli importava di lavorare poco o di guadagnare poco, una delle sue poche certezze era che non si sarebbe ucciso sgobbando da mattina a sera per un’anonima impresa a mero fine di sopravvivere e pagare l’affitto. C’aveva provato a fare un lavoro qualsiasi a Londra, ma mille e settecento pounds al mese gli sparivano dal portafoglio a una velocità tale che pareva che le banconote avessero le gambe. E la fatica e lo stress non le ripagavano.
E poi non avrebbe rinunciato alla bohème bolognese per niente al mondo.
È vero, di bolognesi ne aveva incontrati tanti ed erano tutti concordi sul fatto che la città non stesse passando un momento particolarmente glorioso. In pochi erano veramente contenti. Da esterno però, Lawrence non poteva fare a meno di notare alcune cose, alcune grandi contraddizioni. La più evidente era costituita dalla popolazione al di sopra dei cinquanta anni, liberali o cattolici che fossero. Tutti rimpiangevano, ma nessuno, o pochi avevano abbastanza coscienza da aprire gli occhi e aggiornarsi su quella che era l’attuale bohème, l’attuale fermento artistico, l’attuale sottobosco che in una città universitaria così importante non si era mai fermato. Rodolfo, l’unico discretamente autoctono dei coinquilini (era romagnolo), diceva spesso che Bologna è: “Una città sfigata nella quale tutti rimpiangono la bohème, ma al contempo la combattono”. Tutti i torti non li aveva.
Eppure, nonostante l’altra contraddizione grande espandibile a tutta Italia (cioè il dimostrare amore per la propria terra bistrattandola, rovinandola, depredandola o parlandone male o sognando evasione invece di lavorare attivamente per cambiare le cose), una cosa simile all’underground bolognese Lawrence non l’aveva trovata da nessun’altra parte. Non c’era niente di così genuino a Londra, dove tutto era mosso dai soldi, l’indipendente low cost era una specie di miraggio- e in confronto a Londra neanche il costo della vita generalmente più basso peraltro era male. In effetti lo stato italiano non aiutava gli artisti a vivere degnamente, cosa che rendeva l’underground creativo del capoluogo emiliano una cosa quasi miracolosa e autenticamente bohemiènne. Avrebbe forse avuto più senso trasferirsi a Berlino, forse l’unica vera capitale artistica d’Europa, l’unica capitale dov’era possibile fare arte e basta, senza aggiungerci altri mille lavori, in primis per mantenersi la città stessa. Ma un miracoloso focolaio di gente spinta solo da passione in una nazione che sembra aver dimenticato la propria millenaria cultura rappresenta una sfida. Era questo che interessava a Lawrence.
Per essere più fedele possibile a questa filosofia di vita, Lawrence aveva cercato (e trovato) casa in Cirenaica, il quartiere tra S. Donato e la Massarenti, famoso per l’osteria dei cantautori e per la casa di Francesco Guccini (si era fatto una cultura sulla musica italiana da conoscere). I suoi coinquilini erano un videoblogger, un barista-pittore, un musicista.
Anche la Cirenaica era cambiata in confronto ai decenni passati. Si era arricchita di palazzoni che impedivano all’aria di circolare e ostruivano la vista del tramonto sulle due torri. Ma ogni martedì al centro sociale VAG c’era il mercato biologico: produttori di ortaggi e prodotti alimentari vendevano direttamente al consumatore a prezzi stracciati. Per cui, in un contesto di struttura occupata, era curioso e divertente vedersi muovere le mamme e le nonne, le cosiddette persone per bene. I versi della canzone di Guccini su via Paolo Fabbri erano stati da tempo disegnati sulle serrande di alcuni negozi: quando la sera erano tutte abbassate si poteva improvvisare su di esse un piccolo karaoke.
Un secolo fa probabilmente Lawrence sarebbe stato definito un flaneur, fuori casa si sentiva ovunque e comunque a casa, vedeva il mondo, era al centro del mondo e tuttavia rimaneva nascosto al mondo. Che fosse autunno, inverno, primavera o estate, amava fare lunghe passeggiate, spesso di notte, dopo essere uscito con gli amici. O di pomeriggio nei cimiteri. La primavera, stagione in cui la Madonna di S. Luca scendeva a valle a fare una visita ai propri protetti, rendeva Bologna sonnacchiosa e fremente, frenesia che si dilatava fino a luglio, il mese più bello, il mese dei concerti, del cinema, del teatro gratuito. Lawrence amava il tipo di cinema che proiettavano d’estate, così differente da quello di tutte le altre città (salvo le rassegne estive della BFI): quell’estate aveva visto capolavori che da sempre sognava di vedere sul grande schermo (tipo Shanghai Express), qualche perla del cinema italiano anni ’60 che non conosceva, e tanto cinema muto. La programmazione gli ricordava un luogo che aveva amato tanto in alcune settimane passate a Parigi a trovare alcuni amici: un piccolo cinema minuscolo nel quartiere latino in rue Christine, dove ogni domenica c’era una fila immensa per entrare, poiché i prodotti erano sempre, sempre garanzia di qualità. Per quanto l’atmosfera del cinema Action Christine - a pochi passi peraltro dalla celeberrima Libreria Shakespeare, citata da tutti i film intellettuali su Parigi compreso Julia&Julie e Midnight in Paris e un must per gli aspiranti scrittori anglofoni a Parigi- fosse irripetibile, Lawrence doveva ammetterlo, il vantaggio delle rassegne bolognesi era l’assenza di biglietto.
