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Autore: MaybellineNY    01/05/2015    0 recensioni
..A Maggie non importa più di nulla. Ormai ha imparato a reprimere le sue emozioni e quello che ne è uscito è un guscio troppo solido per essere spezzato.
Sospira. Spegne le candeline e finge. Finge di essere quella che non è più. Con una mano scosta i capelli sfuggiti dalla sua coda alta e li porta dietro l’orecchia. Michael la osserva. A volte la mette in soggezione perché nonostante sia molto più grande di lei è comunque un bell’uomo e la osserva continuamente. Osserva ogni suo movimento, ogni sua espressione. E quando è così non è sempre un buon segno...
Genere: Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prologo


La neve cade da una decina di minuti ormai. Le strade sono completamente bianche e la piccola Maggie sta ancora spettando che arrivi Babbo Natale. Lo sguardo fisso fuori dalla finestra, il nasino all’insù a scrutare il cielo. Le lucine fuori dalla finestra ornano l’enorme abete nel giardino creando giochi di luce sulla neve fresca e rendendo l’atmosfera piacevole, quasi fatata. I fiocchi si fanno sempre più grandi e l’arietta fresca proveniente dagli spifferi fa rabbrividire la piccolina. Tutto attorno a lei è buio. I suoi sono ormai andati a dormire da un po’e, nonostante la mamma le avesse detto che se rimaneva alla finestra Babbo non sarebbe passato, Maggie è ancora lì. Osserva il fieno poggiato sulla veranda. I biscotti e la tazza di latte sul tavolino. Un’offerta per Babbo Natale nella speranza che le porti tutti i giochi della lista.
Un rumore, uno scalpiccio sulla terrazza attira la sua attenzione facendola immediatamente saltare giù dalla cassapanca su cui era salita. Apre la porta e piano piano, facendo attenzione a non svegliare i genitori nella stanza accanto, e scalza scende in cucina. Nulla. Tutto sembra tranquillo, tranne per un rumore sordo come di passi provenienti dalla terrazza. Incuriosita si affaccia alla finestra. La tazza è ancora là, probabilmente congelata e pure i biscotti. Eppure qualcosa la spinge ad aprire anche la  porta della cucina e ad uscire. L’aria gelida e i fiocchi di neve le scompigliano i capelli facendole battere i denti per il freddo. Il silenzio attorno a lei le fa paura, ma la curiosità è troppo forte.
Una mano la afferra da dietro facendola voltare. Maggie per la prima volta è davvero spaventata, ma allo stesso tempo è emozionata. Non sa come ma Babbo Natale è davanti a lei e la sta invitando a salire sulla sua slitta.
«Dai Maggie, non avere paura» dice tranquillamente indicandole la porta aperta della sua auto.
«Ma tu sei davvero Babbo Natale?»
«Sì piccolina, puoi fidarti di me»
Come può una bambina non dare retta ad un uomo che si dice Babbo Natale. Come può una bambina innocente sapere che quello non è chi crede che sia e che non bisogna fidarsi degli sconosciuti nemmeno se questi sono degli anziani signori con una lunga barba bianca e un bel vestito rosso. Come può una bambina di cinque anni sapere che da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato e che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori e probabilmente con il tempo avrebbe stentato a riconoscerne i volti.
Le manine infilate nelle lunghe maniche del pigiama rosa con i coniglietti che le piaceva tanto, le treccine castane che le ricadevano sulle spalle, questa era Maggie Donovan.

