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Autore: Siranne    25/04/2015    6 recensioni
Bertolt è un pianista, Valer il suo allievo.
Questo è sufficiente a far nascere tra i due l’amore. E tutto sarebbe stato perfetto se la Storia non fosse venuta a bussare alle loro vite, se la diversità non fosse stata una colpa, se gli uomini avessero avuto un briciolo di cuore.
Ma si sa che l’Uomo è sempre la stessa storia.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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Nickname su entrambi i siti (Forum e EFP stesso): Maki Chan
Titolo: Wahnsinn
Dipinto scelto: Dipinto 3
Dipinto 3
Genere: Storico, Drammatico, Sentimentale
Rating: Arancione
Lunghezza testo: 1351 parole
Note: Wahnsinn in tedesco vuol dire follia. È stato difficile scrivere un racconto di questo genere, l’argomento è delicato e ogni parola sembra insufficiente ed insulsa rispetto a quell’orrore.
Wahnsinn
 
 

La musica è sempre stata la mia vita. Ho imparato a suonare il piano a otto anni e da allora non l’ho più lasciato. Era la mia costante, l’unica cosa che fosse sempre stata fissa e stabile nella mia vita.
Se dovessi pensare a qualcos’altro che tornava, girava intorno e mi stringeva nel suo gelido abbraccio era la follia. La follia che si portò via mio padre, la follia che si stava portando via Valer.
Ma temo che pochi sappiano cosa sia la vera follia, cosa porti l’uomo a perdere completamente non la ragione, -quella purtroppo funziona anche troppo bene-, ma il cuore.
Il cuore di pensare che quello che hai difronte, che stai per uccidere, è un essere umano come te; non un nemico, non un animale.
La vera follia è la guerra. La vera pazzia è appoggiarla.
Avevo imparato a mie spese, dall’esperienza di mio padre, che la guerra è male.
Ricordo solo questo: di essere stato circondato da pazzi, così tanti che quasi ho pensato di essere io quello diverso.
E sono felice di essere stato diverso.
 