L’autunno tornavano gli studenti, iniziava quella violenta caccia all’uomo chiamata housing, incubo dal quale lui era fortunatamente salvo. E poi tornava la nebbia. Si tornava a nascondersi nei locali, nel calore dei pubs o a ballare. Il locale preferito di Lawrence era un Irish pub vicino a Piazza Maggiore, la piazza che i non bolognesi a causa di Lucio Dalla, si ostinano a chiamare Piazza Grande. Spesse volte, uscito da là, aveva fatto il giro largo per osservare la facciata di S. Petronio baciata dalle mille goccioline di nebbia scese dal cielo. Sarebbe rimasto là per qualche minuto, senza ombrello, a bocca aperta come un bambino, riparato solo dal suo bellissimo cappotto.
 
Marcello Tabarini aveva un brivido lungo la schiena ogni volta che, lasciato il bar dove lavorava, camminando per via Saragozza, scorgeva all’imbocco di via del Riccio la casa della defunta Francesca Alinovi. “Se tu mi leggi ora”, pensava, “e io sono morta, ricorda che io non volevo morire, ricorda che io avrei voluto essere immortale, che, anche faticosamente, avrei retto il peso dei miei anni e la fatica di vivere stretta in un corpo malato”.
La storia della giovane docente universitaria accoltellata senza pietà gli era stata raccontata da alcuni amici una volta che gli aveva comunicato che sarebbe andato a Bologna a fare l’Accademia di Belle Arti. Il fine era ovviamente spaventarlo, e in un certo senso c’erano riusciti. Lo avevano anche bello che incuriosito. Lo impauriva più di ogni altra cosa la strettoia di via del Riccio la notte. Lo aveva invece affascinato la storia in sé, difatti non era rimasto in Veneto. In effetti la vicenda della sfortunata Francesca lo aveva proprio stregato. Una notte, assieme ai suoi primi coinquilini, avevano deciso di guardarsi un documentario sull’accaduto firmato Carlo Lucarelli, poi di uscire e arrivare a piedi in via del Riccio, di fronte al luogo del delitto. Erano all’incirca le due di notte. Saragozza non era deserta, ma l’imbocco di quella viuzza nella notte strinse l’animo a tutti: senza preventivarlo, due di loro si misero a cantare “Città Vuota” di Mina a squarciagola per darsi coraggio, incuranti dell’ora. Sono notti queste che non si dimenticano.
 E in effetti, Marcello aveva anche sperato di incappare in Accademia in qualche docente ispirato come la buonanima dell’Alinovi. Ma di stimoli ne aveva trovati di più fuori da scuola, nelle piccole gallerie indipendenti, nelle associazioni culturali che a Bologna pullulavano come funghi. Tuttavia, passando da quella casetta in quella viuzza stretta stretta dove anni prima si era sparso molto sangue (col quale si erano fatte scritte sgrammaticate in inglese), ogni volta Marcello sperava in un influsso benefico. Anche se dopo aver finito l’accademia, aveva iniziato a fare il barista part time, non aveva mai lasciato l’arte. Aveva tutta una serie di ossessioni che rappresentava con vari mezzi: la macchina fotografica, il video, la scultura, l’objet trouvé, la performance.
Una di queste ossessioni era il tema della nostalgia. Nonostante fosse un ragazzone di un metro e novanta con mascella squadrata, Marcello aveva un cuore sensibile e un intuito indagatore. Dopo un tentativo di emigrazione all’estero andato male, per il quale aveva giurato che mai più avrebbe emigrato (ne aveva parlato spesso con Lawrence, il cui percorso era stato l’opposto ma comunque diverso dalle credenze e le tendenze popolari dell’italiano medio), aveva come reazione sviluppato una certa nostalgia per il proprio paese, Vicenza. La cosa strana è che in cuor suo sapeva di aver messo radici a Bologna e di non voler tornare in Veneto per niente al mondo. Aveva indagato questa sensazione di saudade attraverso l’architettura dominante vicentina, quella palladiana, e tramite l’estetica di Palladio, aveva creato delle istallazioni abbastanza emotigene, che gli erano valse molti premi.
