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Autore: CrisBo    24/04/2015    3 recensioni
Niente odora di caciotta e umidità come il bancone del Green Man.
È oblungo, scuro e coperto da crepe e cicatrici informe di sigarette e sigari abbrustoliti. Colpa dei passanti che ci hanno riversato sopra lacrime e risate, grida e lamenti, chi per una partita del Manchester finita male e chi per una donna fatale senz'anima. Quanti bicchieri di whiskey e amaretto consumati, rotti e martoriati, quante storie hanno avvolto il legno composto e un po' rustico di quel locale casalingo. Se ogni uomo ha una sua storia allora il Green Man – che di uomo ha almeno il nome – ne ha contate più di diecimila. [Dal prologo]
************
In una città dell'Inghilterra farete la conoscenza di Grace, di Alex, di Penny, Locke e una miriade di altri personaggi che il Green Man ha adottato tra le sue mura. Sarà proprio lì che l'incontro con un gruppo di attori cambierà la loro quotidianità. Perché c'è chi resta e chi va: ma ciò che succede al Green Man rimane al Green Man.
[ STORIA IN SOSPESO. Riprenderò al più presto. ]
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aidan Turner, Dean O'Gorman, James Nesbitt, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 11.
Le mie romanticherie

 

 

 

 

È altamente innaturale il passaggio che compie una sola nota attraverso il tuo padiglione uditivo, riuscendo a concentrare una scarica di emozioni talmente alta da non riuscire a capire da dove essa provenga. Magari può venire scambiato per un'appendicite acuta, o per un crampo allo stomaco dopo aver mangiato una quantità sproporzionata di costine di carne. Ma poi qualcosa si scuote, si schiaccia dentro di te, ti immerge in una sensazione di benessere e ti fa incantare.

Alle volte ti perdi a ripensare al tuo amore passato, quando eri piccola e avevi la pelle forata dai brufoli, zaino pieno di scritte e diario placcato dalle peggior foto dell'idolo del momento.

Alle volte ti perdi a ricordare un luogo, un odore, una sola scena che ti si è impressa nella memoria e non se n'è più voluta andare, senza neanche sapere perché è rimasta così importante, lì nel profondo, a spuntare quando meno te lo aspetti.
Io mi accorsi di essere immersa in un posto che non credevo di ricordare più.

 

Ero molto piccola.

Mia madre non era ancora del tutto annoiata da mio padre, forse era il periodo in cui lo trovava addirittura una persona divertente. Faceva molto caldo e io ero vestita da pirata, mentre mi destreggiavo con la spada fendendo con colpi di plastica un paio di bambini della zona.

Nell'aria c'era odore di carne, di verdure grigliate, di brace che fuma. Davanti a noi si ergeva una piccola montagna che ci divertivamo a scalare, sbuzzandoci ginocchia e graffiandoci le dita, ma io pensavo solo a cercare il mio tesoro per spartirlo con la mia truppa di mozzi.

Ad un certo punto ci fu un fischio e tutti ci voltammo verso la valle erbosa che si espandeva davanti a noi come un grande mare verde, illuminato da una cascata di luce.
Tutti i nostri genitori stavano per gareggiare in una epocale e coraggiosa partita di football.

Le nostre madri cinguettavano ed esultavano ai bordi del fatidico campo – da cui ricordo spuntavano margherite e primule – mentre i nostri padri erano lì, sotto al sole, aspettando il fischio dell'inizio.

C'era solo un piccolo particolare che ci aveva tenuto incollati tutti a quella partita, senza che potessimo fare altro che guardarla fino alla fine. Tutti i nostri papà – e anche i papà di qualche bambino che non conoscevamo – erano vestiti da donna.

Si erano messi fiori in testa, veli come gonne, scialli, mele e pere sotto il top, ombelichi pelosi di fuori, rossetti e mascara. Era l'immagine più inquietante e divertente che la mia mente aveva mai visto, ed ero viva solo da pochi anni quindi non potevo vantare di un bagaglio visivo molto ampio.

