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Autore: Margarinas    01/05/2015    0 recensioni
Dal primo piccolo capitolo:
Già, perché quello, lo sapevo benissimo, era un buco nero senza fine da cui non riuscivi ad uscire mai. Mai. Nemmeno con tutto l'aiuto del mondo, una parte di te ci sarebbe rimasta dentro per sempre.
Fumo, droga, alcool. Un circolo vizioso destinato a ripetersi. Ecco che cosa deve affrontare Elisa il fatidico giorno del 19 maggio. Ripercorrerà il suo percorso, dal giorno in cui conobbe Elena, il suo sole; fino al giorno della sua prima volta e a quella della sua disintossicazione.
Elisa vuole smettere, ma come fare se non si può cancellare una data dal calendario?
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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 Quella mattina ero in ritardo, lo ricordavo bene. Mi ero svegliata con un gran mal di testa e lo stomaco sottosopra, nel letto, di fianco a Nik. Barcollando ero riuscita ad agguantare i miei vestiti sparsi per la camera e ad uscire da essa. Scavalcai un paio di persone addormentate profondamente sul pavimento o sulle sedie e mi diressi in bagno. Chiusa la porta dietro di me mi inginocchiai davanti al water e vomitai tutto quello che avevo ingerito il giorno precedente. Cibo, alcool, qualsiasi cosa.
 Mi vestii cercando di migliorare il mio aspetto guardandomi allo specchio. Mi pettinai i capelli con le dita e mi sciacquai il viso con l'acqua gelata. I vestiti erano un po' sporchi e tutti spiegazzati, ma quello era l'ultimo dei miei problemi. Le occhiaie scure sotto gli occhi erano fin troppo visibili. Uscii dal bagno, ripercorsi la stessa strada ed entrai in camera di Nik.
 Lui dormiva ancora, prono e nudo sul suo letto. Facendo il più piano possibile camminai verso l'altra parte del letto per prendere la mia borsa. Cercai il telefono a tentoni, mettendo da parte l'astuccio dei trucchi, il portafoglio e la sciarpa. Lo accesi e la sua luce potente mi fece chiudere gli occhi di scatto. La stanza era buia e per evitare di svegliare Nik uscii e mi diressi di nuovo in bagno.
 Seduta sul bordo della vasca lessi i vari messaggi. Uno di mia madre, uno di un'amica che non vedevo da anni, ma che per qualche arcano motivo mi invitava al suo compleanno, e uno di Elena.
 "Sono andata a casa presto perché mi sono ricordata di avere della roba da fare. Passa da me domani mattina!
 Portami un cornetto alla
 Elena."