Ovviamente gli avevano dato del raccomandato. Il guaio di questo paese è che se uno è onestamente bravo se ne diffida.
Quanto alla pittura, era un mezzo che aveva tentato di esplorare più volte ma non riusciva a capirne a pieno le potenzialità espressive quando si passava dall’osservazione alla creazione. Tralasciando completamente l’aspetto figurativo, provava geometrie per quadri di una nuova avanguardia- la sua, ma non lo soddisfaceva niente. A detta del coinquilino filosofo le cose più belle scaturite dal pennello – che Marcel malediva in continuazione- erano quelle la cui artificiosa architettura era sovrastata da segni neri nervosi dati a mo’ di cancellatura. Ecco, solo in quelle discussioni Marcel difendeva le sue opere pittoriche. Erano ancora molto ingenue, vero, però c’era qualcosa di originale, un’originalità che gli veniva paradossalmente dalla condizione stereotipata di essere un “morto per sogni davanti a S. Petronio”, come quelli della canzone di Guccini. Sosteneva il punto con dignità, per quanto Lawrence gli scoppiava regolarmente a ridere in faccia per via dell’esagerata affermazione. Dentro di sé però il filosofo concordava su una cosa: solo gli ignavi affermano senza provare sensi di colpa che sognare non costa niente. I sogni invece possono uccidere. O comunque ridurre un essere umano a una larva.
L’anno che giunse a Bologna, Marcello era il classico bravo ragazzo veneto di provincia. All’inizio non era stato semplice. Abituarsi al Cassero, ad Atlantide, al mercato nero delle bici o anche solo a gente che diceva di andare a fare la spesa al mercato biologico al VAG o a XM. Anche adesso, dopo cinque anni, lo shock non era stato assimilato del tutto. Viveva la contraddizione di essere rimasto in sostanza il Marcelon vicentino, che al suo interno conviveva con l’artista bolognese, ex-fidanzato della signorina che, al sexy shop Erotic Dream, impartiva alle donne lezioni di fellatio.
E prima della suddetta professione, Patrizia Sommovigo in arte Jacqueline, aveva lavorato come spogliarellista al Carosello di Casalecchio di Reno.
Si erano incontrati sul posto di lavoro di lei, la sera del compleanno di un collega di Marcello- alcuni amici comuni avevano insistito per lo strip club, Marcello era ovviamente contrario, si era opposto, aveva raccontato la storia ai propri coinquilini i quali l’avevano esortato ad andare e a comunicare agli organizzatori che ci sarebbero stati anche tre suoi amici imbucati- li avrebbe portati Rodolfo, era il periodo in cui la madre gli aveva lasciato la vecchia Panda. Per quanto a Alessandro le donne non interessassero, la riteneva un’esperienza formativa.
Marcello fu parzialmente sollevato dalla presenza dei propri coinquilini, tuttavia entrò facendo il duro e lo scocciato. Non riuscì a mantenere la posa a lungo però, proprio grazie ai suoi amici - meno Rodolfo che, disgustato, fu il primo a uscire passando la serata in un baretto vicino e lamentandosi per giorni e giorni per i soldi spesi al vento. Schaunard e Lawrence invece, distinguendosi da tutti gli altri, si erano lanciati immediatamente in una sarcastica discussione (in francese) sull’unico capo di abbigliamento rimasto addosso alle tipe.
“Secondo te se le toglie le scarpe? No perché quel modello di zatterone avrebbe fatto schifo anche a Scary Spice”
“Potresti lasciare la musica e diventare stilista per strippers, che dici?”
“Una condizione esistenziale interessante quella dello stilista per donne che tengono i propri vestiti solo per qualche secondo…piedi orribili peraltro”.
 Sarà che sono stranieri…Per loro è proprio un locale come un altro, pensò Marcello guardando il filosofo e il musicista. Ma sì, prendiamola con ironia.
E a quel punto si decise a guardare. Guardò una sola volta e fu fatale.
Pietrificato nel buio, si ritrovò a fissare una spogliarellista, incantato. Era rossa di capelli, occhi verdi, nuda, con due stelle verdi sui seni, a lato della biondina con le scarpe brutte. Volteggiava nell’aria strusciandosi al palo imitando l’atto sessuale e suscitando la curiosità dei presenti, ma per Marcello era come se le carni al vento non esistessero. Un pittore è abituato a badare alla sostanza delle cose.
Per un attimo anche lei parve guardarlo. Anzi, lo stava decisamente fissando ammiccante. Flirtare con una spogliarellista era la cosa più spudorata che mai Marcello avesse fatto, così spudorata che il malizioso Alessandro Schaunard insinuò che l’amico si fosse innamorato. No, no, negò Marcel con poco vigore. Nel frattempo nei suoi sogni, gli pareva che quella spogliarellista fosse la ballerina primordiale, quella che aveva messo ordine nel Caos con le sue mosse sublimi. Si erano accorti tutti di come la stesse guardando. Lei stessa se n’era accorta. Ma non gliela voleva dar vinta, civettava con un cinquantenne dal pessimo gusto nel vestire del tavolo di fronte, gli si offriva senza contatto, ma intanto lanciava brevi sguardi al pittore che li coglieva uno a uno.