Mio padre era il più brutto di tutti: aveva rubato un pareo da mia madre, color giallo canarino, e aveva deciso di giocare con un tacco vertiginoso che affondava nell'erba.

Fu la partita più disarticolata che avessi mai visto. Le mele sfuggivano dalle maglie, le pere venivano lanciate come armi, il pallone era diventato un foro vivente di tacchi a spillo e baci di rossetto. I parei sventolavano, le gonne ruotavano, le capigliature floreali divennero arbusti al vento e si levarono nell'aria tante bestemmie da camionista che mia madre fu costretta a tenermi le mani sulle orecchie per tutto il tempo.
Era stata una giornata fantastica, non mi ero mai divertita così tanto con i miei genitori come quel giorno.

 

Non so per quale motivo ripensai a quel momento della mia vita, ma mi accorsi di star ridendo da sola e James mi diede una spintarella sulla spalla.
Subito ritornai alla realtà senza riuscire a celare il mio sguardo un po' sbigottito.
James aveva smesso di strimpellare la chitarra e io mi ritrovai a fissarlo, rendendomi conto che, perdermi nei pensieri in quel momento, non era la miglior cosa da fare.

Eravamo poco distanti dal Green Man, immersi in una zona verdeggiante nel mio bosco fatato, e vedevo la facciata bianca del mio locale in lontananza, illuminato dal riverbero arancione dei lumini. Se mi concentravo bene forse – nell'aria – potevo sentire i rumori e le risate delle sue pareti, e i ricordi lontani delle sue storie.

In quella zona non c'erano lampioni e il cielo aveva deciso di regalarci qualche stella lontana, vicini ad una luna a spicchio d'arancia che ci sorrideva un po' storta.
L'erba era piena di denti di leone e io mi ero già divertita a soffiarne quanti più possibili, così che sia io che James eravamo coperti da soffioni bianchi sui capelli e sui vestiti.
«Pronta? Se ti perdi non finiamo più.»
«Vai, ce l'ho.»
Dissi io, drizzandomi con la schiena e prendendo un bel respiro.

Ciò che stavamo facendo era la cosa più stupida e insensata che le nostre menti avessero mai partorito. L'idea l'aveva avuta James e quando me la disse il mio cuore fece quel solito pa-tunf che non riuscì a controllare e mi ritrovai spiazzata davanti a lui, per la seconda volta in un giro di tempo molto breve.

Non avevo nessuna intenzione di darla vinta a Jacq ma cominciavo a sentire qualcosa di complesso per James e la cosa mi stava alquanto turbando.
James cominciò a suonare la chitarra, aveva gli occhi che passavano dalle corde al mio viso, e io tossicchiai per rischiarare la voce. E così cominciai la mia filastrocca.

 

Simon discese tra piccole foglie rosate /
senza più zombie da colpir con le posate /
un poliziotto agente che sta in campana /
anche se voleva essere Kermit la rana.



James smise di suonare e mi guardò con un sorriso che mi fece bollire il sangue.

Io evitai accuratamente di guardarlo, alzando gli occhi verso ogni dove fosse possibile evitarlo. Ma me lo sentivo addosso come lance puntate e mi ritrovai costretta a tornare su di lui, sorridendo in maniera un po' atipica. Probabilmente sembravo come una di quelle ragazze che sorridono nelle pubblicità perché si sono botulinate il viso, per farlo.

«Dovresti metterci più pathos. Questa non è una serenata d'amore.»
«Ma tutte le serenate d'amore migliori le ha già scritte Elvis. Ormai sono cose superate.»
Mi lagnai io, piegando le labbra. Lui si mise a ridere di nuovo e io mi fissai su di lui come un piccolo gufo avido di dettagli.

Qualcuno – e quel qualcuno era quel maledetto Lostiano di Locke – gli aveva annunciato della mia innaturale ossessione verso Simon Pegg e, sapendo che c'erano alte probabilità che il mio inglese sarebbe giunto domani alla festa, James aveva deciso di darmi lezioni di “corteggiamento” verso di lui. Non ero sicura che lo conoscesse ma credo che fosse un modo, tutto suo non c'è che dire, per ritrovarsi un po' di tempo per sé lontano dagli altri.

