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Autore: Melitot Proud Eye    29/12/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: ecco il nuovo capitolo, più lungo, più dinamico e anche più drammatico dei precedenti ;-p Avrei voluto pubblicarlo a Natale, poi l'ho riletto e non mi è sembrato il caso; non era proprio l'atmosfera giusta! Così ve lo regalo come saluto di Capodanno, sperando non vi faccia piangere ^^;
Sto anche cercando di finire una piccola oneshot di Beyblade proprio a tema festivo, se c'è qualche fan di Chi ha detto che mi voglio sposare, stia in campana ;-)
Buona lettura.
PS: ho visto che La via della spada è fra i preferiti di tre persone... mi farebbe un immenso piacere se gli altri due ammiratori/ammiratrici segreti lasciassero un commentino <3



Capitolo XII
Il sole sulla spada punitiva



“Deru kui wa utareru."
Il chiodo che sporge va preso a martellate.

Proverbio giapponese





Nella luce smorta del mattino, a Tokyo, Sozou Sagara sbatteva un tappeto liso della clinica dopo aver fatto ritorno da scuola (uno dei primi, timidi tentativi del governo giapponese di istruire la popolazione medio-bassa).
Non era un’occupazione noiosa, rifletté distrattamente. In momenti normali sarebbe già stato sui compiti di scrittura, ma negli ultimi giorni aveva la testa altrove.
Prese la ramazza e cominciò a spazzare l’ingresso, mentre una vecchina saliva le scale per entrare. Scorse sua madre alla finestra dell’ambulatorio, gli occhi puntati ansiosamente su di lui, e decise di rientrare. C’era sempre gente nei paraggi, ma lei sembrava dimenticarlo facilmente. Del resto, con quel che era successo non poteva biasimarla.
Sospirò. Chissà come stavano gli zii. E chissà se avevano già trovato Shinta.
E chissà come stava quel fedifrago di Kenji. Ce l’aveva un po’ con lui per essersene andato senza una parola, senza avvisarlo almeno con una criptica occhiata ― non che l’avrebbe seguito (a lui dell’Hiten Mitsurugi non importava un fico secco), però sapere di poterlo fare era un’altra cosa.
Diede l’ultima ramazzata e lanciò un’occhiata al fondo della strada, mediamente gremita. Oh.
«Hey, nipotino» salutò Ota, la sacca issata in spalla.
Per tutte le foreste di bambù, e quell’haori arancione da dove sbucava? Un altro acquisto sconclusionato dello zio, si rispose, cercando di non criticare.
Aveva comunque di meglio da dirgli.
«Ciao zio! Allora, notizie dalla posta?»
Il ragazzo storse la bocca. «Nein» oddio, papà aveva contagiato anche lui. «Mi spiace. C’è tua madre?»
Sì, la mamma c’era (anche perché altrimenti la clinica sarebbe stata chiusa). Lo invitò dentro, chiudendo la porta principale, poi quasi s’ammazzò sugli scalini.
«Ouh!»
«Oy, attenzione.»
«Ma che―» Sedette diritto, pulendosi le mani sugli hakama.
«Pare ti si sia spezzato il laccio dei sandali» osservò zio Ota. Poi lo tirò su. «Vieni, moneta. Ti porto dalla mamma.»
«Non sono mica un moccioso» rimbeccò Sozou, con un tono che finì per ricordargli Kenji.
Mentre entravano, la sua attenzione si concentrò sul sandalo che gli penzolava mollemente dal piede, privo dell’ancoraggio centrale. Hm. Non portava bene. Anzi, portava malissimo. Ma forse i pensieri di quella mattina lo stavano plagiando.
Fu quando vide incrinarsi senza ragione le loro tazze da tè, dove aveva appena versato il liquido bollente, che colse gli autentici segni di un brutto presentimento.
Si morse la lingua, preoccupato.
Qualunque cosa fosse, dovunque fosse, stava per succedere qualcosa di poco piacevole.

Kenshin Himura si tese sul ciglio della scarpata, stringendo forte il binocolo.
«Cosa vedi?» ripeté Kaoru.
«…»
«Kenshin.»
Tese le labbra.
«Kenji e Shinta. Con Okina, nel cortile.» Abbassò leggermente il binocolo, abbagliato dal riflesso dell’ottone. «Stanno bene. Li ha portati tutti in salvo.»
Dirlo fu come crollare in pezzi. La tensione era svanita; erano tutti sani e salvi, dentro l’Aoiya, e nessuno poteva toccarli.
Era finita.
Si lasciò strappare di mano l’oggetto. La terra era stranamente morbida sotto i piedi, una sensazione che aveva già provato in passato dopo una vittoria disperata. Guardò gli altri, pronto a fare ritorno. Adesso l’unica cosa che chiedeva era di poter stringere fra le braccia i suoi figli.
Ma non aveva ancora aperto bocca che la voce di Kaoru lo bloccò, tesa.

