Storia partecipante all’ “Uchiha Angst Contest” indetto da Ayumu_7 sul Forum di EFP
Pacchetto Susanoo: Uchiha crudele
Prompt: il sapore del sangue sulle labbra
Note introduttive dell’autrice
Buongiorno a tutti ^^
Pace di sangue è un titolo che vuole alludere al luogo e al
momento in cui si svolge la storia. Fonte ispiratrice sono stati i capitoli
400, 590 e 606 grazie ai quali sono finalmente riuscita ad associare Obito al
misterioso complice di Itachi durante lo sterminio
del clan Uchiha, ed è proprio durante quest’ultimo
che si muovono i due protagonisti.
Obito Uchiha, infatti, è uno dei
personaggi che più di tutti mi ha fatto riflettere. In questa breve one-shot spero di aver reso al meglio il suo cambiamento,
cercando di analizzare come le speranze e i sogni del ragazzo gentile si
tramutassero in disperazione per la perdita della persona amata, e come questa
disperazione abbia innescato un annullamento della parte positiva della sua
personalità, lasciando spazio a una crudeltà nei confronti delle vite umane
tale da spazzarle via in nome del raggiungimento di un progetto più grande. Il
tema della pace, inoltre, ritorna spesso nelle considerazioni del protagonista ormai
disinibito e incapace di credere in un ideale così sfuggente.
Il pacchetto era ‘l’Uchiha
crudele’, ma penso che nessuno nasca con questa intrinseca personalità, credo
piuttosto che sia la durezza della vita a plasmare i tratti negativi degli
antagonisti, ed è con questa convinzione che ho scritto questa introspezione
del personaggio di Obito, immaginando che dietro la sua spietatezza non ci
fosse altro che il tormentato desiderio di creare quel mondo illusorio in cui Rin fosse ancora viva.
Qui si aggancia il prompt. Avrei
potuto usarlo in maniera più incisiva, lo so, ma non è stato facile far sentire
il sapore del sangue sulle labbra a un personaggio perennemente mascherato. Ho
voluto quindi creare una contrapposizione tra il sapore amaro del sangue di Rin, riferito al passato e inteso come senso di sconfitta
provocato dalla sua morte, e quello dolce ed appagante che Obito assaggia
appositamente nel bel mezzo della strage del clan Uchiha,
percepito come liberazione e come raggiungimento di uno dei tanti obiettivi in
vista del traguardo finale.
La quasi fusione tra la personalità di Obito e quella di Madara, infine, accentueranno il passaggio alla persona
cinica e spietata che ci appare nel capitolo 599, quando Naruto
riuscirà finalmente a far cadere quella benedetta maschera.
Pace di sangue
«… “Come hai saputo di me?”
“Sei riuscito a
superare le difese degli Uchiha e sei riuscito a
leggere la sacra stele dentro il santuario di Nakano.” […]
“Allora probabilmente
saprai che sono un Uchiha e che ce l’ho sia con il
villaggio che con il clan.” […]
“Ti aiuterò a
vendicarti degli Uchiha ma non dovrai fare nulla
contro il villaggio… e contro Sasuke Uchiha.” …»
(Masashi Kishimoto, Naruto Shippuden, cit., capitolo
590)
Sangue.
Inzuppava
i vestiti.
Schizzava
sulla pelle.
Colava
sulle dita.
Rendeva
scivolosa la presa sulla spada.
I
suoi occhi vedevano rosso, le narici inspiravano l’odore appagante della morte
e della disperazione, le mani componevano sigilli, afferravano lame, infliggevano
ferite, mentre gli arti inferiori si liberavano dei cadaveri. In quel caotico frantumarsi
di ossa, lacerarsi di tessuti e spezzarsi di vite il suo udito era fisso sulla
stessa frequenza sin dal primo omicidio, un fischio prolungato che ronzava in
testa come pura follia.
Era
solo l’inizio, e l’inizio comprendeva l’annientamento del clan Uchiha insieme alla debolezza e alla volubilità che
l’avevano infettato. Sollevò con un dito la parte inferiore della maschera e si
passò una mano sulle labbra leccando dalle dita il sangue che le impregnava.