Il fatto che il suo tempo per sé lo volesse passare a sentirmi canticchiare oscenità da esorcismo mi riempiva la testa di illusioni che volevo scacciare, così decisi di non fare domande e crogiolarmi nel dubbio.

«Se vuoi ti insegno la mia danza sui tavoli.»
«No.» Alzo un palmo. «No, per carità. Non sono brava come te a stare in equilibrio, se per caso dovessi arrampicarmi su un tavolo – domani – spero che sia perché ho ingerito una quantità alcolica talmente cospicua da non ricordare nemmeno più come mi chiamo. E non per cantare una schifezza del genere davanti a Simon Pegg.»
«Secondo me lo conquisti. Magari decide anche di divorziare da sua moglie per te.»
«Sì certo. Magari poi scappiamo pure alle Bahamas, ci facciamo una nuova vita lì, facciamo un nido di bambini, apriamo una fattoria di cani e moriremo insieme con un cocktail al mango in mano, sulla spiaggia, mentre ci sventolano palme sulla testa.»

Lui rise e io risi insieme a lui, sentendomi stranamente a mio agio.
Fin troppo a mio agio, maledizione.
«So io cosa ti ci vuole adesso. Magari ti sprona la fantasia.»
«James io posso pure creare un'opera Dantesca per lui, ma se me lo ritrovo davanti io perdo anche l'uso dei vocaboli, lo capisci?»
«Ah, un po' come quando hai visto me per la prima volta.»

Con quella frase mi spiazzò e io rimasi a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite e senza sapere bene cosa rispondere. La mia mente decise che quella sua massima doveva essere – per forza - una battuta e così cominciai a ridacchiare, sperando che lui faccesse lo stesso, distogliendomi da questo tormento interiore.

Lui rise con me ma lo vidi abbassare lo sguardo, appoggiando la chitarra sull'erba.
In quel momento sentì il venticello che ci accarezzava, facendoci un po' rabbrividire, e mi strinsi un po' nelle spalle, sperando di trovare qualcosa da dire.

«Sì, come con te.»
Sussurrai infine, strozzando qualche filo d'erba per cercare di boicottare quell'imbarazzo fastidioso.
«E Dean. E Aidan, e Adam, Richard. Non parliamo di Richard proprio. E Martin.»
Quando rialzai lo sguardo, per pura curiosità di una sua reazione, lo vidi intento a soffiare un altro dente di leone proprio verso la mia faccia e una flotta di soffioni mi finirono sugli occhi e sui capelli, facendomi arricciare tutto il viso.
«Ma ora riesci a dire frasi di senso compiuto, visto che la paura non serve a niente? Andrà tutto bene domani, anche se gli canti questa sottospecie di martirio.»
Rimasi a guardarlo e sentì che il sorriso mi ritornò prepotente sul viso.
Lui mi fissò di rimando e poi lo vidi drizzarsi di colpo, come se avesse sentito un rumore molesto.

«Eccolo.»
«Cosa?» Domandai io, voltandomi giusto per guardare in punti sconosciuti.
E da lontano lo vidi.
Un camioncino bianco, dall'aria un po' vecchiotta ma che ricorda un po' le campagne, con ghirigori e disegni color pastello sulla facciata.
La musica che si diffuse nel sentiero era inconfondibile. Una specie di carillon con cassa surround abbastanza molesta, specie per un orario un po' notturno come quello, che canticchiava la sua melodia in tutta la zona.
Il camioncino dei gelati.

«Ma che...?»
«Avevo paura che non capisse bene dove arrivare, visto che gli ho detto che eravamo immersi nella foresta di Bosco Atro. L'autista s'è messo a ridere, ma io ero serio.»
Io ero in uno stato esaltato. James mi prese per mano – e già lì ero convinta che la mia sudorazione agli arti avrebbe copiosamente rovinato tutto – e mi trascinò verso il camioncino che si era proprio fermato davanti al sentiero ciottoloso.
Mi prese due cornetti e per lui un ghiacciolo e un magnum.