Okina fece scorrere lentamente lo shoji che dava sulla corte interna, aprendolo.
Rimase ben piantato davanti all’uscio, per impedire che gli ospiti inattesi mirassero ai bambini. Nello stesso tempo, afferrò discretamente il tonfa agganciato alla sua cintura, sulla schiena.
«Signori» disse, stringendo gli occhi. «Che cosa posso fare per voi?»
La situazione non prometteva bene.
I tre uomini intrufolatisi nel suo cortile sogghignarono, tra sporcizia e barbe malfatte. Esibivano alcuni pugnali e un bastone.
«Lo sai cosa vogliamo.»
«Ci avete rubato qualcosa di molto prezioso.»
Più indietro, contro la veranda dell’ala nord, ce n’era un altro, munito di vanga.
Incontrò i suoi occhi.
Era il capo.
«Qui non c’è niente per voi farabutti» rispose «tranne la galera. Vi siete messi in trappola da soli.»
Gli scagnozzi, tutti d’aspetto comune (e puzzolenti al punto che si sentiva fin lì) scoppiarono in una risata.
«Ma sentilo!»
«Lo sappiamo benissimo che ci sei solo tu coi tesorucci, vecchia scopa. Non siamo sprovveduti come pensate!»
«No, non lo siete» ammise, avanzando ed estraendo il tonfa d’acciaio, con un rumore di catena. «Ci abbiamo messo un po’ per stanarvi. Però ora dovrete provare tutta la forza degli Oniwabanshu di Kyoto, che difendono la città dai tempi dello shogunato Tokugawa.» Si mise in posizione d’attacco. «Avanti.»
Il capo dei criminali piegò le labbra all’insù, gli occhi neri sprezzanti.
«La forza degli Oniwabanshu? Tu, vecchio?» Incrociò le gambe, restandosene comodamente appoggiato contro un pilastro di legno. «Fatelo a pezzi.»
«Con piacere, signor Tsukasa.»
Okina sentì chiaramente il sudore rigargli la fronte. Dannazione, stava diventando troppo vecchio per queste cose. La sua forza vacillava e, sebbene fosse ancor più che capace di abbattere un uomo comune con poche mosse esperte, contro quattro la faccenda diventava critica. Poteva solo guadagnare tempo.
«Ragazzo.»
«Sì» fu la risposta, sussurrata.
«Al mio segnale, chiudi lo shoji e porta via tutti.»
«Credi che lo permetteremo?!» urlarono i tre avversari, caricandoli.
«Svelto!»
Udì lo shoji sbattere e turbinò in aria il tonfa, gridando.
«State a vedere!»