 
Ora non sa nemmeno più chi è. Diciannove anni, di questo è sicura perché Michael le ha portato una torta con scritto “Buon compleanno Maggie” e Elena ha aggiunto due candeline che insieme formano un diciannove.  Ancora una volta si trova a dover festeggiare il compleanno lontana da casa, ma non sa se davvero questa cosa le importa. Sono ormai passati talmente tanti anni che quasi non si ricorda nulla della sua vita passata. Ma non è sicura che le importi ricordare. Se è per questo non le importa nemmeno festeggiare quel fottutissimo giorno. A Maggie non importa più di nulla. Ormai ha imparato a reprimere le sue emozioni e quello che ne è uscito è un guscio troppo solido per essere spezzato.
Sospira. Spegne le candeline e finge. Finge di essere quella che non è più.  Con una mano scosta i capelli sfuggiti dalla sua coda alta e li porta dietro l’orecchia. Michael la osserva. A volte la mette in soggezione perché nonostante sia molto più grande di lei è comunque un bell’uomo e la osserva continuamente. Osserva ogni suo movimento, ogni sua espressione. E quando è così non è sempre un buon segno. È snervante, ma cerca di non darci peso.
È strano, con il tempo ha cominciato ad accettare questa situazione, quasi può dire di essersi in qualche modo abituata alle fin troppe attenzioni di quell’uomo e alla passività di Elena. Ormai sono loro i suoi unici punti di riferimento. Non importa quanto possano essere bastardi a volte. Lei i genitori non li ha più, perché se davvero li avesse avuti ora non si troverebbe in quella situazione. Forse è meglio così, dopotutto ha imparato a cavarsela da sola e poi nessuno l’ha mai cercata, almeno per quello che ne sa lei.
A scuola non era più andata, non a quella pubblica. Aveva partecipato ad alcune lezioni private tenute dal professor Jonson insieme ad altri ragazzi. Ha sempre avuto pochi amici e nessun “ragazzo” degno di quell’appellativo. La sua testardaggine, la sua vita complicata e la paura l’hanno portata ad isolarsi, a non cercare nulla di più di un’amicizia o del sesso occasionale.
L’unica persona che probabilmente ha un posto abbastanza importante nella sua mente è Ray, il suo per così dire migliore amico. Se così si può definire una persona con cui si passa la maggior parte del tempo a parlare, a scherzare e a fare sesso solo per passare il tempo. Si sono conosciuti al terzo anno di scuola, l’anno prima che decidessero di abbandonare tutto e dedicarsi ad altro. Ray aveva iniziato a lavorare per un carrozziere della zona, un certo Batch, mentre lei aveva trovato un lavoro in uno squallido locale in uno dei quartieri più malfamati della zona. Non ne è molto contenta, ma è l’unico lavoro che Michael non le ha impedito di fare.
Michael si è alzato facendo strusciare rumorosamente la sedia sul pavimento attirando la sua attenzione.
«Michael piantala di fare questo rumore» sbraita Elena seduta sul divano «non sento la tv».
Sta guardando una di quelle stupide telenovele che Maggie proprio non sopporta. Sbuffa e cerca di allontanarsi sempre di più dall’uomo che le si è intanto avvicinato. La afferra per un braccio e la trascina in salotto. Questo non le piace per niente.
«Che vuoi» dice atona cercando di liberarsi dalla stretta di lui sul braccio. È piuttosto forte e le sta facendo male.
«Dimmi che mi vuoi, quanto io voglio te» dice quasi implorante. La voce impastata dall’alcool bevuto e che ora sta dando i suoi frutti. L’alito pesante di lui le inonda il naso facendola arretrare di un passo. Michael però la tira verso di sé racchiudendola tra le sue braccia in una morsa d’acciaio.
«Michael smettila, mi fai male» cerca di dire lei, ma la presa dell’uomo diventa sempre più stretta. Si sente soffocare ed è sicura che se continua così le spezzerà una costola «Michael..».
«Dimmelo… voglio sentirtelo dire» biascica non lasciandola andare ma allentando leggermente la presa. Il naso affondato nei capelli di lei «Lo sai che c’è un motivo se tu sei qui con me» sussurra stampandole un bacio sulla nuca.
«Michael, ti vogliono all’ingresso» la voce di Elena che arriva dalla cucina salva Maggie ancora una volta. L’uomo le rivolge uno sguardo e si allontana. Maggie coglie l’occasione e esce dalla porta sul retro, ha voglia di aria.
Fuori il tempo è uggioso e freddo. Le nuvole grigie ricoprono interamente il cielo. La neve sui marciapiedi che si era sciolta per quei pochi giorni di sole si è trasformata in ghiaccio e ora Maggie deve fare attenzione a non cadere.
Attorno a lei le persone camminano per le strade avvolte nei loro cappotti pesanti, le sciarpe al collo e gli stivali ai piedi. Le vetrine colorate sono già addobbate per le feste imminenti e le lucine sugli alberi brillano di mille colori. Ma Maggie non partecipa a quella gioia, lei odia il Natale.
Sbuffa. Il suo fiato si condensa in una nuvoletta di vapore che si alza lentamente sulla sua testa e si disperde nell’aria di dicembre.
Il cagnolino della signora Mayer è di nuovo libero e corre in mezzo la strada facendo frenare bruscamente le auto. Maggie sorride vedendo la padrona correre dietro di lui urlando come un’ossessa. È comica come scenetta. Scuote la testa e ricomincia a camminare soffermando la sua attenzione sul lago. Solitamente Maggie, nei giorni caldi, passa il tempo ad osservare le barche che si stagliano sulla superficie dell’acqua, ma quel giorno è deserto. Forse per il freddo o forse perché stava cominciando a ghiacciarsi.
Si appoggia alla staccionata accanto al molo. Lo sguardo perso altrove, nei suoi pensieri. Nemmeno si accorge che la signora Mayer ha recuperato il cane poco lontano e che ora sta urlando contro ad una banda di ragazzini.
Non si accorge nemmeno che qualcuno la sta osservando. È completamente persa o forse finalmente libera da quella vita fin troppo complicata in cui è rinchiusa.
 