Era
dolce il sapore di quel nettare espiatorio, sapeva di vendetta e aveva il gusto
del rancore, era musica per i suoi sensi e pace per la sua anima, era tutto
quello di cui aveva bisogno per sentirsi vivo in quel mondo che avrebbe presto
risucchiato nella sua illusione infinita.
Chi
era lui?
Non
era nessuno. Aveva già soppresso il suo essere molto tempo prima quando aveva
conosciuto la disperazione. Adesso era solo una pedina in mano al destino, un
destino che si stava sforzando di riscrivere creando quel mondo immaginario
immerso in un sogno eterno, un mondo dove non esistevano guerre, sciagure e
costernazione, un mondo dove avrebbe potuto finalmente rivedere il suo sorriso.
Rin.
Non
c’era notte che passasse senza rivedere il suo viso. Era bella Rin, era la prima ragazza di cui si era innamorato e
l’unica che avesse mai amato. Rin era il suo
universo, il suo traguardo, il suo tormento. Ne ricordava ancora il volto tondo
dai lineamenti perfetti, gli occhi vivaci e il sorriso gentile, ricordava il
timbro vellutato della sua voce e la spontaneità di ogni suo gesto. La mente
aveva scolpito ogni minimo dettaglio di quella ragazza, dalle movenze alle
espressioni, e ogni notte il subconscio li rendeva talmente perfetti che gli
sembrava di poterla toccare, di poterla abbracciare, baciare, sussurrarle
all’orecchio quanto ancora l’amasse nonostante tutti gli anni trascorsi nella
solitudine e nello strazio del suo intangibile ricordo.
L’immagine
del suo corpo esanime macchiava i suoi sogni di un insopportabile dolore. Era
come se le braccia avessero memorizzato ogni percezione provata in quei secondi
di folle disperazione, come se rivivesse attimo per attimo quell’angosciante
sensazione di vuoto che aveva provato stringendola per l’ultima volta contro il
proprio petto. Poteva sentire ancora il calore abbandonarla e il sangue scorrere
come un fiume tra le sue dita.
Riviveva
ogni notte il tormento dei ricordi e rammentava a se stesso la promessa che
aveva fatto quel giorno, quando per la prima volta aveva avuto il coraggio di
toccare la sua pelle diafana macchiata da rivoli cremisi e aveva avuto la forza
di sussurrarle quelle parole sfiorandole la bocca livida ed esanime.
Creerò un mondo dove tu sei
ancora viva.
Quella
promessa sapeva di amaro, così come amaro era il sapore del sangue di Rin sulle proprie labbra. Ricordò di aver guardato Kakashi a terra privo di sensi e di non aver provato altro
che indifferenza nei suoi confronti.
L’amaro era il sapore della sconfitta, e in quel momento avevano perso
entrambi permettendo che lei morisse sotto i loro occhi.
Se
ogni notte riviveva l’angoscia per la perdita dell’unica persona che avesse mai
amato, ogni giorno quell’angoscia si trasformava in rabbia e rancore. Per Rin aveva frantumato i suoi ideali, calpestato i suoi
desideri e annullato se stesso. Non esisteva più nulla del ragazzo gentile e
imbranato che sognava di diventare Hokage, non dopo
che lei era morta, non dopo che la sua ragione di vita era stata spazzata via
come una foglia investita da una tempesta.
Dopo
l’incidente che l’aveva costretto a quella lunga riabilitazione non aveva voluto
credere al suo anziano salvatore quando lo ammoniva sul dolore, la sofferenza e
il vuoto che si celavano nella realtà, non gli aveva dato ascolto mentre affermava
la corrispondenza di un’ombra a qualsiasi luce, di un perdente ad un vincente e
che l’odio nasceva sempre per proteggere l’amore.
Mai
nulla era stato più vero, anche se in quel momento aveva rifiutato di capirlo
preso com’era dal pensiero della guerra che imperversava e dalla convinzione di
poter finalmente proteggere i propri compagni grazie allo Sharingan
che aveva risvegliato. Era stato sordo alle profetiche parole di quel vecchio e
non aveva creduto nel progetto di quel mondo ideale quando lui lo aveva
esortato ad appoggiarlo in cambio di aver avuto salva la vita.
Stupido.
La
verità era che non aveva vissuto abbastanza a lungo per comprendere quanto il
mondo fosse un inferno. Adesso lo sapeva.