Ma l’Aoiya non s’era chiusa a riccio intorno a tutti i rifugiati, come Okina aveva ordinato. Perché col movimento della vecchia spia il campo visivo di Kenji s’era ampliato e il ragazzo aveva potuto vedere gli uomini che li attaccavano: quello subito abbattuto, gli altri due impegnati contro Okina, e il quarto… più lontano, ma ancora più minaccioso. Che conosceva.
Riconosceva.
Il mostro chino su Shinta nella via di casa, a Tokyo.
Dilatò gli occhi, stregato dall’ira. C’era lui, c’era sempre stato lui dietro il rapimento; e Kenji si pentì amaramente di non averlo denunciato ― o meglio ancora ― ammazzato quel giorno.
Fissò il suo viso serpentino in silenzio, pervaso dal desiderio di aprirgli il ventre con la spada.
Poi, all’improvviso, lo shoji si aprì. Una valanga di corpi cozzò contro il suo spingendolo giù dalla veranda.
«Inoi? Shinta?! E―» e Toga e tutte le ragazze rapite, bianchi come cenci.
Avvertì una folata di vento.
«Merda!»
Tiratosi in piedi (con un lancinante dolore al fianco) per evitare d’essere coinvolto nella lotta di Okina, abbrancò la sorella.
«Inoi! Ti sembra il momen―»
Ma gli altri si stavano allontanando rapidamente dall’uscio, chi strisciando, chi inciampando, con Toga davanti a tutti a impugnare delle kunai fra le nocche.
C’era un quinto intruso. Un ometto armato di frustino li osservava dalla stanza, piccolo e velenoso come un porcospino. Doveva essere entrato dall’ingresso principale; Kenji aveva lasciato incustoditi i bambini e lui li aveva quasi sorpresi. E ora…
Afferrandoli per il colletto, strappò i fratelli al ciottolato e arretrò fino all’erba, seguito dalle ragazze.
Lanciò un’occhiata indietro, all’uomo in nero.
Davanti, all’ometto donnola.
Ai lati del cortile, chiusi dalle belle pareti dell’Aoiya.
Siamo in trappola.
Cacciò Shinta in braccio a Inoi. Poi sguainò la spada, cercando di decidere in fretta cosa fare.
Doveva proteggere gli altri. Ma doveva anche aiutare Okina.
Che fare? Se fosse riuscito a far scappare i bambini…
Seguì i movimenti sempre più lenti del vecchio, che cercava di portare lontano il combattimento, e notò con stupore che aveva già sconfitto due uomini. Ce l’avrebbe fatta col terzo? La risposta arrivò subito: con un ultimo scatto, l’anziano Oniwabanshu piantò un’estremità del tonfa sulla testa dell’avversario, scaraventandolo contro il sostegno della fontanella di bambù, che si sfracellò.
«Ve l’avevo detto di non sottovalutarmi.»
Accidenti.
Accidenti. Kenji socchiuse le labbra, pieno d’ammirazione.
«Cosa fai ancora lì? Scappa, ragazzo!»
La sua mente s’annebbiò per un attimo.
Scrollò il capo, ordinando alle sue gambe di muoversi. Muoviti.
Con orrore vide il quinto intruso lanciarsi su Okina, cozzare contro il tonfa… ed esser scaraventato via insieme a lui da una forza sconosciuta.
Cacciò gli occhi sull’uomo in nero. Era sparito.
Lo ritrovò troneggiante sul povero Okina, una parola di sprezzo al fastidioso collaboratore. E quella strana vanga…
«Okina!»
Sanguinava dalla testa. Shinta lanciò uno strillo, dibattendosi fra le braccia della sorella.
«Inoi» sussurrò Kenji. «Lo vedi quel vecchio ripostiglio?»
Parlava del casotto costruito presso i ciliegi, contorti dal vento e dall’età. Non era molto lontano (il giardino della locanda era graziosamente minuto) e ci sarebbero stati un po’ stretti, ma bastava che fossero al sicuro. Sottolineò il messaggio con un gesto del capo.
«A-ha…»
«Voglio che ci entrate e vi chiudete dentro.»
L’uomo nero lo stava guardando. Sollevava la vanga e se la poggiava in spalla.
«E tu?!» stridette Inoi.
«Io resto qui e combatto.»
L’uomo si muoveva…
«Non puoi! Sei―»
«Zitta.»
…sogghignava.
«Obbedisci una volta tanto, e sbrigati.»
Il suo singhiozzo suonò indignato. Kenji pensò che sarebbe stato bello se quella fosse stata la sua azione peggiore; ma sulla sua coscienza pesava ben altro, ormai.
Si spostò e levò la spada in direzione del nemico, pronto a coprire la loro fuga.
Le sue gambe, piantate larghe in terra, sembravano radici. Nel suo corpo avanzava un torpore cinereo.
Forse è già arrivato il momento di pagare, Himura.
Il sogghigno del mostro si allargò.
«Te l’avevo detto, che non avresti potuto farci niente. Il tuo adorabile fratellino me lo sono preso lo stesso. Davvero un peccato aver avuto tutti quegli impegni coi compratori, da allora a oggi.» Era un demonio. «Ma basterà ripetere l’impresa… dopo aver sistemato te.»
Kenji lottò per schiarirsi le idee.
«Non te lo permetterò.»
«Fatti sotto allora.»
Osservò i suoi movimenti come in sogno.
Quell’uomo non era Tatsuya o uno dei tanti bulletti che aveva bacchettato nella sua ronda di quartiere. No, quell’uomo era esperto. Quell’uomo uccideva.
Come te, del resto.
La mano cominciò a tremargli.
Stava brandendo la vanga. La parte più razionale di Kenji si chiese cosa ci trovasse di tanto minaccioso, ma l’istinto non mentiva, lo sapeva. L’uomo posava le dita a metà manico, dove s’alzava uno strano rigonfiamento, indugiava, sganciava qualcosa con un rumore sordo e infine sferzava l’utensile verso destra, tenendolo con una mano sola.
Il sole riverberò sul metallo mentre la porzione anteriore della vanga si staccava, conficcandosi nel terreno e rivelando una lunga, lucente lama, lunga oltre un braccio.
«Ti piace?»
Kenji osservò, ammutolito.
«E’ la mia nagamaki, una spada antica. Con lei i miei avi si sono aperti la strada attraverso i secoli. Non farti ingannare dal suo aspetto pesante, o la tua testa cadrà prima di portare un colpo.»
Il ragazzino arretrò istintivamente.
Non aveva mai visto una roba del genere. Non aveva la più pallida idea di come combatterla.
Poi intravide il casotto coi suoi fratelli e le persone che aveva giurato di proteggere, e cominciò a respirare dalla bocca, nauseato.
No, non poteva cedere terreno.
Piuttosto, doveva allontanare lo scontro.
Non farti prendere dal panico. Respira.
Era il momento di mettere in pratica gli insegnamenti di sua madre e di Seijuro Hiko. Doveva resistere sino ai rinforzi. A qualunque prezzo. O la vendita della sua anima… sarebbe stata inutile.
Strinse i denti e cambiò l’angolazione della spada. La ferita sul fianco pulsava, calda e appiccicosa, mentre le sue braccia si raffreddavano.
Non si sentiva pronto.
«Sono pronto.»
Ma, all’improvviso, due ombre armate fino ai denti balzarono giù dal tetto e si scagliarono sull’uomo nero, urlando.