Lo spogliarello di quella sera fu per lui un dolce valse musette.
 
Per tre giorni si chiese, si può pensare così intensamente a una donna che mette in mostra il proprio corpo ogni sera? L’unica maniera per scoprirlo, si disse, sarebbe stata rivederla. Con una scusa si fece prestare la Panda da Rodolfo. Tornò allo strip club. Si vergognava come un ladro a entrate in quel posto da solo: vide lo spettacolo, poi si recò nel camerino. Jacqueline, doveva cercare Jacqueline. Ricordava il nome perché la volta precedente, nell’informarsi, Alessandro era scoppiato a ridere dicendo che “Jacqueline” è un nome che tutti considerano sexy al di fuori di Francia e Belgio (forse per la Kennedy) ma nei paesi francofoni è considerato da nonna, “Come se una spogliarellista si chiamasse Giovacchina”.
Dopo aver chiesto a una senior professionista con un sacco di rughe, trovò Jacqueline raccolta del suo spolverino, fuori nella nebbia umida, a fumare.
“Che bello, un ammiratore, non se ne vedono mai!” esclamò con un’aria vagamente ironica che Marcello non colse. Il pittore le fece tante domande: da dove venisse, da quanto tempo era a Bologna, perché facesse quel mestiere.  
“Secondo te perché, sentiamo”
“Per i soldi?”
“Beh mettiamola così”, disse lei, “è un campo in cui non c’è mai troppa concorrenza e io sono abituata a fare qualche sacrificio”
Marcello si sentiva poco a suo agio e tuttavia trattenuto da una forza oscura, un po’ come Cesare Pavese ad aspettare Milly nella pioggia.
“E tu”, disse lei sorridendo, “sei tornato in questo locale per me?”
“Ma come”, disse lui, “ti ricordi di me?”
“Certo che mi ricordo, uno come te non si scorda”, disse lei, “Eri assieme a vari amici, a un tavolo con due che non la smettevano di chiacchierare, si notano certe cose…in uno strip club”, cambiò voce, “e ho notato te perché non sembravi il tipo da trovarti troppo a tuo agio in tutte queste… luci rosse”.
“Il rosso forse mi imbarazza, ma il verde dei tuoi occhi è bello” disse piano Marcello la prima stronzata che gli venne in mente. Jacqueline rise forte.
 “Forse sei l’unico che mentre lavoro mi nota il colore degli occhi”
 “Sono un artista”, rispose lui, “Ci lavoro coi colori, Jacqueline”
“Patrizia”, disse lei, “Chiamami pure Pat”.
 
Uscirono insieme, era il giorno libero di Marcel, la portò all’Irish pub vicino al Petronio, bevvero, risero. E fu così che la prorompente ligure divenne la sua ragazza. E il walzer divenne tango. Litigavano continuamente. Un bravo ragazzo di provincia non si dovrebbe innamorare di una spogliarellista esperta di lap dance. Per un certo periodo Patrizia gli forniva i biglietti per entrare gratis a vederla, ma ogni sera litigavano perché si era strusciata con questo o quel cliente. Patrizia ribatteva che quello era il suo mestiere, che quando ci siamo messi insieme, caro Marcello sapevi a cosa saresti andato incontro. Quindi smise di procurargli i biglietti col dire che occhio non vede e cuore non duole.
La gelosia di Marcello le dava fastidio e la divertiva. Patrizia era una ribelle, una a cui piaceva tirare la corda. E le piaceva Marcello in collera, tirava fuori quella personalità che non mostrava mai per la timidezza tipica dei provinciali spersi in città. Tuttavia le sue continue battutine e insinuazioni erano diventate insopportabili. Lui la obbligò a cambiare lavoro. Approfittando di alcune innovazioni nel campo dell’erotico dunque Patrizia si dette all’insegnamento, i corsi di fellatio tenuti dall’Erotic Boutique andarono a ruba. Ma per quanto insegnasse a un pubblico prettamente femminile e omosessuale, dunque scevro da tentazioni, neanche questo ultimo impiego era gradito a Marcello. E così, dopo due mesi di rapporto, Patrizia si stufò: avrebbe dovuto lasciarlo, flirtare un po’ in giro e farlo riflettere sui suoi peccati- avrebbe capito e sarebbe tornato, lei lo sapeva, l’amava troppo. E la cosa era discretamente reciproca.
Ma doveva abituarsi all’idea. Patrizia Sommovigo in arte Jacqueline era abituata a passare per via Rizzoli ed essere guardata da tutti.