Adesso lo viveva.
Non
c’era più spazio per i sentimentalismi in quella dimensione temporale destinata
a scomparire, non c’era più spazio per la disperazione e per la frustrazione. Che diritto avevano gli altri di essere
felici quando a lui era stata portata via ogni cosa? Che diritto avevano di
amare quando a lui non erano rimasti altro che polvere e ricordi? E per quale
motivo il mondo perseverava in questa discriminazione tanto straziante? Ogni
minuto, no, ogni attimo trascorso in
quella malefica realtà non faceva altro che alimentare le fiamme di quel
tormento che si portava dentro, rendendo vano qualsiasi sentimento che non
fosse rancore, vendetta e desiderio di cancellare ogni cosa.
Aveva
sposato la causa del suo vecchio salvatore, aveva sposato la causa di Madara Uchiha.
Gli
ideali del suo antenato adesso erano i suoi: i risentimenti, la rabbia, la
crudeltà e quella dura determinazione di fronte alle difficoltà gli erano stati
infusi come una balsamica purificazione dai valori che la vita gli aveva
insegnato fino a quel momento, valori fugaci e frivoli come la durata
dell’esistenza umana nel bel mezzo di una guerra.
Così
aveva smesso di essere Obito, così aveva smesso di essere se stesso facendosi
chiamare Madara.
Quel Madara.
E
adesso portava a termine la vendetta nei confronti del clan Uchiha
come se fosse la sua, come se gli Uchiha avessero
voltato le spalle ad Obito e non al suo famoso predecessore. Gli venne da
ridere a quel pensiero. Il clan aveva rinnegato Madara
guidato dal desiderio di una pace duratura, la stessa pace che li aveva
condotti all’emarginazione e alla relegazione in quell’angolo del villaggio che
adesso stava diventando la loro tomba.
Ironia
della sorte, il vecchio aveva ragione.
La guerra nasceva per
proteggere la pace e la pace non poteva esistere senza spargimenti di sangue.
Quel
mondo andava cancellato.
Si
mosse fulmineo in mezzo alla carneficina beandosi nel respirare l’odore rancido
della disperazione, la stessa che aveva provato lui nel perdere tutto. Vedeva
rabbia e paura nello sguardo di chi osava affrontarlo e poi soccombeva, vedeva
terrore e sgomento negli occhi innocenti dei bambini, supplica e tormento in
quelli delle donne, una miscela di sensazioni che nemmeno una volta avevano
toccato il suo cuore diventato di pietra e nemmeno una volta avevano fermato la
sua lama impedendo che il sangue schizzasse in ogni direzione.
E
lui? Cosa trasmettevano i suoi occhi? Che cosa vedevano le sue vittime quando
inevitabilmente venivano sopraffatte dalla sua forza?
Goduria?
Pazzia? Probabilmente era così. Era un folle e spietato vendicatore che non
avrebbe più provato alcuna compassione in quella malvagia realtà. Si era
conformato in tutto e per tutto alla crudeltà di quel mondo ingiusto e aveva
smesso di essere umano già da molto tempo.
Scattò
in avanti sorprendendo alcuni uomini catapultatisi in strada con l’intenzione
di opporre resistenza. Dall’interno delle abitazioni i mormorii sommessi delle
mogli non erano sfuggiti al suo udito sopraffino e pensò a quanto sarebbe stato
dolce sentire lo strazio di quelle donne nel vedere la morte di coloro che
amavano, per non parlare del sublime pianto dei loro figli una volta che avessero
assistito al brutale omicidio delle loro madri. Niente l’aveva mai reso più
euforico del vedere gli avversari dimenarsi come pesci fuor d’acqua prima di
morire soffocati, e quello che quel piccolo gruppo di Uchiha
aveva fatto uscendo allo scoperto non era stato altro che finire dritto nella
sua rete pescatrice. Per quanta determinazione e quanto coraggio ci fosse stato
nel cuore corrotto di ognuno di loro, nessuno avrebbe potuto fermare la
superiorità schiacciante del suo Sharingan. La loro atroce
agonia non sarebbe durata oltre qualche secondo.