Kenshin si volse, attirato dalla voce di Kaoru.
«Cosa?»
«Kenshin, all’Aoiya―»
Misao raggiunse l’amica e le prese il binocolo.
«Okon» mormorò. «A quest’ora Shiro e Kuro saranno tornati dalle porte sud e ovest, vero?» L’incertezza del suo tono li allarmò. «Non c’è solo Okina coi bambini, vero
«Ma che sta succedendo?»
Okon si portò una mano alla bocca. «Non sono tornati.»
«E dove sono le altre squadre, allora?!»
«Non so.»
Sanosuke si schermò gli occhi dal sole. «Sembra che ci sia del fuoco, laggiù, oltre la città.»
Al movimento brusco di Aoshi, Kenshin riprese con violenza il binocolo e lo puntò prima a sud. «Sì, bruciano dei fienili.»
Poi sull’Aoiya.
Kaoru tremava. E Kenshin vide.
C’era della gente nel cortile (la distingueva appena). Okina era in piedi sulla veranda, la testa rossa di Kenji dietro di lui. Sembrava parlassero coi nuovi arrivati, ma la conversazione non doveva essere piacevole.
Poi, all’improvviso, uno shoji si aprì e Inoi e altri bambini caracollarono fuori, rifugiandosi vicino ai due.
Erano stati… stanati da qualcuno che s’aggirava in casa.
Le sue nocche sbiancarono.
«Le strade del quartiere sono deserte» sentì balbettare Omasu, equipaggiata a sua volta di binocolino. «Non li aiuterà nessuno.»
Col gelo dell’inverno che gli penetrava nelle ossa, come quel lontano giorno dei suoi quindici anni, quando Tomoe gli era morta fra le braccia, Kenshin osservò Okina tentare la difesa della locanda, indicando a suo figlio di scappare.
Kenji era immobile, la spada in mano.
Perché non fuggiva? Perché?
E’ ferito, si disse. E gli altri hanno troppa paura.
Il vecchio Okina abbatté in un lampo tre uomini. Poi cadde, sconfitto da un quarto e dall’ultimo. Che stringeva in mano una vanga.
E guardava Kenji.
Tutto in pochi attimi, rapido, inevitabile.
«No…»
Doveva andare.
Kenji alzò la spada, coprendo la fuga degli altri bambini. L’avrebbe affrontato.
Ma non poteva vincere. Quell’uomo aveva qualcosa di familiare. Kenshin aveva un’ottima memoria per queste cose e si ritrovò a frugarla sfrenatamente; quella camminata; la presa sull’arma. Ah. Ah!
Al circo, capì, gettando il binocolo a terra.
Era uno dei samurai.
Non aveva bisogno di vedere la nagamaki emergere dalla sua ingannevole guaina per sapere. Quel tizio aveva fatto le guerre. E Kenji, per quanto bravo, non avrebbe mai vinto contro la sua esperienza.
Pervaso da una forza antica, incurante del richiamo di Kaoru, fu giù dalla scarpata con un balzo.