Invitammo l'autista a mangiare un gelato insieme a noi ma disse qualcosa a proposito di una “dieta” e “mia moglie poi divorzia” e si rimise in marcia, lasciandoci di nuovo da soli nella nostra desolazione erbivora.
Io ero felice come una bambina, guardavo verso le stelle luminose e pensai che quello era il gelato più buono che io avessi mai mangiato in vita mia.

Nessuno aveva mai chiamato il camioncino dei gelati solo per me, ed ero contenta che la mente un po' contorta di James partorisse tali idee invece che cene romantiche al lume di candela o parlare delle stelle del firmamento che brillano come i miei occhi, o di com'è bello passeggiar con Mary.
Mi stava venendo in mente Mary Poppins senza motivo così decisi di disturbare la mia mente tornando a guardare verso James. Gli sorrisi e lui fece altrettanto con me.

«Non si può pensare di fare una scampagnata nei boschi senza un gelato.» Disse lui.
«Sì, non è proprio ciò che uno pensa quando è in un bosco ma sono felice che la tua mente lo abbia fatto. Avevo un gran voglia di gelato.»
«Sei pronta a continuare la tua filastrocca?»
«In questo momento non m'interessa niente di Sim-»
Mi bloccai appena in tempo prima che il mio pensiero – avidamente tenuto per me per tutta la serata – scivolasse via creandomi in quello stato da buco nero senza fondo. Scostai di nuovo lo sguardo ma sentì James strusciare fino a sentirlo letteralmente spiaccicato contro di me, seduto, con il braccio pressato contro il mio.
«Sì, lo so. I gelati sono l'unico vero amore di una donna.»
«Già.» Risposi io senza più fiato.

Restammo in silenzio per un tempo che a me parve infinito. Mi piacevano i momenti in cui non parlavamo ma, da un lato, li sentivo ancora troppo opprimenti. Avrei voluto dire qualsiasi cosa, sentirlo parlare di qualsiasi cosa, avrei voluto un suono, un ricordo, un momento divertente di cui ridere e invece eravamo lì, seduti, a mangiarci un gelato in un prato ad un orario notturno indecifrabile, sotto le stelle, e m'accorsi che quella situazione stava scavando nel mio animo sensazioni incontrollabili. Sentivo prepotentemente caldo.

Cercai di pensare a qualche canzone stupida della mia collezione ma non mi venne in mente niente che non fosse qualcosa riguardante i film di Peter Jackson. Nella mia testa si palesò “The Last Goodbye” e lì mi sentì morire.
Ogni volta che Billy Boyd si destreggia con quell'uccisione di barriere altamente tenute salde per non piangere, io sono costretta a canticchiarla tutta o rimango irrequieta per tempi indefiniti.
Sentì che James stava percependo qualcosa e mi piazzò il suo magnum davanti al naso.

«Vuoi un po'?»
«Mh.»
«Non sto cercando di farti diventare grassa, lo giuro.»
«Mh.»
«Ehi. Va tutto bene?»

Si voltò a guardarmi e io feci lo stesso, sorridendo.

«Sì. Sì. Stavo ripensando ad una canzone e sto cercando di cantarla nella mia mente così tutto questo finisce e io smetterò di pensare solamente alla canzone, visto che sarebbe anche piuttosto...maleducato concentrarmi su una canzone mentre tu sei qui, con me, dopo che mi hai offerto un gelato e-»
«Credo che tu stia delirando, Grace.»
«Hai mai provato ad uccidere degli zombie mentre in sottofondo cantano i Queen?»
Sapevo che stavo delirando per colpa dell'imbarazzo e decisi d'attaccare con l'unica arma in mio possesso. L'unico modo per interrompere quel ciclo di paranoia che ho in testa è far delirare anche l'individuo posto davanti a me. Un po' mi dispiaceva che toccava per forza a James, ma d'altronde era lui il motivo per cui mi sentivo così, quindi doveva pagarla.

«Una volta, nell'87. Fu una serata molto intensa.»
«Devi iscriverti al mio albo di cacciatori, allora. Saresti un eroe.»