Fece
volteggiare la katana come uno shinigami avrebbe
fatto con la propria falce, attivò il potere concessogli dall’unico occhio
cremisi che gli era rimasto e rese immateriale il corpo ad ogni attacco fisico.
Di lì a qualche attimo avrebbe scorto lo stupore nel volto di chi lo
fronteggiava e, in seguito, il terrore di avere a che fare con un fantasma
sanguinario che non avrebbe risparmiato nessuna delle loro vite.
In
un certo senso era vero. Era il fantasma di un antenato cinico e vendicativo
che non avrebbe guardato in faccia nessuno pur di raggiungere i propri
obiettivi, e Obito era diventato esattamente come lui, aveva annullato se
stesso per lasciare il posto a quella parte irrazionale della propria anima costretta
a risvegliarsi dopo aver perso tutto quello in cui valeva la pena credere.
Superò
i corpi esanimi che giacevano al suolo scomposti come contorte marionette; le espressioni
di paura e di rassegnazione impresse sui loro visi rendevano piacevole ogni
scelleratezza compiuta in quella notte di sangue, così come rendevano appagante
la consapevolezza di essere l’unico in grado di portare alto lo stendardo di Madara.
Si
introdusse nella prima abitazione donando ai passi lo stesso suono che hanno i
rintocchi del tempo che scorre, un rumore secco e ritmico come la lancetta di
un orologio, il rumore angosciante della morte che si avvicina. Ignorò le
suppliche delle donne e i lamenti dei bambini, la saettante katana recideva
ogni vita che si imbatteva lungo il suo percorso, colpevole o innocente che
fosse.
La
scena si ripeté nella dimora successiva e in quella dopo ancora.
Osservò
il filo della lama smussato dalle troppe esistenze spezzate e ne pulì il
metallo con il palmo della mano, creando sulla lucente superficie un alone
scarlatto e opaco. Sollevò ancora una volta la maschera per assaggiare il
frutto del proprio odio.
Quel
sangue sapeva di buono, sapeva di uno dei tanti traguardi che avrebbe dovuto
raggiungere per creare la realtà perfetta che tanto bramava, come se il sapore ferroso
che sentiva sulle labbra non fosse associato alla parte dolorosa del proprio
passato quanto all’espiazione di quest’ultimo e dei suoi ideali fugaci. Si rese
conto che non aveva più importanza se sotto i suoi piedi scorresse un fiume carminio
cosparso di cadaveri, era disposto ad ogni cosa pur di ingannare la sua stessa
ragione portandola per sempre in un sogno felice.
Udì
delle urla provenire da un gruppo di abitazioni. Arrestò il suo cammino per
ascoltare la leggera brezza della notte portargli alle orecchie il suono della
disperazione, un suono che per lui era diventato musica e liberazione. Si
soffermò sui lamenti strazianti che provenivano da quegli edifici e provò
ribrezzo per il proprio clan, talmente intorpidito rispetto ai suoi antichi
fasti da non essere nemmeno riuscito a difendersi dallo sterminio.
In
nome di quella pace tanto agognata gli Uchiha avevano
inconsapevolmente scelto la morte, una fine ironicamente sancita dalla spada
insanguinata di chi portava il loro stesso cognome.
Scorse
la figura scura ed esile del proprio complice uscire lentamente dall’ultima
dimora presa d’assalto, i suoi lineamenti duri e marcati divennero visibili
dopo che ebbe compiuto qualche lento passo nella sua direzione. Intorno a loro
regnava il silenzio.
Itachi era colui grazie al
quale quella vendetta tanto spietata era stata possibile, era l’uomo che aveva
preso in mano il destino degli Uchiha.
Uomo?
No. Era solo un ragazzino cresciuto troppo in fretta e segnato per sempre dalla
crudeltà della guerra. Ricordò la sensazione di stupore nell’apprendere che
quel giovane membro del clan era riuscito a scoprire la sua presenza e capire
le sue intenzioni, in quel momento aveva pensato che forse non tutti i suoi discendenti
erano stati infettati da quell’oblio che li aveva resi schiavi dei loro nemici,
forse c’era ancora qualcuno che avrebbe potuto ereditare gli ideali di Madara Uchiha.
Dovette
ricredersi nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono in mezzo alla
carneficina appena compiuta.