L’attacco a sorpresa di Shiro e Kuro degli Oniwabanshu colse Kenji di sorpresa, ma lo sbloccò.
Senza stare a riflettere, fece dietrofront e raggiunse zoppicando il ripostiglio. Doveva approfittarne. Era l’occasione attesa.
Spalancò la porta, suscitando grida di terrore.
«Sono io! Venite, scappiamo!»
Inoi fu la prima a muoversi, ma quando fu sulla soglia Kenji udì due tonfi sordi e la bloccò, agganciando una mano allo stipite. Poi torse il collo per guardare oltre la spalla.
Spalancò gli occhi.
«Papà!» gridò Toga, cercando di uscire. Lo ricacciò subito dentro.
I due Oniwabanshu giacevano a terra, trafitti. Cercavano ancora di rialzarsi, da uomini valorosi, ma c’era già la nagamaki pronta a colpire.
Kenji allontanò bruscamente Inoi.
«Sono io il tuo avversario!» gridò. E l’uomo in nero si distrasse, puntando gli occhi su di lui.
Arriva.
In quel momento seppe. Abbassò lo sguardo su Inoi, che stringeva con una mano Shinta e con l’altra la sua manica, e le disse di rientrare.
«Non scappiamo?» chiese lei, isterica.
«Dopo» rispose, sorridendole. Le posò una mano sulla testa (un gesto nuovo con lei, la spiona, la saccente, l’insopportabile di casa) e la spinse indietro.
«Kenji
Shinta ricominciò a gridare.
«Toga, sbarrate tutto.»
«Kenji?!» ripeté Inoi.
Le sbatté la porta in faccia, voltandosi con la spada alzata, i capelli a schermargli il viso dal sole. La coda alta da samurai s’era ammorbidita, ma non l’aggiustò.
Non è poi un grande prezzo… se mancherò soltanto io, vero?
L’uomo in nero lo aspettava al centro della corte.
Alzò la testa, cercando di non vacillare. Mai come in quel momento aveva desiderato la presenza dei suoi genitori, degli amici, di tutte le persone che a casa lo facevano sentire intrappolato.
Ma quella era la vita che aveva sempre desiderato: combattere usando lo stile Hiten Mitsurugi. Difendere gli altri. Guardare in faccia il pericolo.
E ora la morte gli sorrideva.
Dèi… quant’era stato immaturo! Quanta tracotanza nei suoi desideri, nelle sue azioni! Che abisso di stupidità…
Lui non sapeva niente, assolutamente niente. Aveva trascurato le reticenze di suo padre con orgoglio, tragicamente ignaro degli orrori annichilenti della carneficina. Si era sempre considerato intelligente, sempre un passo avanti rispetto a tutti; e con quella presuntuosa sicurezza aveva commesso un errore imperdonabile. Solo adesso ― oh certo, solo adesso che era troppo tardi ― capiva.
Ma pensare era troppo difficile.
Quanto tempo aveva? Come doveva attaccare? Le parole di Hiko gli vennero in aiuto: «Per prima cosa, il punto debole.» Il punto debole… ma quale, se non aveva ancora visto combattere il suo avversario?
Il sole brillò sulla lama bifronte della nagamaki e la sua attenzione, sempre più incerta, si concentrò sul metallo. Una spada lunga.
Armi con poche abilità e ampio angolo cieco.
«Non attacchi?»
Cercò di non dare a vedere che si piegava sulla destra per risparmiare il fianco ferito.
«Sei tu l’aggressore.»
L’uomo nero scoprì una lunga fila di denti bianchi, affilati come coltelli.
Kenji ebbe un lampo. Sapeva cosa usare.
«Ma guarda, hai ragione. In effetti» la nagamaki si mosse, ingannevole nel suo riflesso «hai un aspetto così pessimo che conviene approfittarne.»
Sì, doveva pareggiare il loro stato fisico, se voleva aver qualche possibilità. E c’era solo un modo.
Il Noto-jutsu!
L’uomo gli venne incontro, veloce, e Kenji scattò, brandendo la spada nella destra e la guaina nella sinistra.
Il Noto-jutsu, contrario del Batto-jutsu, assordava gli avversari col sibilo provocato dall’attrito tra guaina e lama, togliendo il senso dell’udito e dell’equilibrio.
S’abbassò ed evitò un colpo di taglio. Poi balzò.
Arrivato all’altezza della sua testa, vide i suoi occhi dilatarsi. Impugnatura e guaina si toccarono, scattando e chiudendo completamente la sakabato.
Si preparò ad atterrare alle sue spalle, portando avanti il ginocchio destro.
Ma l’impugnatura della nagamaki sbucò dalla schiena dell’avversario, venendogli incontro. Sgranò gli occhi.
Fu colpito in pieno stomaco.
Risucchiato all’indietro dall’impatto, cozzò contro la terra e il dolore esplose, strappandogli un grido. Mentre il suo avversario cadeva, incapace di orientarsi, il ragazzo si strinse l’addome con un braccio, si piegò in due e vomitò.
Che imbecille! Avrebbe dovuto pensarci! Se il samurai attaccava di taglio verso destra, per effetto della rotazione era inevitabile che una lunga impugnatura affondasse all’opposto.
E ora… oh no.
Oh no, no, no. Non ci vedeva. Non sentiva le gambe.
Dèi, antenati, aiutatemi.
Scrollò la testa. Dov’era la spada? Dov’era la guaina?
E la ferita sul fianco s’era riaperta.
«Ugh.»
Ho ancora una cosa da fare. Vi prego!
«Maledetto» ruggì la voce dell’uomo nero. «Ti ammazzo.»
Kenji levò il capo, sbalordito, ansando pesantemente.
Il bastardo si stava riprendendo. Perché? Il Noto-jutsu non doveva avere un effetto così breve. Aveva sbagliato qualcosa?
Il mostro rise.
«Sorpreso?» Lo vide rialzarsi, una mano sull’orecchio. Tra le sue dita colava un fiotto di sangue. «Io ho vissuto le guerre, ho visto ben altro. Tu invece sei solo un lattante.»
Rialzati, Kenji!
«La tua avventura finisce qui. Oh, non preoccuparti, sei abbastanza carino… ti lascerò vivo per mostrarti cosa fanno gli uomini adulti ai bei bambini.»
Kenji si sentì sopraffare dal disgusto.
Dèi, perdonatemi. Merita di morire.
«Col tuo fratellino sono stato sfortunato, troppi impegni per indulgere; ma ora nessuno ci interromperà. Magari potrei dimostrare sulla tua sorellina.»
L’inferno.
Dentro il suo petto sfolgorò l’inferno. La sua mano trovò il metallo della sakabato e l’abbrancò.
«Maledetto
Poi balzò.
La terra era lontana. Kenji turbinava intorno all’essere, saltando, volando, rimbalzando e colpendolo ovunque l’ira glielo comandasse, senza pietà. Niente tecniche raffinate. Gli bastava ferire, spruzzando il suo e il proprio sangue nell’aria, provando un perverso, disperato piacere.
Un uomo del genere non meritava di vivere.
«Gh.»
All’improvviso, una dissonanza.
Atterrò pesantemente a pochi metri dall’uomo, sulle ginocchia, e dovette far ricorso a tutte le proprie forze per tirarsi in piedi.
Non aveva più respiro. Il sangue gli colava lungo il fianco, uscendo dagli hakama e macchiandogli il tabi, il sandalo sinistro, buona parte del cortile. La vista sfocava.
La sua presa sulla spada era debole.
Barcollando, piantò la guaina in terra per sostenersi e rivide con l’occhio della mente il volto di suo padre.

