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Autore: CassandraBlackZone    01/05/2015    3 recensioni
AGGIORNAMENTO: 13° capitolo
[Jeff the Killer]
È impossibile. È una sua complice. L’ha tenuta in vita per uccidere più persone: è un’esca umana. Ci farà ammazzare tutti.
No, è inutile. Ogni giorno cerco di farmi coraggio e provare a raccontare la mia versione, così da smentire ogni sorta di voce, ma non ci riesco. Io vorrei davvero… raccontare cosa successe realmente quella notte di un anno fa. La notte in cui i miei genitori vennero uccisi.
Il mio nome è Elizabeth Grell. Sedici anni. E sono sopravissuta al tentato omicidio di Jeff the killer.
Genere: Azione, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeff the Killer
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Facendo attenzione a non sfilarlo dalla cartelletta, Ben esaminò il messaggio insanguinato. Ad occhio capì che era stato scritto al momento e con le dita. Come me, fece una smorfia chiedendosi a chi appartenesse il liquido viscoso ormai seccato.
«Come pensavo. Deve averti scambiato per Liu quella notte e da allora, ti sta seguendo.»
«Io… io non…» Ancora non potevo crederci. Continuavo a negare scuotendo la testa, ad indietreggiare ogni volta che i ragazzi cercavano di avvicinarsi a me; in quel momento, avrei tanto voluto scappare, correre finché qualcuno non mi avrebbe fermata e detto che tutto era una bugia. Jeff the Killer, non mi aveva risparmiata per pietà nei miei confronti, non sono una sopravvissuta, io semplicemente gli ricordavo il fratello da lui stesso aveva ucciso. Tutto qui.
«Perlomeno… possiamo affermare che lui un cuore ce l’ha ancora. Insomma, attraverso Lizzie possiamo…»
«Che mi dici di tutte le persone da lui uccise finora, Matt?» lo interrupe Ben aggressivo «Cos’è? La sua sensibilità va per caso a momenti?»
«Sto solo cercando di dire, che…»
«Ho capito cosa stai cercando di dire e credimi, non è così. Cercavi di tirare su di morale Lizzie? Be’, sappi che è tutta fatica sprecata!»
Inaspettatamente, Matt si alzò dalla sedia così velocemente da farla cadere all’indietro. I suoi occhi verdi parevano pulsare per quanto era arrabbiato «Ascoltami bene, Ben, solo perché sei tu il capo, non vuol dire che tu possa trattarci come ti pare! So perfettamente come ti senti dopo questa rivelazione. Lizzie è anche nostra amica, non solo tua! Credi che noi non ci teniamo a lei?!»
David cercò di calmarlo prendendolo per un braccio, mentre io rimasi così allibita da non riuscire a muovermi: i miei occhi, purtroppo, erano ancora impegnati a fissare il mio riflesso e la foto sorridente del giovane Liu.
«Certo che lo so!» urlò Ben facendomi sobbalzare e alzare lo sguardo «Ma non lo vedi, Matt? Le cose ora si stanno complicando e diventando più pericolose. Non lo dico perché Jeff si aggira nella città più di prima, ma perché Lizzie è in grave pericolo, più di chiunque altro, e non saranno di certo delle belle parole a risolvere la situazione!» Ben scaricò la sua rabbia, prendendo a calci la sedia più vicino a lui.
Attoniti, David e Matt lasciarono che si sfogasse, prima di potergli parlare.
«Ascolta, Ben. Arrivati a questo punto… non possiamo fare altro se non chiedere aiuto alla polizia.»
Ben non rispose e si limitò a tenere gli occhi sul foglio stropicciato di Jeff.
«Matt ha ragione. Come hai detto tu, è diventata una cosa troppo grande e noi non possiamo fare niente. Sei d’accordo anche tu, Lizzie?»
Il mio sguardo e quello di David erano divisi dalle lenti dei suoi occhiali; non riuscii a coglierlo, come anche le sue parole. D’istinto, scossi la testa «No.»