 
 
Alessandro Schaunard tentava di vivere a cuor leggero dopo che ne aveva passate di cotte e di crude. La propria fortuna grande, forse la sola cosa andata dritta nella sua vita, era di essere trilingue (tre di nascita, più l’inglese).
Era nato in Valle d’Aosta a confine con la Francia da padre svizzero tedesco. Schaunard senior, era stato un elvetico piuttosto anomalo. Musicista professionista, era rimasto in Svizzera “solo perché si lavora meglio” ma non l’aveva mai amata. A lungo e invano aveva sognato di trasferirsi a Napoli, città da dove proveniva Caterina Caserta, sua moglie, figlia di emigrati. Amava la musica partenopea e parlava la lingua della moglie con un buffissimo accento che la faceva ridere. Avendo continuato a lavorare in Svizzera a lungo, la decisione finale fu trasferirsi in Italia, a confine, a Valtournenche, una cittadina in mezzo a verdi monti e laghetti incontaminati in Valle d’Aosta. E lì gli Schaunard (padre, madre e tre fratelli) piantarono radici finché un bel giorno uno sforzo eccessivo al cuore non si portò via il padre di Alessandro.
Orfano di padre e sempre più consapevole di una forte omosessualità ogni giorno più palese, Alessandro Schaunard non ebbe un’adolescenza facile. Non che ad Aosta mancassero luoghi LGBT, ma la consapevolezza adolescenziale aveva innestato in lui una certa timidezza e un timore che poco si addicevano a quel tipo di locale.
E così quando decise che avrebbe seguito le orme paterne, non lo fece fino in fondo e lasciò perdere la Svizzera. Aveva bisogno fisico di lasciare per un po’ la propria famiglia e cercare se stesso. Sapeva quanto fosse dura per i musicisti in Italia ma non gli importava. Sapeva anche che non erano ancora consentiti alcuni diritti agli omosessuali, le unioni civili per esempio, ma non gli importava. Se c’era da lasciare Aosta, si sarebbe recato nella città italiana più gay friendly, non in Svizzera, odiava il modo in cui gli svizzeri si vantano della propria nazione. Era forse uno dei pochi a vergognarsene. Si vergognava di tante cose, dall’essere Banca d’Europa e centro dei loschi affari del vecchio mondo, al fatto che fosse legale sparare ai gatti randagi per strada. Quanto ai diritti civili, avrebbe lottato per quelli italiani. Anche se, personalmente, aveva le idee molto chiare a proposito del matrimonio.
“Ora, sei in una coppia, no”, diceva, “e magari c’è amore. Si decide di sposarsi, ok. I due sposini pensano ‘sarà tutto semplice, una cosa tranquilla fra amici’. Ahe, Illusi. Poi arriva la madre di uno dei due e dice: ‘ma non puoi scordarti il ramo siciliano della famiglia’, la mamma dell’altro che aggiunge: ‘Siete due uomini? E come vi vestite?’ mentre le due sorelle si accapigliano in un angolo e la nonna, col crocifisso appuntato al golfino, scuote la testa in segno di disapprovazione. Credetemi, l’unica ragione pratica per cui sposarsi è per la chiarezza testamentaria, l’assistenza in ospedale e l’adozione. Se non volete figli, avete la famiglia viva, in modo tale da avere eredi diretti, e prevedete di non sfasciarvi nell’immediato presente, lasciate perdere: i matrimoni non sono che un gran litigio collettivo per abiti bianchi immotivati”.
Un’altra delle frasi che amava ripetere era “Sient’a mme, l’amore triste è da pazzi”.  Rodolfo, l’eterno fidanzato del gruppo (salvo all’epoca dei fatti che verranno narrati), generalmente ribatteva sottovoce che non gli sarebbe dispiaciuto sposarsi, per il gusto di sposarsi. “…con una donna di queste perfette, morali, mogli ideali, madri perfette, una che l’abito bianco lo merita, eh…”, finiva la frase Schaunard, “è tipico dei poeti, idealizzano troppo le cose”.
Lawrence invece spalleggiava Schaunard e generalmente su questo argomento gli dava ragione, è giusto che ci sia il diritto e la possibilità di sposarsi, ma quanto all’atto pratico io non lo farei, diceva riguardo al matrimonio. In quei mesi di convivenza, anche a causa del fatto che Lawrence parlava francese e, a differenza dei connazionali convinti che al mondo basti l’inglese per tutto, desiderava fortemente parlarlo meglio, erano diventati grandi amici con Schaunard. Lawrence non faceva molto caso agli orientamenti sessuali. Si definiva “cross gender”, una donna in corpo di uomo attratta da donne. E quanto al sesso, si sentiva abbastanza al di sopra di esso, felicemente libero da ogni condizionamento. Aveva avuto storie con donne, certo, ma non aveva l’ormone impazzito, nel suo sviluppo adolescenziale non si era mai tramutato in maschio alpha e ringraziava il cielo di non averlo fatto.
