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Autore: _piccolame    28/04/2015    2 recensioni
Arricciò il naso all'odore acre e spiacevole che gli arrivò al naso, un fumo nero si era levato in cielo da un capannone ad un centinaio di metri da lì, era già la seconda volta che quell'odore si faceva più forte e non era ancora finita la mattinata, quando si alzava lo sguardo l'unico colore visibile era un grigio annerito.
[…]
“4357” Si annotò mentalmente quel numero, ripentendoselo un paio di volte per non dimenticare.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto
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“4357”

Arricciò il naso all'odore acre e spiacevole che gli arrivò al naso, un fumo nero si era levato in cielo da un capannone ad un centinaio di metri da lì, era già la seconda volta che quell'odore si faceva più forte e non era ancora finita la mattinata, quando si alzava lo sguardo l'unico colore visibile era un grigio annerito.
Il treno arrivò una decina di minuti dopo, solo il primo della giornata, l'uomo aprì le "porte" del vagone e fu investito da un misto di odori sgradevoli, con un'espressione disgustata ordinò agli uomini nella carrozza di scendere in fila indiana e dirigersi verso un altro uomo, anche lui in uniforme militare con una fascia rossa con una svastica nera, qualcuno fece da interlocutore e tutti eseguirono i comandi. Nessuno osava contraddirlo, non aveva idea quale fosse il paese d'origine di questi uomini o quale fosse il motivo per cui fossero lì in quel momento, se fossero ebrei, oppositori al regime o omosessuali... I motivi potevano essere tanti ma non importava, in quei tempi doveva solo obbedire ai suoi superiori, una mossa falsa e sarebbe finito con quegli uomini, ammassati in un piccolo vagone senza sapere cosa sarebbe successo a distanza di qualche minuto, senza sapere se fossero sopravvissuti un giorno, un mese o un anno, senza conoscere nulla del proprio destino, sapendo solo che loro erano "sbagliati", che loro "non meritavano la vita", loro non erano "di razza ariana". L'uomo avrebbe voluto fermare tutto, ribellarsi, salvare delle vite invece che distruggerle ma doveva pensare a sopravvivere, se cadeva lui cadeva la sua famiglia, sua moglie e i suoi figli, non poteva permettere che ciò che più al mondo amava, soffrisse o peggio morisse per colpa sua. 
Sembravano non finire mai, uomini, donne e bambini scendevano da quel maledetto treno, piangevano e si disperavano, le urla dei più piccoli erano le più strazianti, erano loro che avevano meno probabilità, erano loro che non sarebbero tornati indietro in nessun caso. 
Uno dopo l'altro veniva guardato e giudicato, molti di loro non erano "adatti", molti di loro non avrebbero visto l'alba del mattino seguente; una delle parti più difficili era quando veniva ordinato ai bambini di "farsi la doccia" che poi sarebbero tornati dalle proprie mamme, loro erano felici, ma da quelle docce non tornavano, non uscivano più da quelle stanze. 
Dopo aver suddiviso i deportati nei vari gruppi -donne, bambini, uomini, anziani, handicap...- accompagnò gli uomini alle baracche e chiese se qualcuno parlasse tedesco, alzarono la mano in due su una quarantina di persone; si avvicinò al più alto dei due è gli comunicò che fra pochi minuti sarebbe tornato con un altro soldato a prenderli. Uscì mentre l'uomo traduceva e andò a comunicare ai superiori il numero di deportati che avrebbe lavorato. 
Quando tornò, ordinò di seguirlo, arrivarono in un padiglione da cui stavano uscendo altri gruppi di persone con espressioni di dolore sul volto e un braccio stretto al corpo. Entrando il soldato si avvicinò a un superiore, il quale urlò di procedere con la marchiatura. 
Uno dopo l’altro chiamarono i detenuti e a tutti ripetevano la stessa frase anche se solo due di loro riuscivano a capirla:
“Da oggi tu ti chiami...” e un numero, poi li marchiavano con ferro incandescente sulla pelle del braccio, mentre gli uomini gridavano con tutto il fiato che avevano in gola. Quando però arrivò il turno dell’interprete, egli non emise un fiato, l’unica traccia del dolore provato visibile erano le labbra, diventate una linea sottile da quanto furono strette. Fu in quel momento che il soldato si interessò all’uomo, avrebbe voluto conoscere chi fosse e come facesse ad avere una sopportazione del dolore tale da non urlare a contatto con il ferro. 