Non l’avrebbe mai perdonato, lo sapeva; ma se Kenji provava vergogna e pentimento per ciò che aveva fatto ad altri, sapeva anche di non potergli risparmiare il dolore di quello che avrebbe fatto a se stesso. Sperava che almeno lo capisse, un giorno.
Perché non c’era altro modo.
Era ancora l’unico scudo tra quel mostro e gli altri bambini.
«Dannato ragazzino. Ora mi hai fatto incazzare.»
Rialzò la testa, deciso. «Vieni!»
Poi rinfoderò la spada, tenendola libera dalla cintura.
Batto-jutsu So Ryu Sen. La sua unica speranza. La forza di resistenza della guaina avrebbe dato abbastanza peso al suo colpo, sperava, da renderlo inarrestabile. E come ultima carta avrebbe avuto la guaina di ferro da piantargli sotto l’ascella, uno dei punti più delicati del corpo umano.
Certo, se fosse riuscito a vederci abbastanza da prender la mira.
«T’avevo promesso» sputò «che se toccavi mio fratello ti ammazzavo.»
La lama brillante della nagamaki. L’unica cosa chiara in quel mondo sfocato.
«Sei morto, Himura.»
Doveva seguirla.
Ruotava, compiendo un ampio, lento giro sino a scomparire. Per un attimo la vista tornò e Kenji vide che l’uomo prendeva la rincorsa.
Strinse le mascelle.
Tutto fu silenzio, rotto in sottofondo dai singhiozzi che il capanno non riusciva a smorzare. Poi i passi pesanti. Sempre più vicini.
Lo stop.
La lama!
Fulmineo, estrasse la sakabato e la sentì cozzare contro la terribile mannaia. Del sangue gli spruzzò in viso.
Allungò il braccio sinistro, sforzandolo per portare avanti la guaina.
Ebbe appena il tempo di sbatterne il dorso contro la mascella dell’avversario, urlando. Nello stesso momento l’enorme forza centrifuga impressa alla nagamaki, nonché i muscoli ben sviluppati di un veterano ebbero la meglio, travolgendolo.
Atterrò contro il tronco di uno dei ciliegi.
Tutto fu nero.