 
***
 
Dillon è felice con la sua nuova palla arancione con le palme verdi. Proprio come la voleva. Sorride a suo padre che è proprio davanti a lui.
«Grazie papà» dice correndogli incontro. E’ così felice che il cuore gli batte a mille nel petto e i suoi occhi castani luccicano di una luce particolare.
Suo padre sorride e lo solleva in braccio facendolo girare. Lui ama quel gioco. Lo farebbe mille volte senza smettere. Ride. Sua madre sul portico li guarda anche lei con un sorriso stampato in faccia. Ha appena fatto la torta quella che a Dillon e a suo papà piace tanto. Quella al cioccolato. Dillon ne sente il profumo che proviene dalla cucina e che gli solletica il nasino.
«Sono contento che ti sia piaciuta Dillon» suo padre lo poggia a terra e porta una mano sul fianco, come fa ogni volta che deve riprendere fiato. Lo guarda con un sorriso sbilenco, gli occhi azzurri puntati nei suoi.
Dillon lo osserva come solo un bambino può fare. Ama stare in braccio al suo papà. Secondo lui ha un profumo di buono e pulito. Quel giorno però qualcosa non va. Dillon se n’è accorto dall’espressione di lui. Sembra stanco e sta sbuffando. Una mano al petto e in pochi secondi tutto cambia. Sua madre urla, suo padre è a terra immobile. Non sa che fare, così rimane fermo. Come pietrificato.
Pochi minuti e suo padre se ne va su di un’ambulanza. Le sirene suonano all’impazzata e lui è lì. Spettatore di una cosa che è troppo grande per lui.