“4357”

Si annotò mentalmente quel numero, ripentendoselo un paio di volte per non dimenticare.
Passò un mese da quando il detenuto era arrivato al campo e finalmente il nazista ebbe la possibilità di parlargli per la prima volta. Era notte fonda quando entrò nella baracca, notò disgustato che il numero di persone all’interno era già notevolmente diminuito in quelle poche settimane, per non destare sospetto chiamò l’uomo come se fosse infuriato; immediatamente egli si svegliò e seguì il soldato fuori dalla porta.
Non fu il freddo d’inizio dicembre che fece rabbrividire il nazista, bensì lo sguardo gelido dell’uomo che aveva davanti, quegli occhi grigi come una tempesta trasmettevano solo odio, nessuna paura. Strano, se si veniva chiamati nel bel mezzo della notte da un soldato solitamente il detenuto implorava pietà che mai veniva concessa ma questa volta era diverso. L’uomo aveva vent’anni circa e stava a testa alta davanti al soldato trentenne senza alcuna esitazione.
“Come ti chiami?” chiese il soldato.
“4357” rispose egli prontamente.
“No, il tuo vero nome.”
“Elia.”
“Sei ebreo?” domandò l’uomo.
“Sì”
“Walter” ribatté quello in divisa e se ne andò. Elia lo guardò confuso e ritornò nella baracca, non dormì più però, non ci riuscì.
Mentre Walter si allontanava dal deportato pensò di nuovo al giorno il cui il ragazzo alle sue spalle da Elia diventò 4357, le sue convinzioni continuavano a consolidarsi. Era sbagliato, tutto quanto. Donne, uomini e bambini non potevano vivere in quelle condizioni, una decina in baracche in cui ci stavano al massimo quattro persone, senza mai lavarsi o cambiarsi i vestiti, circondati da cadaveri e ceneri di ossa. Fu mentre il sole sorgeva che decise ciò che avrebbe fatto notti dopo. Non sapeva perché aveva scelto proprio lui, ma non se la sentiva di scegliere nessun altro; quel ragazzo era l’unico ad averlo colpito talmente tanto da voler soffrire al posto suo, da voler salvarlo. 
La notte di capodanno si recò silenziosamente di nuovo alla baracca di Elia, questa volta lo svegliò senza urlare, cercando di avere solo la sua attenzione. Lo fece uscire e lo portò in un vicolo stretto tra le mura di un edificio e un altro.
“Spogliati” disse Walter dopo essersi tolto la giacca e la maglietta sotto lo sguardo allucinato del ragazzo, i suoi occhi grigi ora sporgevano ancora di più e lo fissavano credendo che l’altro fosse impazzito.
“Perché dovrei?” domandò spavaldo Elia.
Allora il soldato capì la sua confusione, non aveva spiegato le sue intenzioni e dire ad un altro uomo di spogliarsi non era la cosa più opportuna da fare. 
“Perché indosserai i miei vestiti e io i tuoi, dirai ai tuoi superiori di essere Walter Meyer e di voler prendere un breve permesso per andare a trovare la tua famiglia” il soldato fece una breve pausa rabbrividendo al contatto del vento freddo sul suo petto “Non ne ho mai chiesto uno, sono sicuro che lo concederanno; uscirai da questo posto facendo finta di andare da tua moglie, invece te ne andrai lontano, fuggirai dalla Polonia, il più possibile lontano dalla Germania; se puoi vattene dall’Europa.” finì porgendo con la mano la sua giacca e la maglia al ventenne. L’altro accettò gli indumenti con un lieve sorriso e gli occhi lucidi e iniziò a cambiarsi dando il suo pigiama a righe al tedesco.
“Prima che tu te ne vada ho una domanda.” disse il trentenne prendendolo per il polso. “Come hai fatto a resistere?” non specificò a cosa ma per il ragazzo fu facile intuire. 
“La rabbia” rispose calmo.

 

Ventisette giorni dopo il soldato Meyer era di nuovo libero, i sovietici avevano liberato i sopravvissuti ad Auschwitz.


Sono passati cinquant’anni da quando è finita la guerra, da quando Walter ed Elia si erano scambiati. Meyer sorpassò le sedie del teatro appoggiandosi sul bastone che lo aiutava a camminare, questa era forse la sua sesta o settima conferenza, aveva rivelato la sua vera storia da poco e in pochi mesi aveva ricevuto molte chiamate per raccontare la sua storia ma ora aveva ormai ottant’anni ed era stanco. Aveva accettato l’invito più vicino a casa, insieme a lui questa volta c’erano altri due uomini e una donna a parlare della terribile esperienza. 
“Salve signor Meyer, la prego venga da questa parte” lo chiamò un uomo sui quarant’anni. Lo portò al centro del palco dove si sedette vicino ad un altro uomo di circa dieci anni in meno. 
Quando la sala si riempì fu il primo a parlare, poi fu il turno dell’uomo che aveva affianco.
“Mi chiamo Elia” cominciò “E quest’uomo mi ha salvato la vita” disse con le lacrime che già gli rigavano il volto ora segnato dagli anni. 
Fu in quel momento che gli occhi grigi del deportato rincontrarono per la prima volta dalla notte di capodanno del 1945 quelli del soldato che cinquant’anni prima l’aveva salvato.

  
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