Kenshin attraversò il bosco correndo come aveva fatto poche volte in vita sua.
Il cuore gli scoppiava, ma l’avrebbe fermato solo la morte. Era come ripetere la folle corsa contro la spada di Enishi, per impedire che trafiggesse Kaoru; solo che stavolta non ci sarebbe stato un grottesco pupazzo a sostituire la vittima, permettendo che suo figlio ― i suoi figli tornassero da lui.
Doveva arrivare in tempo. Doveva.
Con la coda dell’occhio notò alcuni movimenti e s’accorse di non essere solo: Aoshi e Hiko l’avevano raggiunto. Rimanevano ai lati, senza tagliargli la strada, accompagnandolo.
Dopotutto, ricordò, laggiù c’erano anche i loro bambini.
Uscì dal bosco, imboccò la grande porta, volò per i vicoli.
Dèi e antenati, vi prego…

«Ugh.»
Pian piano, Kenji si sentì scivolare lungo la corteccia. E rimase impigliato in un vecchio moncone di ramo, con vesti e capelli.
No, pensò, annaspando. No!
Non riusciva a respirare. Tastò confusamente dietro di sé. La spada gli era caduta. Dove?
La stoffa del suo gi cominciò a lacerarsi.
Dov’è?!
«Maledetto moccioso. Al diavolo il tuo bel faccino.»
Perdere la spada equivaleva a morire! E lui non aveva ancora vinto…
«Adesso ti sbudello.»
Il sole sul metallo. Sbarrò gli occhi.
E il suo corpo smise di muoversi con un tremito: aveva finalmente raggiunto il limite.
All’improvviso sentì un freddo terribile. La sua gola era scoperta, la testa tirata indietro dai capelli avviluppati sul legno. Sapeva dove avrebbe mirato.
Col sangue che lo abbandonava, colse il movimento dell’avversario mentre sollevava lentamente la nagamaki, si avvicinava, bilanciava l’arma.
L’avrebbe passato da parte a parte.
Hai perso.
Padre―
«Muori

Non contava quanto soffriva il suo corpo, perché lui non era importante. Aveva ripreso la spada proprio per garantire la vita e la sicurezza della sua famiglia.
Presto Kenshin giunse all’Aoiya, affiancato dal suo padrone.
E non aveva tempo di usare la porta.
«Aoshi!»
Si capirono con uno sguardo. L’okashira agganciò al volo il suo piede e lo proiettò in aria, facendolo arrivare al secondo piano con uno slancio impossibile per le sue gambe.
Appena sfondata una delle finestre, Kenshin era di nuovo in piedi, abbandonava la stanza, raggiungeva il corridoio, ne spalancava un’altra; e guardava fuori.
Quasi ucciso sul colpo.
Il vecchio Okina, steso sul ciottolato in una posizione innaturale.
Shiro e Kuro, privi di sensi vicino ad altri uomini, che recavano i segni della sconfitta.
E, là in fondo, dove la battaglia imperversava ancora, suo figlio, dondolante dal tronco del ciliegio, grondante di sangue, immobile. Gli occhi spenti.
Con un demonio che muoveva la spada per aprirgli la gola.
Lanciò un urlo.
L’istante dopo gli fu addosso.