 Sorrisi tra me e me. Quella sua mania di non finire le frasi. Mi truccai solo con uno strato abbondante di fondo tinta e uscii di casa. Scrissi a Nik così come aveva fatto Elena con me e mi diressi verso casa sua. Era una timida mattinata di primavera, tirava un leggero vento, ma il sole faceva capolino da dietro i palazzi illuminado la strada davanti a me e riscaldando l'ambiente.
 Non avevo la voglia di passare da casa mia per una bella doccia calda, l'avrei fatta da Elena. Passai però da un bar, trovato così per caso lungo la strada. Comprai due cornetti alla marmellata. Per la troppa fame, sperando che mangiando il mal di testa passasse, finii il mio camminando.
 Arrivai davanti casa di Elena. Sapevo che a quell'ora lei era sveglia da un pezzo, ma non suonai il campanello. Abitava in un piccolo quartiere di vecchie villette a schiera, al piano terra. L'entrata era divisa in due da una colonna smaltata di bianco, così per tutte le case fino in fondo alla strada e anche dall'altra parte. La casa di fianco era disabitata, perciò Elena poteva avere tutto il giardino sul retro per sè, l'unica cosa bella di quel piccolo bilocale pieno di spifferi.
 Avevo più volte cercato di convincerla a trasferirsi da me, casa mia era abbastanza grande per entrambe, ma lei più volte aveva declinato la mia offerta affermando di essere affezionata a quell'appartamento, che era il simbolo della bontà delle persone. Avevo capito, solo dopo, che quell'appartamento rappresentava, per Elena, il primo passo della sua nuova vita.
 Non avevo le chiavi di casa sua così come Elena aveva le mie. Bussai più volte senza avere risposta. Non mi preoccupai, probabilmente era sotto la doccia con lo stereo acceso, nonostante io non sentissi niente, ma pensai che fosse tutta colpa del mal di testa. Presi il cellulare e chiamai Aurora.
 Rispose al terzo squillo. Le chiesi dove fossero le chiavi di scorta e lei mi rispose, semplicemente, di alzare lo zerbino. Aurora si fidava ciecamente di me così come si fidava di Elena. Era stata la prima persona che avevo conosciuto. I capelli castani ondulati le incorniciavano il viso. Aveva sette anni in più di me ed era a capo degli affari di famiglia, per quello era spesso fuori città.
 Alzai lo zerbino, presi la chiave e aprii la porta.
 Silenzio.
 Tutto ciò che sentii fu silenzio. Né stereo né lo scrosciare dell'acqua. La luce filtrava attraverso le persiane verdi proiettando strani giochi di ombre sul pavimento. Mi tolsi le scarpe e poggiai la borsa sul divano nero logoro. Non c'era disordine in salotto né nella cucina. Poggiai il pacchetto contenente la brioches sul ripiano. Attraversai il piccolo corridoio poggiando l'orecchio alla porta del bagno per sentire se ci fosse qualcuno dentro.
 Possibile che Elena non ci fosse?
 «Elena?» chiamai, ma non ricevetti risposta. Il corridoio finì e io mi ritrovai in camera da letto.
 I pantaloni e le scarpe erano buttati alla rinfusa ai piedi del letto. Bottoglie di birra sul comodino e un piccolo rimasuglio di marijuana di fianco. Una cintura di cuoio era a terra, sotto ad una siringa bianca con dentro ancora qualche rimasuglio di eroina e di sangue. Rimasi immobile per un tempo che parve interminabile. Chissà come raggiunsi il bordo del letto e mi ci sedetti.
 Elena era fredda. Fredda come il marmo, ricordai che pensai così. Indossava la sua maglietta rossa e aveva lo sguardo perso verso il soffitto, verso chissà quale mondo lontano. Ricordavo bene che, lei, prima di addormentarsi si fumava sempre una canna, sdraiata sulla schiena a fissare il vuoto.
 Elena era morta. Morta per davvero, pensai di nuovo. Com'era potuto accadere non lo sapevo. Rimasi ferma anch'io, immobile, sul bordo del letto, vicino a lei, a pensare a niente, a fissarla soltanto. Chiamai l'ambulanza solo molto tempo dopo, quando, come un automa raggiunsi la mia borsa e piangendo la afferrai e la scaraventai a terra, rovesciandone il contenuto per tutta la stanza. Il telefono volò lontano e io lo inseguii come fanno i gatti con la lucina laser, lo afferrai e composi il numero in tutta fretta.
 «È morta» dissi soltando, o almeno è quello che ricordavo di aver detto. In qualche modo arrivarono e insieme a lei mi trasportarono in ospedale. Ero in stato di shock, mi dissero. Mi misero in una stanza e chiamarono i miei genitori. Non appena li vidi vomitai loro addosso per la disperazione e perché ne avevo bisogno. Era uno schifo. Io ero uno schifo e quella situazione era uno schifo. La morte era uno schifo.
 Non so chi fu ad avvertire gli altri, ma due settimane dopo Aurora organizzò un modesto funerale. Fu sepolta nel cimitero della famiglia di Aurora, visto che nessuno di noi sapeva da quale posto provenisse. Non si riuscirono nemmeno a trovare i suoi genitori, ammesso che fossero ancora vivi. Per Elena erano entrambi morti da molto tempo.
 Io mi vestii di nero, con un paio di jeans nuovi e con la felpa più sobria che avessi mai visto. Cinque minuti prima che uscii di casa mia madre mi raggiunse in camera e si sedette sul letto.
 «So che l'amavi» mi disse. Quella fu la prima e l'ultima volta che parlò di Elena. E mia madre aveva ragione. Io amavo Elena, l'amavo come si ama una sorella e una madre. L'amavo come un'amica e come una di famiglia. Perché Elena era diventata la mia famiglia e io ero diventata la sua.
 La cerimonia si svolse in fretta, tutti piangevano e avevano un aspetto orribile con il trucco sbavato e la birra che colava dagli angoli della bocca. Sembravano tutti far parte di un film horror.
 L'ultima volta che vidi Elena fu nella bara di legno scuro, con indosso la sua maglietta rossa e un paio di jeans blu, le All Star ai piedi. Fu l'ultima volta che le sue orecchie udirono le mie parole. Fu l'ultima volta di tutto. E non sarebbe dovuto finire niente così, mai.
 Avevo finito di leggere la lettera da, molto probabilmente, ore e io stavo lì, sul bordo del letto senza muovere un muscolo come quella volta. Non sapevo che cosa pensare. A che cosa dovevo pensare, in effetti? Alla morte di Elena ci avevo già pensato abbastanza, per molto e molto tempo ci avevo pensato. Ci avevo pensato ogni volta che mi ero iniettata quella roba nelle vene e non avevo mai risolto nulla. Sapevo bene qual era stata la causa della sua morte, overdose. Non sapevo a che cosa pensare se non ad Elena e al suo sorriso luminoso sulla mia terrazza, illuminato dal sole rosso.
 Mi alzai di scatto dal letto. Quasi correndo raggiunsi la porta della terrazza e la spalancai. L'aria fredda e l'odore di pioggia non mi diedero alcun conforto. Stringendo il sacchetto di eroina nella mano destra raggiunsi la balaustra e guardai di sotto, verso la città illuminata nella notte scura e fredda e solitaria.

Okay, ce l'ho fatta. Giuro, è tutta la sera che scrivo facendo diventar matta la mia amica, a cui dedico questo capitolo per aver letto tutti i miei strani messaggi e per essere stata con me nei vari momenti di blocco durati anche più di dieci minuti
Ho aggiornato così presto perché, odio quando devo avere una scadenza per far le cose, quando l'ispirazione chiama, chiama.
In questo capitolo ho parlato della morte di Elena e di come l'abbia vissuta Elisa, anche se l'ultimo pezzo è stato scritto velocemente, quindi perdonate eventuali errori e mancanze. So bene che è un pochettino lungo, ma visto quello precedente (giuro che scritto a mano era più lungo! Ve lo giuro!), sono contenta così.

Mi raccomando, aspetto recensioni.
-Margarina, ormai diventata un panetto di burro. (?)

 
  
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