Sorrisi e lui fece altrettanto, mentre stava già scartando il suo ghiacciolo da un colore piuttosto fluorescente. Stava facendo un abbinamento di gusti un po' strani ma non volli dire niente a riguardo. Anche io alle volte mi ero ritrovata a mischiare degustazioni cibarie un po' improvvisate, non potevo dare lezioni in merito.

Mettere il ketchup nella pasta era stato l'errore più grande della mia vita, non avevo bisogno di farlo sapere al mondo.

«Grazie per questa serata. E' stata bella, e poi il gelato è un colpo di classe.» Mormorai con una vocina da adolescente. Lorella Pazzerella avrebbe cantato una canzone su di me, in quel momento, se ne avesse avuto la possibilità.
«Sapevo che ti avrei conquistato con un doppio cornetto.»
Io ero arrossita ma cercavo di non darlo a vedere. Non so se la cosa funzionava, ma d'altronde era buio sotto quel cielo stellato.

«L'altro giorno sono venuto a fare una camminata da queste parti e ho pensato che sarebbe stato divertente portarti qui. Poi ho pensato che, forse, tu qui eri già venuta ma non credo tu sia una di quelle che viene in posti del genere con altra gente. Mi sembri più una che si perde nei suoi sentieri, immergendosi nella propria mente, da sola. Magari con Walter. E che le piace così.»
James mi fece scivolare addosso quelle parole e io non seppi bene che cosa dire a riguardo.
«In verità ho saputo che Locke ti ha un po' trattato male e mi è dispiaciuto. Forse non avrei dovuto starti così appiccicato in questi giorni. So che venire qua ha scombussolato la vita di tutti quanti, è una cosa del tutto diversa per voi e... ho visto il tuo sguardo prima. Come se non ti sentissi più a casa. Non è mai bello quando le persone si sentono sole anche quando sono circondati da tante persone.»

«Io...no ma io, ecco, ero, sì ero...ma tu non dovevi...insomma-»
Grazie Wookie per essere sempre nei miei pensieri in questi momenti.
Avevo il cuore che stava facendo piroette triple lì dentro, ed era un po' preoccupante perché non avevo messo una rete di protezione, sia mai che cadesse dal suo trampolo e si rompesse.
Non potevo credere alle mie orecchie: James aveva capito il mio stato d'animo con uno sguardo? Che razza di maledizione era questa?
Forse quello non era James. Era un alieno. Un Sith. Un Osservatore. Un James-alternativo.

«Da quando ho divorziato da mia moglie non va tanto bene la mia vita, forse è per questo che sono venuto a trovare Locke. Volevo ricordarmi cosa significasse fare parte di qualcosa di bello, volevo sentirmi di nuovo come quando non avevo tanti pensieri, quando uscire con le ragazze e ubriacarmi erano le mie uniche responsabilità. In verità volevo solamente fuggire via da qualcosa, voglio...voglio fuggire via da qualcosa, ma non credo di poterlo fare e quindi...quindi voglio godermi appieno questi giorni prima di tornare a ricordarmi che la vita non è piena di gelati e canzoni, come vorrei che fosse.»

Io ero sicura che mi stessi per rompere le ossa della mano a forza di stritolarle ma il mio sguardo era puntato su di lui e, per la prima volta, mi apparve come un normale, complicato e fragile essere umano. Mi stava regalando i suoi pensieri più intimi.
Mi è sempre piaciuto sentir parlare le persone, ascoltarle veramente, guardare come una frase fa cambiare lo sguardo o abbozzi un sorriso o anche un riflesso di nostalgia lontana. Le parole, alle volte, servono a far capire proprio ciò che non si vuole dire.
Ero attenta e mi ritrovai a distendere ogni muscolo del mio corpo con un leggero sospiro.

Con un coraggio sovrumano allungai la mano e cercai la sua, andando a stringergli le dita. 
Lui sorrise debolmente e – fluido – intrecciò le dita con le mie e alzò lo sguardo su di me. Io m'appellai ad Aule per evitare di dire castronerie, banalità, stupidaggini in quel momento. 
La cosa non era per niente facile.