Tutti, compreso Ben, urlarono all’unisono, senza nascondere il loro stupore spalancando gli occhi.
Se prima la mia mente era confusa e offuscata da mille pensieri, ora era come se tutto mi fosse più chiaro. Ora, sapevo cosa dovevo fare, come risolvere quell’assurda situazione.
Per l’ultima volta, i momenti di quell’anno passato nel terrore e nell’angoscia si aprirono nella mente come delle finestre: i corpi dei miei genitori senza vita sul divano, Jeff che piange davanti a me, il rifiuto della polizia, della mia famiglia, dei medici e dei miei amici, erano diventati di colpo un mero ricordo. Non perché tutto a un tratto avevo deciso di dimenticarli, ma li avevo, per così dire, archiviati per fare posto a questa mia nuova meta da raggiungere. Mi sentii leggera, più di quanto non lo fossi stata.
La sicurezza con cui riuscii a gestire lo spiacevole episodio in quella sala computer, tuttora mi lascia perplessa; tuttavia, quella strana sensazione che provai mentre vidi passarmi davanti la mia vita, è ancora presente dentro di me.
«Lizzie? Che stai dicendo?» mi chiese Ben, appoggiando le sue mani sulle mie spalle «Te ne rendi almeno conto?»
«Ora ti sei calmato?»
«Lizzie, senti…»
«No. Ora siete voi che mi dovete ascoltare.» aspettai che Ben si allontanasse da me, per poi avere l’attenzione di tutti «È il momento di porre fine a questa storia. Proprio come ha detto Ben, le belle parole non mi aiuteranno di certo, ma non mi aiuterà nemmeno raccontare tutto alla polizia.»
«Perché?» domandò Ben, visibilmente arrabbiato.
«Perché non mi ascolterebbero. Vedendomi, non mi crederebbero. È stupido, ma purtroppo è vero.»
Una pausa di silenzio ci divise, lasciando anche il tempo ai tre di interrogarsi sul da farsi.
«Anche se non ci sono prove, di sicuro è stata lei. Uno dei due poliziotti che mi interrogò un anno fa, disse questo alle mie spalle.»
«Bastardi…» commentarono David e Matt.
«D’accordo, su questo posso darti anche ragione. Giuro che lo pensavo anche io, ma ora come ora, è l’unica soluzione. Non posso credere che tu non abbia…»
«Paura?» continuai  «Sì, Ben. È ovvio che ho paura.»
«Allora perché? Dimmi per quale assurdo motivo non vuoi farti aiutare da qualcuno che lo possa fare effettivamente?!»
Per rispondere alle domande supplichevoli di Ben, mi avvicinai alla mia videocamera ancora attaccata al proiettore e la riavvolsi fino al momento in cui io e Jeff ci guardammo. Eccolo: il mio cuore iniziò a pompare sangue più del dovuto alla vista dei suoi occhi penetranti, ma che nascondevano una nota di inquietante dolcezza «Io l’ho difeso. Lo avete visto, no? Ma non l’ho fatto perché non volevo che nonna Jo sapesse di Jeff, l’ho fatto perché io lo volevo. E ora so perché.»
Giratami verso i ragazzi, questi ultimi aspettarono con impazienza la mia spiegazione, che poi li lasciò frastornati «Ho avuto paura. Anche adesso che lo guardo immortalato in questa registrazione, ho paura. Ed è stressante, lo sapete? La paura in sé è quella sensazione di forte preoccupazione, di insicurezza e di angoscia e io sono veramente stanca di provarla ogni due per tre. Un giorno sono felice e un giorno no, questo non è vivere.»
A differenza di Matt e David, che si guardarono l’un l’altro senza capire, Ben fu l’unico ad aver compreso e scosse la testa incredulo.
«No, Lizzie… non dirlo.»