E comunque non era il tipo di Schaunard. L’aveva detto mille volte, il musicista preferiva tipi meno complicati, più trasgressivi “Voi bilancini siete bellini, ma vuoi mettere uno scorpione!”
“Ehi, Darling”, gli rispondeva Lawrence ferito nell’orgoglio, “Ti ricordo Marcello Mastroianni, Michael Douglas, Oscar Wilde, Elio Germano…”
“…Julio Iglesias, Berlusconi!” ribatteva pronto Schaunard.
La fissazione con l’oroscopo, il parlare di astrologia come se fosse la cosa più naturale del mondo, era un’abitudine che i quattro avevano trovato solo nel mondo bohemien bolognese. Anzi spesso gli usciva un “Vabè ma tu sei leone”, “Piano, ariete, prima di sparare chiedi permesso!” nelle loro terre natali coi vecchi amici, che li guardavano come fossero alieni o si facevano spiegare- e alla spiegazione seguiva lo stupore per tanta erudizione- o risate derisorie.
Un’altra delle uscite di Schaunard che descriveva la sua vita sentimentale e sessuale era: “Di voi quattro L’unico non contemplativo sono io”
“Ma come! Io ho passato tre relazioni di merda!” rispondeva Rodolfo
“Tu sei piccolo, non conti” ribatteva Schaunard.
E comunque, Lawrence non sarà stato trasgressivo ma si prestava spesso al suo gioco. Ogni tanto, quando entrambi si sentivano di dare spettacolo, uscivano per via Zamboni a braccetto, Schaunard vestito da donna, coi capelli sciolti e un vestito nero a tubino che gli risaltava i fianchi. E la barba ovviamente.
“Conchita non ha proprio inventato niente cari”, diceva.
E si recavano nei luoghi dove la Bologna bene sborsa soldi per divertirsi, mentre genitori e nonni fuori denigrano ogni tipo di aggregazione culturale rumorosa. Lawrence si divertiva a guardare le ragazzine piastratissime e i fighetti vestiti Abercrombie e Fintch voltarsi shockati. Schaunard generalmente si voltava e, col suo accento francese migliore, rispondeva facendo l’occhiolino:
“Donna barbuta, sempre piaciuta!”
Una volta soddisfatti, i due amici si avviavano verso il Reds o verso il Cassero, sentendosi come se avessero portato a termine un’importante missione di ampliamento di orizzonti della bigotta borghesia cattolica.
 
Schaunard senior suonava il piano. Schaunard junior invece era diplomato in fagotto. E lavorava, essendo un ruolo ricoperto da pochi fra Emilia e Toscana. Il pianoforte però lo sapeva comunque suonare bene, aveva dato alcuni esami e si manteneva difatti collaborando con una scuola di musica privata. In effetti, nonostante tutte le difficoltà, la vita gli era anche andata bene rispetto a colleghi vittime di esercenti a loro volta vittime di tasse e tartasse sulle esibizioni, che li pagavano poco, a tal punto da appendere lo strumento al chiodo o da emigrare. Insegnare gli piaceva e sul posto di lavoro era serissimo. Aveva anche discretamente pazienza coi casi umani che ogni tanto, essendo la scuola abbordabile a tutte le tasche, gli capitavano.
 
Rodolfo Rispoli era nato a Lugo di Romagna da famiglia discretamente ricca, il padre aveva una piccola impresa nei dintorni. Figlio unico, incarnazione dello stereotipo sui figli unici viziati, era di corporatura esile e fisico debole. Al primo anno di università, si era reso conto che da pendolare non avrebbe retto, probabilmente non si sarebbe laureato mai. Dunque i suoi iniziarono a pagargli una stanza in affitto. La più grande e la più costosa di quell’appartamento in Cirenaica.
Grazie ad attrezzatura all’avanguardia e una gran passione per la musica trash (quasi folle in una persona così seria), aveva fatto fortuna con un video blog, fino a mantenersi con comparsate in radio nazionali, serate DJ set e monetizzazione dei video. Collaborava anche con un blog di musica. Era bravino a scrivere, era brillante e stranamente attento a evitare pubblicamente tutti quelli slanci di malinconia tipici del segno del cancro in versione maschile, exploits con cui tediava invece i coinquilini da mattina a sera. Discorsi del tipo: “Non ci sono più gli artisti di una volta” che tradivano la sua provincialità, la sua età e l’appartenenza a un segno d’acqua. Lawrence poteva stare a spiegargli per ore che in altre città, altrove, sicuramente c’erano altri Marcello, altri Schaunard e altri Rodolfo altrettanto bravi in pittura, musica e letteratura, forse più bravi e interessanti. Ma il mondo lo fa il marketing, il mercato e la distribuzione (e qua era la sua educazione britannica a parlare). Come sempre si tratta di scelte: compromessi per la grande distribuzione o pochi soldi e libertà artistica nell’indipendente. E il mercato preferisce il già visto perché sa che attrae, o così si crede, dunque spesso gli artisti veri rimangono in secondo piano ma non è che non ci siano. Per non parlare del contesto, aggiungeva Marcello, io e te veniamo da una cittadina di provincia piuttosto viva ma non è sempre così uno poi si scoraggia anche, ciò. Ecco, concludeva Lawrence, questa è l’opera d’arte nell’era del post crisi, diceva. Pochi si sottraggono a questo meccanismo, c’è poco da affidarsi ai luoghi comuni.