«Le persone che sorridono tanto di solito nascondono qualcosa di triste dentro di sé. E anche quelle che non sorridono tanto, presumo. Ma è naturale. Sono sicura che anche tutti questi poveri denti di leone siano tristi perché ora sono costretti a vivere sopra i nostri capelli che sono senz'altro un habitat molto più indigesto dell'erba.» Sorrisi e lui anche abbozzò un sorriso. «L'importante è non farsi sopraffare dalla tristezza. Le cose brutte capiteranno sempre, forse ancora di più di quelle belle. È il ciclo naturale delle cose. Ma se affronti tutto con un bel sorriso allora diventa più facile. No?»

«Non dovresti essere così saggia, potrei commuovermi.»
«Non farlo, non sono capace a consolare un uomo che piange.»
«Sono contento di averti conosciuto, sai? Sei così...reale.» Sussurrò lui sul finale.
«Meno male che lo sono, sennò come glielo dicevo a mio padre.»
E rido per evitare di sprofondare nella mia bollitura personale e lui forse s'accorge di questo.

Lo sento avvicinarsi, un po' troppo e io comincio a non capire più niente. Mi ritrovo in una di quelle situazioni da film dove – questo momento – si evolve in qualcosa come: un bacio.
Avevo il cuore a mille e il mio sguardo stava cedendo, di nuovo.
Stavo cercando di trovare dei pensieri che mi facessero tornare in uno stato emotivo pressapoco normale ma non riuscivo a fare altro che vedere scene romantiche in modi poco romantici.
Pensai alla mia coppia preferita, Jordan e Cox di Scrubs, in preda ad una fioritura di insulti su sederi grossi, noia, altri sederi grossi e manie ossessivo-compulsivo.
Decisi di abbassare lo sguardo sulle nostre mani intrecciate per regolare il mio battito cardiaco, sapendo che sarebbe stato qualcosa di vano.
Ed è lì che mi accorsi di qualcosa e corrugai appena la fronte. Alzai lo sguardo giusto per incrociare il suo e, con uno scatto, mi tirai indietro.

«Accidenti James, è tardissimo! Walter se non mi trova comincia ad uggiolare per due ore e Locke mi disintegra l'anima.»
Lui, con uno sguardo un po' stralunato, boccheggia un “sì” e si alza di scatto con me, afferrando Priscilla.
Sapevo di non aver proprio dedicato un finale degno a tutto questo ma sapevo di star facendo la cosa giusta, per quanto non ne fossi del tutto convinta. Odiavo la mia mente quando decideva per me.

Quando ci alzammo mi accorsi di come le nostre mani erano rimaste artigliate tra loro e non sapevo bene se trattenere la presa o sgusciare via, facendo finta di niente.
Lui prese a camminare senza lasciarmi e, così, ci ritrovammo a ripercorrere la strada di prima.
Passammo di fianco, anche, ad un misero parco – dove i bambini giocano di giorno – invaso da strane lapidi e massicci rialzi di pietra.

Quel luogo è sempre rimasto un po' tormentato, per me. Mi piace pensare che lì, sotto quelle lapidi un po' gotiche, siano seppelliti i tesori nascosti dei bambini. Penny lo trova un po' inquietante, non le piace pensare che sotto terra riposino in pace bambole rotte o strani robot dai raggi traenti.
Io so che, nelle notti di Luna Piena, quel luogo s'incanta e v'è pace e serenità, dove i tesori brillano nascosti tra le radici.Alex pensa che io guardi troppo Toy Story, ma non m'importa.
Dopo aver oltrepassato il cimitero dei giocattoli, sbucammo fuori dal sentiero per raggiungere il Green Man. Eravamo ancora mano nella mano e io sentivo di aver perso ogni facoltà di parola, per un totale di venti volte nell'arco di tempo di un'ora.

Meno male che la diagnosi diceva che ero guarita del tutto dalla perdita sull'uso della parola.
Proprio guarita.

Quando entrammo trovai solamente Alex intento a far giocoleria estrema con un paio di shaker e una bottiglia di Malibù. Non sapevo cosa stesse facendo ma m'accorsi che mi squadrò con un sorriso malizioso non appena ci vide e io sgusciai via dalla presa con James per avvicinarmi al mio amico.