«E invece sì, Ben. Io… lo devo incontrare. Devo porre fine a questa storia.»
 
Giorno 40
 
Devo dire di non aver proprio passato un bel weekend. Quelli che avrebbero dovuto essere due giorni indimenticabili ad una fiera dell’artigianato con nonna Jo, alla fine risultarono un vero incubo.
Peggio di una madre apprensiva nei confronti della figlia, Ben mi tartassò dalla mattina alla sera con una serie di messaggi con l’intento di persuadermi a ritirare la mia decisione, ma questa volta la sua eloquenza non ebbe alcun effetto su di me.
 
Jeff the Killer, dopo un breve periodo di apparente tranquillità, ha ripreso in mano il coltello per continuare la sua carneficina.
 
Questa mattina, nemmeno i telegiornali ebbero effetto. Ignorai incondizionatamente la voce tremante dell’inviata sulla scena del delitto, una stazione di servizio vicino alla città, mentre descriveva le sette vittime: semplici e innocenti clienti delle cinque del mattino, assidui lavoratori del turno di notte, pronti a ritornare a casa dopo un’adeguata colazione. Un po’ titubante, la donna aggiunse anche i due cassieri accoltellati e nascosti sotto il bancone. Le telecamere, nonostante la loro solita e pessima qualità delle registrazioni in bianco e nero, aveva immortalato ogni azione di Jeff a partire dall’entrata del bar e poi al suo interno.
Davanti a quell’orrore, provai rammarico e pena per le famiglie addolorate, ma diversamente da qualche settimana fa, quei sentimenti scomparirono appena riposi la mia attenzione sulla tazza di caffelatte: amaro, ma leggermente addolcito da tre dita di latte, proprio come piaceva a me e come mi sono sentita in questi due giorni. Non mi ci volle molto a capire cosa mi stesse succedendo, era facile: ero diventata improvvisamente insensibile non solo nei confronti di qualcuno, ma anche nei miei confronti. Ero diventata una pseudo sadomasochista?
Scopro una tremenda e agghiacciante verità e io… sono calma e indifferente? No. non è normale. Non lo è assolutamente. Ho paura che… avrò seriamente bisogno di una nuova psicologa.
Il campanello della porta mi aiutò a scacciare quel fastidioso pensiero. Aperto l’uscio, un brivido percorse tutto il mio corpo partendo dalle braccia: era Ben.
«Ben? Che… che cosa ci fai qui?»
«Ciao» disse lui, con una punta di imbarazzo «Hai… già fatto colazione?»
Annuii.
«Bene. Anche io.» vedere l’intrepido leader maledirsi colpendosi la fronte con la mano, aiutò a sciogliere la tensione fra di noi, facendoci anche dimenticare il pessimo weekend. «Senti io… non so cosa dire per… i messaggi.» l’imbarazzo che colorava di rosso le sue guance faceva così tenerezza, che non riuscii a tenergli il broncio e sorrisi.
«Allora non dire nulla» lasciai giusto due minuti Ben davanti all’entrata per prendere il mio zaino in cucina. Salutai nonna Jo dalle scale e ritornai all’entrata «Vogliamo andare?»
 
Non mi stupii che il tragitto da casa a scuola sarebbe stato a dir poco fastidioso. Ben seduto vicino alla finestra e io accanto a lui: nessuno dei due sembrò voler iniziare una conversazione.
Mancavano ancora cinque fermate. Alla terzultima, fu Ben a rompere il ghiaccio «Ora spiegamelo, Lizzie. Che cosa hai in mente?»
«Credevo di avertelo già spiegato venerdì.»
«Non ti ha sfiorato nemmeno una volta l’idea di pensare alle conseguenze?» gli occhi di Ben, come incrociarono miei, li spostò velocemente alla finestra. «Tu non eri del tutto lucida quel pomeriggio. Non eri consapevole di ciò che stavi facendo e dicendo!»
«Questo non è affatto vero.»