A uno spostamento d’aria il suo corpo oscillò; e Kenji avvertì la stoffa cedere lasciandolo cadere tra le radici accoglienti dell’albero.
Assalito dal torpore, si chiese se quella era la morte. Se lo era, di certo faceva meno male di tutte le botte che s’era preso quel giorno.
Un ruggito lo scrollò violentemente, spaventandolo.
No, un attimo. C’era qualcosa che doveva fare. Qualcosa d’importante. Si sforzò di sollevare le palpebre, torcendo il collo e tenendole aperte. Quella voce era familiare.
Quel suono―
Qualcuno stava combattendo con l’uomo nero. Ma chi?
Quando infine i contendenti entrarono nel suo limitato campo visivo, per un attimo il respiro affannoso gli si bloccò. Sgranò gli occhi, implorandoli di funzionare, perché voleva vedere, no, doveva ammirare suo padre combattere, agile e forte, familiare e straniero al contempo.
Sapeva che era lui: avrebbe riconosciuto i suoi capelli in mezzo a mille. Forse anche perché era un’altra cosa che condividevano.
Seguì i suoi movimenti, precisi e letali sebbene stanchi. Adesso capiva la reverenza che accompagnava i racconti sull’assassino Battosai.
Sì, era tutto vero.
Combatteva come un demonio.
Con un ultimo ruggito, spezzò la nagamaki e colpì il nemico in piena faccia. Questi cadde senza un gemito.
Poi suo padre indietreggiò, abbassò la spada e corse da lui. Altre figure si muovevano sullo sfondo.
Era venuto. L’aveva protetto, ancora una volta.
Salvato nonostante tutto…
Sopraffatto dalla vergogna, pianse.

Kenshin guardò il corpo dell’uomo, esausto. Poi si volse e, con difficoltà, si precipitò dal figlio.
«Kenji.»
«Papà» chiamava Inoi da lontano, sconvolta.
S’inginocchiò presso il ciliegio, raccolse Kenji e vide che piangeva silenziosamente.
«Kenji!»
Da vicino aveva un aspetto terribile. Il suo viso spento e i capelli, scarmigliati, erano imbrattati di sangue, così come il suo piede, la gamba e… il fianco.
La sua mano toccò la stoffa del gi nero, trovandola zuppa.
Aprì l’indumento per trovare una fasciatura fresca, stretta ma non abbastanza da impedire ai punti di strapparsi. Ecco la ferita che aveva macchiato la montagna.
C’era sangue dappertutto.
«Pa…pà.»
Dappertutto tranne che in suo figlio.
«Sono qui» rispose, spostandolo e stendendolo piano sull’erba.
Dèi santi, vi scongiuro.
«Kenji, sono qui, guardami.» Lo fissava, ma i suoi occhi erano vacui. «Aoshi, maestro! Portate dell’acqua, bende, qualsiasi cosa!» gridò, quasi strangolandosi. «Kenji, stammi a sentire. Adesso ti fascio la ferita, ma ho bisogno del tuo aiuto, d’accordo? Hai capito?» Lo vide annuire. Gli toccò una guancia, trovandola gelida. «Kenji―»
No, prima doveva spostarlo da lì. Faceva troppo freddo.
Il ragazzino uggiolò piano quando lo sollevò, e Kenshin lottò per bilanciare fra le braccia il suo peso non più infantile.
«Papà.»
Premette la guancia contro la sua fronte madida, avanzando verso l’Aoiya.
«Sì?»
«Mi dispiace
Erano due parole che non si associavano mai a Kenji. Kenshin lo strinse più forte, provando una profonda, buia disperazione.
Perché, perché era arrivato così tardi?
«Avevi ragione tu…»
«Non importa. E’ passato. L’importante è che tu ti rimetta.»
«E invece importa» mormorò il figlio, trascinando le parole. Stavano entrando nella locanda e lo scalino gli strappò un sospiro. «Avevi ragione su tutto…»
Lo stese su un futon, mentre intorno si scatenava il purgatorio.
«No, non è―»
«Ti ho deluso… mi dispiace. Non pensavo tutte quelle cose.»
Stava delirando. Kenshin finì di spogliarlo con mani che tremavano.
«Non penso che tu faccia pena.»
Tolse la vecchia fasciatura.
«Lo so…»
La mano di Kenji s’attaccò alla sua manica.
«E ti voglio bene
«Lo s―»
Nel tamponare la ferita, quasi dissanguata, l’uomo fu soffocato da un singhiozzo. E chinò la testa.
Un immenso dolore e un’immensa gioia insieme erano troppo per un lasso di tempo così breve. Kenji aveva salvato suo fratello, protetto i bambini e gli Oniwabanshu senza tradire gli insegnamenti ricevuti, era tornato da lui; e proprio ora…
Legò la nuova fasciatura, tergendosi il volto col dorso della mano. Poi si sentì finalmente in grado di affrontarlo.
«Kenji, io… non c’è niente… niente che non farei per te. Ascolta…»
Piano, si chinò in avanti e gli prese il volto fra le mani, piangendo a sua volta.
«Ti prego, non pensare mai più―»
Ma le parole gli morirono in gola.
Suo figlio non lo sentiva più.



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Proverbio: chi si fa notare o si comporta male dovrà presto o tardi abbassare la cresta.
   
 
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