Il locale era pronto per la festa dell'indomani, dovetti fare vari slalom per evitare di essere “mandata a quel paese” dai cartonati di Bilbo e evitai accuratamente di rubare alcuni biscotti lasciati sul bancone. I lumini erano stati spenti ma nell'aria c'era un soave odore di fiori e incensi indiani. Sicuramente Jacq aveva provato qualche sua nuova afrodisiaca essenza per estirpare l'odore di caciotta.

Un po' mi dispiaceva quando lo faceva, in fondo quell'odore era pur sempre qualcosa di caratteristico.
Mi avvicinai come una lepre salterina verso il mio migliore amico e lasciai andare James alla ricerca di Locke, mentre Walter piombava giù dal suo sgabello per venire a circondarmi d'amore e coccole.

«Dove sono finiti tutti quanti?» Chiesi, con un tono fin troppo allegro. «Alex: te li sei mangiati tutti?»
«Ah-ah-ah. Sono grasso. Che risate.»
«Ma se sei magro come un cencio.»
«Ti rendi conto che è un paragone alquanto stupido?»
Feci spallucce e lo circondai con un braccio sulle spalle, sospirando.
Lui s'accorse di questo mio mutevole umore e mi guardò circospetto, affilando lo sguardo.
«Prima ti vedo entrare mano nella mano con lui. Adesso sospiri. Grace... sei malata?»
«No.»
«Non vorrai mica dirmi che avete...?»
«No.»
«Hai deciso di non amare più Simon Pegg?»
«In realtà James mi ha aiutato a comporre una serenata in suo onore per domani.»
«Sì. Tanto quando ce lo avrai davanti smetterai anche di respirare, altro che serenata.»
«Tu sì che mi conosci come le mie tasche, fratello.»

Non volevo raccontargli ancora molto, su quella sera. Ero ancora in uno stato emozionale un po' allegro andante e avevo interrotto tutto per una stupidaggine.
Mi avrebbe preso in giro per secoli, non ero ancora pronta ad iniziare quel martirio.
Lui mi sorrise, passandomi un bicchiere di un nuovo drink dall'aria un po' da centrale nucleare ma lo bevvi tutto con una sorsata sola.

«Hai visto Penny?» Chiesi io.

Indagai su di lui dopo quella domanda un po' trabocchetto e lo vidi continuare quelle sue manovre da barman, mentre fece spallucce, riprendendo a creare un altro cocktail Chernobyl-iano per lui stesso.

«È andata via con il figlio di Durin.»
Io sfilai via da quella presa, guardandolo senza dire niente.

Ci sono ancora molte cose che mi sorprendono nei caratteri delle persone, la loro predisposizione a poter inserire sfumature essenziali in frasi, dettagli o sguardi che sono apparentemente innocui. Alex è sempre un libro aperto per me, riesco a captare dei piccoli scorci del suo turbamento o della sua gioia tramite dispersivi punti minuziosi.

Di solito, quando cerca di celare il malcontento, assume uno strano accento scozzese, senza sapere bene da dove esso provenga. Quando è molto felice, e cerca di mascherare anche questo, ha la predisposizione ad allungare le vocali delle parole finali fino a creare degli strani echi nella voce.

Quella volta non sentii niente di tutto ciò, aveva indurito leggermente la mascella e i suoi capelli sbarazzini lo seguivano ad ogni mossa. Quello poteva voler dire tante cose, ma decisi di restare in uno stato di studio per qualche secondo prima di intervenire per risolvere ogni mio dubbio.

«Vuoi parlarne?»

Lui non mi rispose, ma si voltò verso di me con un sorriso contento in volto. Alzò una mano e mi sventolò davanti un fazzoletto di carta con segnato sopra – col super rossetto extra resistente perlato – un numero di telefono.
Aveva tutte le cifre esatte, c'era una grande possibilità che fosse vero.

«Dean è un genio. È riuscito a farmi dare il numero di telefono di una ragazza bellissima. Mi ha detto di chiamarla per domani sera e io non so che fare.»