«Oh non farmi ridere, Lizzie! Che cosa sei diventata tutto ad un tratto? Una macchina?»
«Solo perché ho detto di volerlo incontrare non significa che sia un robot!» senza accorgermene, stavo urlando, attirando tre sguardi fugaci di sdegno. No, non ero arrabbiata, non potrei mai. Ero solo infastidita. In fondo, sapevo che- come sempre - Ben aveva ragione.
«Avere paura è umano! Tu hai cercato di nasconderla con questa tua assurda decisione. Ragiona!»
Scossi la testa. Nonostante il pullman si fosse fermato davanti a scuola già da un bel pezzo, io e Ben rimanemmo seduti. I miei occhi erano prossimi alle lacrime.
In quel momento provai una rabbia incontrollata, ma che invano cercava di manifestarsi attraverso insulti, urla e pugni, e la colpa era della determinazione impressa nelle parole e nello sguardo del moro.
Fino a quella mattina, pensavo di aver finalmente acquistato una sicurezza tale da essere immune a qualsiasi cosa, come i messaggi di Ben o il notiziario, ma evidentemente non era così. Ero nuovamente caduta sotto l’incantesimo del giovane oratore «Smettila…»
«Tu lo sai che è vero. Io non ho alcun diritto di dirti queste cose, ma lo faccio perché mi stai a cuore, Lizzie. Ti voglio bene e non voglio che ti accada nulla di male. Ne soffrirei, credimi.»
Le lacrime non poterono aspettare oltre, e così,  roventi come lava incandescente, iniziarono a scendere fino al mento.
Per Ben fu come un richiamo: senza che prima potessi dire qualcosa, lui già mi stava stringendo forte a sé. Per l’ennesima volta, mi prestò la sua spalla, su cui potei sfogarmi in piena libertà. Uno sfogo rimasto represso per ben quarantotto ore.
«Non sei da sola. Ci sono qui io. Troveremo una soluzione, non lascerò che quel bastardo ti torcia un capello.»
Io annuii affondando la testa sul suo braccio e ignorai l’autista che ci urlava di scendere dall’autobus.
 
L’ultima volta che saltai un giorno di scuola fu alle elementari. Mi ero svegliata e dissi a mia madre che non avevo voglia di andarci, e così mi portò con lei al lavoro.
Non sono mai stata una studentessa modello. I miei voti sono nella media, così come il mio comportamento eppure l’idea di perdere un giorno dopo così tanto tempo mi pareva strano, ma soprattutto ingiusto.
«Non… dovremmo andare a scuola?»
«Oggi non mi va. E nelle condizioni in cui ti trovi ora non dovresti averne voglia nemmeno tu. Come vanno gli occhi?»
«Vanno bene. Si stanno sgonfiando.»
«Meno male.»
«Che mi dici di Matt e David?»
«Ho scritto a loro un messaggio.»
«Ah, ok. Allora… che cosa facciamo?»
«Visto che siamo in centro… che ne dici di un bel gelato?»
«Alle nove e mezza del mattino?»
Ben alzò le spalle innocente «È come se mi chiedessi a che ora possiamo bere l’acqua. Forza, andiamo.»
Decisi a voler mangiare un buon gelato artigianale, iniziammo a guardarci attorno alla ricerca di una gelateria decente. Dopo cinque minuti, l’occhio mi cadde su un’enorme insegna fatta di luci al neon rosse a me familiare: era il bar gelateria Chantal’s Vanilla.
«Andiamo lì. Lo conosco, fanno un ottimo gelato.»
«Non ci sono mai stato.»
«C’è sempre una prima volta.»
Aperta la porta di vetro, due cameriere vestite in stile anni ’50 ci accolsero all’unisono con un sorriso color porpora talmente largo, che era quasi impossibile capire se fossero sincere o lo facessero per avere qualche dollaro in più sullo stipendio. Perlomeno a Ben non dispiacquero.