 
Dillon è sveglio ora. Il fiatone e il sudore ad imperlargli la fronte. È stanco di svegliarsi così tutti i giorni, ma non può farci niente se non accettare la situazione ed andare avanti. La musica ancora alta nello stereo.
«Dillon spegni e scendi immediatamente» grida Kate dal salotto scocciata. Lui però non ha nessuna voglia di rispondere a sua madre.
La porta si apre e una donna sulla quarantina fa ingresso nella stanza gesticolando. Dillon non la ascolta, non gli importa. Non ha voglia di risponderle male per l’ennesima volta. È stufo di sentirla piangere per colpa sua. E’ stufo di tutto da talmente tanto tempo che quasi non si ricorda l’ultima volta in cui la sua vita gli sembrava stupenda. La musica si spegne, il silenzio piomba nella stanza rotto solo dalle lamentele della donna che non sopporta il comportamento di suo figlio. Dillon si alza, le lancia un’occhiataccia ed esce dalla stanza sbattendo la porta, afferra il cappotto dall’appendi abiti e il pacchetto di sigarette sulla mensola. Sono poche le volte in cui fuma, ma ora si sente in vena. Il cappello di lana in testa, il suo preferito.
Fuori l’aria gelida di dicembre gli colpisce il volto facendogli arrossire le guance. Accende una sigaretta e tira un respiro profondo inspirando il fumo e facendolo poi uscire dalla bocca in una piccola nuvola grigia.
I piedi affondano nella neve, rabbrividisce. I ricordi minacciano di tornare alla mente: un passato felice ma ormai brutalmente concluso, sempre in quella casa, con suo padre.
Quando l’aveva visto l’ultima volta era in un letto d’ospedale, in coma e con una serie di macchine attaccate al suo corpo che continuavano ad emettere suoni tremendamente fastidiosi. Dillon guardava il corpo di suo padre impassibile. Fino a qualche giorno prima erano insieme in giardino e stavano giocando quando lui si era accasciato a terra e non si era più rialzato. All’epoca Dillon aveva sette anni e certe cose le capiva già fin troppo bene. Sapeva che in realtà suo padre non sarebbe mai più tornato a casa con lui. Sapeva che non avrebbero mai più potuto giocare insieme come una volta.
In quei giorni Dillon era cambiato. Se prima era un bambino socievole, aperto e solare. Dopo era diventato l’opposto: schivo, chiuso e arrabbiato con il mondo intero. Aveva cominciato a celare le sue emozioni dietro ad una maschera che aumentava mentre lui cresceva. A questo aveva contribuito anche sua madre. Sì, perché da sempre lo incolpa per ciò che è successo. Tanto che alla fine è riuscita a convincere anche lui.
Inspira un’altra boccata di fumo seduto sui gradini del portico.
È ormai un mese che vive di nuovo in quella casa e ancora non riesce ad abituarsi all’idea di dover affrontare il dolore ogni fottutissima giornata passata lì. Quando abitava a New York cercava di pensare ad altro, di distrarsi con gli amici. Poi però sua madre gli aveva comunicato di voler tornare in Minnesota e allora tutto era cambiato. Non sa spiegarsi il perché della sua decisione. Spesso si dice che in realtà sua madre sia voluta tornare in quella casa solo per farlo sentire ancora più in colpa.
Lo squillo del telefono lo fa sobbalzare leggermente.
«Hei Denny» dice cercando di dimostrare un po’ di entusiasmo. Se c’è una persona che proprio non sopporta è Denny, il più idiota tra i suoi nuovi per così dire amici. In realtà sono solo altri ragazzi che aveva conosciuto i primi giorni di scuola e che frequenta pur di passare il meno tempo possibile da solo a casa con sua madre.
«Hei Dillon, Jake stasera dà una festa, ti va di venire?» chiede Denny, più entusiasta del solito  «Ha detto che inviterà un paio di persone e che sarà uno sballo»
«In realtà stasera non mi va..» cerca di dire Dillon. Proprio non ha voglia di andare da Jake e passare la serata a tenere lontano delle oche petulanti che cercano di saltargli addosso ogni dieci minuti. Sì, perché andare ad una festa di Jake Coleman voleva proprio dire andare a “puttane”.
«Eh dai Dillon, non farti pregare» tenta di nuovo l’amico.
«Oh e va bene» sbuffa lui. La sigaretta ancora tra le dita.
«Alle nove sotto casa mia» dice Denny tirando giù.
Senza quasi rendersene conto, Dillon si è alzato e ha raggiunto il cancelletto. Lo apre e raggiunge la strada principale. Le lucine di Natale illuminano gli alberi del cortile dei suoi vicini così come in tutti i giardini del suo quartiere. Una folata di vento gelido lo costringe ad abbassare il volto nella sciarpa di lana e a mettere le mani in tasca.
Attorno a lui l’atmosfera è fin troppo gioiosa per i suoi gusti. Sospira e raggiunge il molo. Il lago è uno dei suoi posti preferiti, come lo è probabilmente per la maggior parte degli abitanti di quella piccola cittadina. I gabbiani volano bassi in cerca di cibo emettendo i loro lamenti. Le barche dei pescatori attraccate sono leggermente ricoperte di ghiaccio.
Dalla sua posizione riesce a vedere le colline innevate e la restante parte della città completamente immersa dalla nebbia leggera che quel giorno è sospesa nell’aria e che rende umido tutto ciò che lo circonda, compresa la panchina su cui è seduto.
La signora Mayer che urla attira la sua attenzione, così come la ragazza mora di spalle appoggiata alla staccionata accanto al molo. I capelli lunghi e mossi sono scossi dal vento. Lo sguardo perso nel vuoto. Tutto ciò le dà un’aria misteriosa che attira Dillon come una calamita.
La osserva da lontano quanto basta per notare i lineamenti delicati del suo volto e la morbidezza delle sue labbra appena dischiuse. Gli occhi azzurri scrutano l’orizzonte in cerca di qualcosa.
Nemmeno si accorge che lui la sta osservando. Ma a Dillon va bene così. Sorride.


 














 

  
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