Nonostante queste discussioni però Marcello, Alessandro e Lawrence amavano il loro coinquilino più piccolo. Ridevano con lui del suo stupore e delle sue ingenuità da romagnolo star di internet ma goffo albatros nel mondo di tutti i giorni. Ma lo supportavano sempre e comunque. Non solo, Rodolfo aveva un giorno confessato a Marcello, quello con cui aveva legato di più, che nei momenti di buio si sfogava scrivendo poesie imitando i suoi idoli (studiava letteratura). Marcello le aveva lette. Le aveva trovate di una formalità impeccabile, rara per un ragazzo della sua età. E anche emotivamente parlando, il carico era notevole.
“Leggile agli altri” gli aveva consigliato e Rodolfo, intimorito dall’esigenza di Lawrence e dalla bruta sincerità di Schaunard, lo aveva fatto. Schaunard aveva ascoltato in silenzio il piccolo romagnolo mentre sfogliava le pagine con la mano un po’ tremante. Lawrence nel finale aveva applaudito dicendo a Rodolfo: “Bloody hell, you’re cool, man! Un poeta vero!”, aggiungendo un criptico, “Non ti far ingannare, tu appartieni alla Cirenaica”.
E così, il lato più nascosto e vulnerabile di Rodolfo sarebbe andato in stampa di lì a breve per un’editrice piccola, pubblicava ovviamente sotto falso nome, ci teneva a separare il personaggio pubblico cazzone da quello serio. L’edizione ovviamente era stata autofinanziata, nonostante i consigli di Lawrence di lanciare un crowdfunding aiutandosi con il proprio video blog, magari dicendo: “Il mio amico tal dei tali vorrebbe pubblicare un libro”. Ma Rodolfo non ne volle sentire, non voleva rischiare. Aveva una paura folle di mettere a nudo la sua parte sensibile.
E questa era anche la ragione dei suoi fallimenti con le ragazze. Elisa, la ragazza storica di Lugo, l’aveva progressivamente messo da parte durante il primo e il secondo anno di università, come se la lontananza avesse svelato il poco amore che girava nella coppia. Ma si sa, certe storie nate sui banchi di scuola finiscono così.
Aveva avuto una storiella breve con una delle sue fan poi, Luisa, ma lei si aspettava il Dj cazzone invece tutt’un tratto si era ritrovata in coppia con il poeta del cancro, irritabile per quella troppa sensibilità che non amava mettere in mostra. Prevedibilmente durò poco, più la cosa si faceva seria più i due litigavano. Fu una relazione breve, intensa e lasciò Rodolfo discretamente abbattuto.
 
Quell’appartamento in Cirenaica era la fortezza di Rodolfo, usciva raramente e quelle rare volte sempre per andare al pub, mai a ballare o in altri tipi di serate (se non pagato, come ospite). Raramente trovava gente che gli andava a genio. A differenza degli altri però, più grandi, non sapeva fingere disappunto.
Per strada lo fermavano per chiedere se “era proprio lui” poi. Una volta gli era successo di farsi un nemico pubblico per via dei fan, sempre in quel pub vicino a Piazza Maggiore che piaceva tanto a tutti e tre (anche a Marcello, quando aveva il giorno libero).
Era una domenica d’inverno, il pub era mezzo pieno di avventori in parte italiani in parte anglofoni. A un certo punto, un noto cantante pop (e noto omofobo) entrò nel locale con dietro di sé una schiera di assistenti. Improvvisamente il locale si svuotò di clienti italiani, rimasero solo gli anglofoni e Lawrence, Alessandro e Rodolfo stupiti e increduli.
Mentre il cantante dunque mandava le sue assistenti a ritirare tutto ciò che aveva ordinato al bancone (visto che un vero pub filologico non ha servizio a tavolo), dalla scala collegata al piano di sopra e al reparto fumatori scesero altri due ragazzi. Videro il cantante, lo riconobbero, passarono oltre. Videro Rodolfo, lo riconobbero, si avvicinarono, gli fecero la fatidica domanda.
“Scusa, ma sei Rod, quello di Sorsi d’Orrore? Possiamo fare una foto con te?”.