Nei
suoi occhi aveva visto il vuoto, l’inespressività e la freddezza, aveva visto
la meccanica spietatezza con cui stroncava l’esistenza dei suoi familiari e
aveva visto la determinazione a non guardarsi mai alle spalle per evitare
esitazioni. Non c’era soddisfazione negli occhi di Itachi,
né goduria, solo un profondo, straziante e velato dolore.
Faceva
tutto questo per Konoha, faceva tutto questo per la
pace.
Un
misto di rabbia e delusione segnarono il volto di Obito perennemente celato
dalla maschera, nemmeno quel ragazzo era diverso dal resto della feccia.
«Una
pace transitoria vale tutto questo?» lo
provocò volutamente quando ormai erano a pochi metri di distanza l’uno
dall’altro. «Una pace instabile vale la tua vita?»
L’altro
rimase in silenzio per qualche secondo senza mai voltarsi verso di lui,
osservava con costernata apatia la distesa di cadaveri intorno a loro e non
sembrava provare apparente rimorso per quel massacro che aveva trasformato il
nero della notte nello scarlatto rosso del sangue.
«Sono
Itachi Uchiha del Villaggio
della Foglia» gli rispose infine, guardandolo
nell’unico occhio visibile con un velo di minaccia nei tratti ipnotici dello Sharingan. «Farò qualsiasi cosa
per proteggere la pace».
Obito
rise.
Pace?
Che cos’era veramente la pace? Cosa poteva definirsi pace quando alle spalle
del quieto vivere scorrevano fiumi di sangue?
Pace non era nient’altro che
un’idea, un’utopia. Era un concetto che aveva ormai perso ogni valore.
La
pace non poteva esistere in quel mondo.
«Non ho più bisogno di
te»
riprese il giovane Uchiha, non interrompendo nemmeno
per un secondo quel contatto visivo carico di minaccia.
Obito rise ancora, una risata amara e
carica delle sue riflessioni.
Gli uomini diventavano ciechi nel nome
di un ideale e sordi a tutto ciò che da esso si discostava. Non importava
quanto Itachi fosse forte, né quanto fosse
intelligente per comprendere quanto il progetto ‘Occhio di luna’ fosse perfetto, probabilmente in nome della pace
avrebbe affrontato persino il fantasma di Madara Uchiha, lottando fino alla morte se solo questi avesse
osato attentare all’ideale che aveva difeso spargendo il sangue della propria
famiglia.
Per
un attimo fu pervaso dall’istinto di provocarlo ancora, di affrontarlo sul
campo di battaglia come aveva fatto con tutti i membri del clan caduti sotto la
spietata crudeltà della sua spada, i suoi sensi fremevano a quel pensiero e le
sue membra non erano mai state così pronte ad ingaggiare battaglia.
Furono
dei passi veloci a riportarlo alla realtà, passi piccoli e concitati che
riecheggiavano lontani in quella spettrale atmosfera pervasa dal silenzio e dalla
morte.
Itachi parve distrarsi a
quel rumore, la sua espressione si corrucciò in una smorfia dolorosa.
Sasuke stava arrivando.
«Ci
rivedremo» affermò Obito, mettendo da parte il
folle pensiero che l’aveva sfiorato. Avrebbe trovato il modo di sfruttare quel
ragazzo, con o senza il suo consenso, era una valida pedina che non avrebbe
avuto senso eliminare troppo presto.
Rimirò
la distesa di cadaveri che lastricava le strade e si sentì appagato al pensiero
di essere in parte lui stesso l’artefice di quell’efferato sterminio. Si incamminò
per la mortifera valle silente con una sensazione di superiorità che continuava
a gonfiargli il petto già da qualche tempo. Probabilmente era arrivato il
momento di tessere la ragnatela che avrebbe intrappolato il mondo
nell’illusione più grande che si fosse mai creata.
Pace?
Altro che pace. Una volta che i fili si fossero cominciati a muovere come una
marionetta silenziosa non ci sarebbe stato più spazio per la pace, ogni sua
azione, da quel momento in poi, sarebbe avvenuta con un unico scopo:
distruggere il mondo in cui era cresciuto, distruggere il mondo dei ninja e la
sofferenza che da sempre lo aveva imprigionato.
Chi
era lui?
Lui
era Uchiha Madara.
L
u c i n d a