Io rimasi bloccata a guardarlo. Mi dilungavo tra il suo sguardo euforico e lo sventolio convulsivo di quel fazzoletto dall'odore di pesco.
Nessuna vena pulsante di gelosia per Penny, nessun sorriso fasullo e persino gli occhi non mentivano. Forse era la prima volta che lo vidi così sereno nei riguardi di una ragazza, visto che l'unica ragazza per cui lui aveva riguardi non lo voleva.

«Chiamala allora, panzone. Stai perdendo tempo a far levitare bottiglie di Merlot per cosa?»
«Non è Merlot. È Pinot Grigio.»

Decisi che non era il momento giusto per imbastire quella conversazione e confermare la mia ignoranza in fatto di vini, così gli feci scivolare di nuovo il mio braccio intorno alle sue spalle e lo guardai con un sorriso.

«Come si chiama?»
«Meredith.»
«Ha un bel nome. Tu digli di chiamarti Dottor Stranamore.»

Lui mi guardò non cogliendo la citazione – e forse da un lato fu meglio così – quando mi ritrovai di nuovo James davanti al bancone con un panino farcito tra le grinfie. Aveva l'aria reduce da uno che ha tentato la sorte entrando nell'antro oscuro dello chef.

«Non farlo; nelle prime stagioni quell'amore è tormentato.»
Disse James e mi guardò, facendomi un attimo temere del mio saldo autocontrollo. Doveva smetterla di cogliere ogni mia citazione, non ero più in grado di essere pronta psicologicamente per queste cose.
«Lo chef mi ha inseguito con un taglia patate.» Accodò James, sedendosi sullo sgabello.
«Non bisogna mai entrare nelle cucine.» Dissi io risoluta.
James fece uno sbuffo e addentò il suo panino, mentre da dietro la curva apparve Locke con una strana bandana in testa e il volto sporco di polvere.
«Ragazzi, non avete idea di che cos'ho trovato.»

Tutti ci fermammo a guardarlo con occhi un po' da spiritati, aspettandoci un colpo di scena con tanto di musica un po' Hitchcock-iana.
Lo vidi piegarsi e tirare su una scatola marrone, un po' ruvida e con delle strane incisioni caotiche che foravano il legno.
Pensai immediatamente al film dell'Esorcista e mi irrigidii di fianco ad Alex.
James strappò un estremo pezzo di panino, finendo col crearsi una dubbia protuberanza sotto la guancia.

Alex smise di far volare bottiglie e guardò verso Locke con uno sguardo che – sapevo benissimo - dove volesse andare a parare. Ogni volta che Locke spuntava con qualche novità sperava sempre che si trattasse di Jumanji.
Ma non il film. Il gioco. Quello vero. Era convinto che si sarebbe divertito molto a giocare con scimmie, ragni, insetti giganti e mandrie impazzite. 

«Ho il karaoke per domani!» Squillò Locke tutto contento.
Nella giungla dovrai stare finché un 5 o un 8 non compare.
Sì, avrei preferito la giungla.


 

 

 

 

 

NA.
Sì questo capitolo è...non lo so, non so come catalogarlo. Non succede molto ma qualcosa, in realtà, succede e visto che il mio prossimo capitolo sarà interamente dedicato alla festa ho voluto lasciar spazio solo per loro, come personaggi, perché dovevo prendere un bel respiro. Non ho idea di quando riuscirò ad aggiornare per la prossima volta perché ho casa invasa di gentA e trovare del tempo per scrivere mi è ardua adesso.
Intanto ringrazio le mie donzelle recensitrici che sono giunte tutte anche qui <3 e che sono la mia boccata d'aria fresca ogni volta. GRAZIE, a voi proprio voi, e voi sapete chi siete voi. VOI!
Okay, dopo questo delirio la smetto. Ringrazio tantissimo anche Syb81 e Adelasia__, che mi hanno messo tra le seguite/preferite. Davvero, grazie di cuore. Non sapete che gioia per me vedere che la storia viene apprezzata, anche se è un po' scema.
A prestissimo, una buona giornata a tutte voi <3

  
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