Quando racconta l’aneddoto, Schaunard giura ancora di aver visto il fuoco negli occhi del cantante, mentre le assistenti gli toglievano il formaggio del cheeseburger dai capelli, lanciare fulmini e anatemi verso Rodolfo. “Ben gli sta”, conclude, “secondo me è anche un po’ represso”. 
 
La vita nell’appartamento in Cirenaica scorreva briosa e gelata. Ogni giorno, Marcel si alzava tardi e, nonostante la mattina fosse già passata da un pezzo, il freddo gli intirizziva il rasoio con cui si faceva la barba. Maledicendo Patrizia, si metteva a concepire nuovi progetti per purificare il suo animo ferito. Ultimamente seviziava tele: dipingere era il suo tallone d’Achille, ma non si sarebbe arreso prima di poter realizzare un quadro che lo soddisfacesse. Lawrence celebrava il momento della vestizione della sua famosa zimarra, durante il giorno insegnava e la sera si piazzava al pub come se fosse stato il suo ufficio: varia gente si presentava per parlare di progetti artistici e collaborazioni. Se aveva bisogno di pensare, nel pomeriggio prendeva la circolare e faceva un giro in Certosa, al cimitero monumentale. Rodolfo era il primo a lasciare casa, andando ancora all’università seguiva le lezioni mattutine mentre Schaunard, una volta che tutti se ne erano andati, faceva qualche prova al fagotto poi usciva anche lui alla volta della scuola di musica.
Era dicembre, il freddo era tagliente, probabilmente tra qualche giorno sarebbe scesa la neve. Una volta fuori, Lawrence allentò per un secondo il cappotto: il gelo sulla pelle lo fece sentire vivo e in comunione col mondo. Nello stesso momento, Schaunard si prese qualche minuto di pausa per concedersi il lusso di non pensare a niente. Nello stesso minuto in un appartamento dall’altra parte della città Patrizia Sommovigo in arte Jacqueline si era svegliata maldisposta e un po’ depressa. Sì, era sicura che Marcello sarebbe tornato da lei. Doveva solo aspettare e stringere i denti. Era un gran rompi cazzo. Ma le mancava.
I ragazzi si erano creati un giro loro, un sottogiro negli ambienti artistici bolognesi. Avevano i loro amici, li avevano selezionati scrupolosamente stando attenti che non avessero niente in comune con la media della gente. Che avessero temperamento non banale e creativo, anche se fisici o linguisti. Che fossero autentici. Che non fossero vuoti e alienati.
Questa loro “gabbia dorata” li teneva discretamente fuori dal mondo. Non sapevano cosa fosse l’arroganza, l’ignoranza o la violenza, cose con cui si dovevano rapportare solo nel momento in cui si mettevano a lavorare a contatto col pubblico, gente estranea. In quei momenti, saliva loro la consapevolezza che il mondo fuori non doveva essere così bello. Marcello, il più esposto dei quattro, ne aveva di storie da raccontare a proposito.
 Nell’appartamento che condividevano non c’era televisione e non la volevano avere, dell’hic et nunc gli importava solo ciò che limitava la libertà di poter lavorare e di poter restare in una città che era la loro, più il minimo indispensabile di politica estera e interna, per farsi un’idea. Niente cronaca nera, che rende alienati, niente reality, nessun’altra notizia per non mangiarsi il fegato o deprimersi o incamerare parole d’ordine. Del resto, Lawrence, Marcello, Alessandro e Rodolfo non vivevano nel presente ma in un intricato insieme di dimensioni temporali parallele che rivivevano in loro tramite i libri che amavano, i film che li facevano emozionare, i personaggi che li colpivano.
 
Era quasi Natale. La botteghina in via Massarenti che d’estate vende cocomeri sfornava già da mesi fumanti caldarroste. In via Azzurra alcuni privati avevano fatto un presepe gigantesco ed enormemente bello. Le due torri luccicavano al buio per via della luminaria natalizia. Sul ponte Matteotti, un noto artista aveva disposto le luminarie di modo che, unite, dessero il simbolo della P2: un memento che alludeva alla condanna per depistaggio di Gelli sulla strage di Bologna. Alla porta S. Donato si ricordava l’anniversario della scomparsa di un giovane di venticinque anni tragicamente morto anni prima in un incidente di bicicletta. In sua memoria era stata messa una bici bianca proprio sul luogo del frontale.  Era un ragazzo che aveva amato e vissuto Bologna come la vivevano Lawrence, Marcello, Alessandro e Rodolfo, da artista. Un critico di cinema e un giovane video maker. È stato un martire della bohème e quella bicicletta è un monumento ai caduti, una storia che racconteremo in altra sede, ma simile a quella di mille altri ragazzi di talento morti di sogni. Nelle sue peregrinazioni, Lawrence non scordava mai di lasciargli un fiore. 
  
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