***
 
Avevo conosciuto Bertolt circa dieci anni fa. Da che lo conoscevo, aveva sempre le mani attaccate al
pianoforte. Era stato ingaggiato da mio padre come insegnante privato di musica. Aveva un meraviglioso talento, nonostante fosse giovane.
Le sue lunghe dita sfioravano i tasti del piano con una delicatezza e una sicurezza impressionanti; ad occhi chiusi accarezzava le note come se fossero il viso della persona amata.
Ero incantato  dalla sua grazia, dalla sua discrezione.
Prima che potessi rendermene conto mi stavo innamorando di lui.
Non sono in grado di trascrivere le sensazioni che provavo in quel periodo. Ne ero molto spaventato, ma non cedevo, non scappavo anzi mi avvicinavo sempre di più a lui. Era come il ferro con la calamità, andava sempre lì, era inutile opporsi.
Appena acquistai più sicurezza con il piano, iniziammo a suonare qualche semplice pezzo insieme.
Stare così, accanto, a fare ciò che lui amava più di ogni altra cosa era come entrare nel suo mondo, nella sua testa, avvicinarsi al suo cuore.
«Valer, ti sei mai innamorato?»
Mi voltai per guardare il suo profilo accanto a me. Dovevo avere avuto una faccia stupita, quando compresi quella domanda.
Sì, sì, sì!
Mi controllai, cercando di non tradire il mio nervosismo.
«Perché questa domanda?»
Bertolt mi rivolse un’occhiata dubbiosa, poi scrollò le spalle.
«Per curiosità. Pensavo che alla tua età fosse normale.»
Avevo diciotto anni, era normale innamorarsi. Ma di una ragazza, non dell’insegnante di piano.
«Sì, penso di sì.»
Bertolt aveva degli intensi occhi azzurri, che parevano fendere l’anima di chi era guardato. Mi veniva naturale paragonarli alle fonti purissime dell’acqua che sgorga dalle montagne, dalle Alpi, dal luogo da cui lui veniva.
Veniva da un paese vicino Monaco di Baviera ed aveva raggiunto Berlino per conseguire il diploma al conservatorio.
La Baviera era un posto meraviglioso. Ci andavo spesso in estate. Lì la natura era rigogliosa, i boschi, le montagne: com’era diversa rispetto alla fredda Berlino.
«Ascoltami Valer» si alzò dalla sgabello e si allontanò dal piano «io penso… io ho gusti particolari.»
«Gusti particolari?»
«Non… non mi piacciono» Bertolt mi diede improvvisamente le spalle.
Sinceramente non capivo dove volesse andare a parare.
«Cosa non ti piace? Si tratta di qualche problema con la cucina?»
«No, le donne. Non mi piacciono» si voltò di nuovo verso di me, fissando tutto tranne i miei occhi.
Non pensavo che fosse quel tipo d’uomo.
«Sei misogino?»
«Cosa?» tirò un lungo sospiro «no, sono omosessuale. Non mi piacciono le donne in senso fisico, ma ho grande rispetto per loro.»
Mi sentii mancare la terra sotto i piedi.
«E perché me lo stai dicendo?» avevo la gola riarsa, mi uscì solo un filo di voce.
«Perché è giusto che tu sappia. Tu ti stai avvicinando troppo a me e devo avvisarti che potrebbe capitare…»
«È già capitato.»
«Eh?»
«È già capitato, mi sta capitando. Io non mi sono mai innamorato però, forse adesso credo di aver capito cosa voglia dire.»
Non dimenticherò mai la faccia confusa che mi rivolse. E lui penso non abbai mai dimenticato il rossore violento che doveva avermi invaso il viso.
Credo non ci sia mai stato un momento più imbarazzante di quello nella mia vita. Ripensandoci mi comportavo come un ragazzino alla sua prima cotta, anche se effettivamente quella era la mia prima cotta. Prima e ultima.
Bertolt era la mia vita, i suoi baci erano il mio ossigeno, il suo corpo il mio cibo. Semplicemente non potevo sopravvivere senza di lui.
Raggiunsi la Baviera, con lui. Lì aveva una casa, in cui ci viveva solo la sorella, Gabriela, perché suo padre era morto durante la prima guerra mondiale e sua madre era scomparsa qualche anno prima. Era una donna squisita. Aveva accettato il nostro rapporto con semplicità e lei stessa era diventata come una sorella per me.
Vivevamo tenendo nascosto il nostro amore, ma stavamo insieme e questo era l’importante.
Ero felice.
Però si sa che la vita ama rendersi odiosa: è la sua attività preferita. O forse non era colpa della vita, ma del destino, della natura, dei miei avi.
Ero ebreo. Solo per questo dovevo sparire.
Ancora ricordo il dolore negli occhi di Gabriela quando i soldati vennero a prendermi. Non tentai nemmeno di nascondermi. Avevo paura che facessero qualcosa a Gabriela o che Bertolt si facesse sfuggire qualcosa riguardo la nostra storia.
Anche essere omosessuale non era accettabile. E non volevo assolutamente che Bertolt ci finisse in mezzo.
«Perché lo dovete portare via? Fermatevi, per favore!»
I soldati continuarono imperterriti a trascinarmi fuori.
«Bertolt, stai tranquillo, tornerò.»
Suppongo che non mi abbia creduto. Nessuno ci avrebbe creduto. Nemmeno io.
«Valer, io ti…»
Mi allarmai e prima che potesse finire gli gridai: «Per favore, sta zitto, sta zitto! Rientra, va da Gabriela!»
Un soldato lo stava trattenendo per le spalle. Due altri mi stavano trasportando verso un furgone.
Non penso di aver mai pianto così tanto. Il tragitto verso il campo di smistamento mi parve infinito. La paura di non rivedere mai più Bertolt mi uccideva.
Urlavo nella mia testa con tutta la voce che non potevo tirare fuori di amarlo, che lo amavo in una maniera dolorosa e assoluta, che ormai non mi importava più di niente, solo di lui.
La mia vita finì a quel punto. Quello che era costretto ai lavori forzati, non ero io. Ero semplicemente un contenitore di ricordi che ogni tanto dava picconate, altre stava ammassato insieme ad altri simili come delle mandrie di bestie appartenenti ad un pastore violento.
Ci spremevano,  ci consumavano come delle vacche.  E lentamente vedi le persone attorno a te iniziare a perdere contatto con la loro umanità e le ritrovi a lottare per sopravvivere, dimenticando il resto.
Io non ho mai dimenticato Bertolt. Lo immaginavo nella nostra casa a suonare, aspettandomi con trepidazione. Altre volte avevo la certezza che non avrei più fatto ritorno e speravo che avesse incontrato un’altra persona.
Mi capitava anche di pensare alla mia famiglia, a chiedermi se fossero nascosti da qualche parte, se fossero come me a lavorare in qualche campo, o se fossero già morti.
I giorni non passavano mai e la vita diventava un macigno. Se ne avessi avuto l’opportunità credo che mi sarei suicidato, in qualche modo.
Poi mi chiamarono per fare una doccia. Finalmente il mio dolore si alleggeriva.
 
***
 
Durante il freddo inverno del 1945 i lager furono aperti. Penso che non ci sia mai stato un momento nella mia vita in cui io mi sia vergognata così tanto. Vergognata perché io ero lì, comoda, su una poltrona a sorseggiare un tè, mentre altri uomini non erano più uomini.
Il compagno di mio fratello si trovava in uno di quei posti. Dio solo sa cosa possa aver passato.
In quei giorni il nostro orrore era però attenuato da una debole speranza. Gli alleati stavano liberando le persone sopravvissute.
Ma il tempo passava e Valer non tornava a casa.
Bertolt  sedeva spesso difronte al piano, senza suonare nemmeno una nota. Io mi accostavo, abbracciandolo silenziosamente e strimpellavo al posto suo.
 

Altre note dell’autrice:
Visto che oggi è il 25 aprile questa storia cade a fagiolo, non rappresenta proprio il tema della Liberazione, magari sarebbe stata più adatta per la giornata della memoria, ma non è questo l’importante.
Quello che volevo far passare con questa storia è il grado di imbecillità (vorrei usare un altro termine, ma questo non è il posto appropriato) che può raggiungere l’uomo.
Perché secondo me la guerra e tutte le fregnacce ad essa connessa sono pura e semplice imbecillità. Se la ragione si usasse per questioni utili a quest’ora abiteremmo il mondo ideale.
   
 
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