Cono pistacchio e cioccolato per Ben, coppetta fragola e vaniglia per me.
«Avevi ragione. È davvero buono.» commentò Ben al primo assaggio dell’anacardio verde.
«Te l’avevo detto. Ah, ora che siamo in un posto tranquillo posso dirti questo: a volte ti odio.»
Ben soffocò una risata :«E di grazia potrei chiederle perché, signorina Elizabeth Grell?»
«Io sono un libro aperto per te. Non posso nasconderti nulla neanche volendo. Tu… riesci a capirmi più di quanto ci abbia provato la Tucker.»
«Sbaglio o non la consideravi una vera psicologa? Be’, io non sono uno psicologo, ma un tuo amico. E comunque, un insulso pezzo di carta attaccato alla parete non dimostra nulla.»
«Già… senti Ben, io volevo chederti…»
«Non provare a scusarti. Sai che non ne hai bisogno.»
«Ma io…»
«Te l’ho detto. Io per te ci sono. Non hai bisogno di dirmelo ogni volta che ti scappa un’emozione.»
«Ma questa volta è diverso. È qualcosa di più… grande. Più pericoloso.»
«Finalmente l’hai capito. Ed è proprio per questo che dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno più competente. Noi da soli, non possiamo fare granché.»
«Secondo te… che cosa vuole farmi?»
Finito il gelato, Ben si mangiò in tre soli morsi il cono :«Non lo so. Mi dispiace.»
«Avresti dovuto vederlo come fissava. I suoi occhi privi di palpebre, ormai del tutto fuori dalle orbite, era come se… mi guardassero nel profondo dell’anima. Imploravano pietà, Ben. Imploravano pietà a me.» rimasto tra le mie mani da ormai una decina di minuti, il gelato era ridotto ad una pozzetta liquida rosa e gialla per niente invitante. «Quando ruppe la mia finestra e lanciò quel sasso, la prima cosa che pensai di dover fare fu chiamare mia nonna, ma invece non lo feci! Me ne stetti lì ferma e mentii spudoratamente. Ora che ci penso… ho fatto una gran cavolata.»
«Lo ammetto. Una persona in preda al panico si sarebbe messa ad urlare e a scappare. È evidente che inconsciamente tu non avevi avvertito alcun timore verso Jeff.»
«Credo… di sapere quando ho paura, non credi?» ripensai alla sfuriata di venerdì  «Oh… giusto…»
«Inconsciamente» ripeté Ben sorridendo, «può capitare.»
«Certo che… non ha molto senso.»
Le irritanti vocine delle due cameriere, mi invitarono ad alzare lo sguardo verso l’entrata e a fissare con gli occhi spalancati.
«Lizzie? Qualcosa non va?»
Fu come un fulmine a ciel sereno. La mia attenzione era completamente concentrata  sul chiodo in finta pelle nera che indossava il cliente appena entrato. Più osservavo quelle cerniere cucite al petto e sulle braccia qua e là, più ero convinta di sapere a chi appartenesse,e questo perché quella giacca l’avevo realizzata a quattro mani con Rose per Jordan.
Ironia della sorte, il mio sguardo incrociò due occhi grigi inconfondibili, che riconobbero i miei color smeraldo.
«Lizzie.» mimarono le labbra del castano.
«Jordan.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Questo periodo dell’anno mi sta uccidendo, dico sul serio… sono stata a Berlino con la scuola per una settimana e il resto l’ho passato nello studio e perciò non ho avuto tempo per continuare a scrivere…
Vediamo…  che posso dire di questo capitolo… che ho avuto difficoltà a scriverlo in quanto non sapevo come sviluppare il personaggio di Lizzie. Spavalda o disperata? Diciamo che alla fine ho scelto una via di mezzo, o almeno credo di averlo fatto ^^”.
Spero non vi abbia annoiati. Abbiate pazienza, il bello deve ancora venire.
Ciao!!
 

 
   
 
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