Stella
della sera, 27, Morndas
Ulfskaar
stava giocherellando con la sua ascia, seduto su una roccia poco distante dal
fiume. La fredda brezza leggera gli faceva oscillare la lunga barba scura,
legata solo da due piccoli ma elaborati nodi ai lati del mento. Alzò la testa e
si incupì, guardando il cielo, ricordando come gli amici erano intenti a
parlare e a ridere. Ultimamente lo facevano parecchio, specie da quando Frojaarn si era unito a loro dagli ultimi giorni della
Gelata. Stavolta era solo, stava cacciando insieme al suo migliore amico Frojaarn. Si erano inoltrati un po’ in giro, superando le
fattorie della città e, proseguendo verso sud, seguivano le orme che lupi,
troll e giganti avevano disseminato qua e là lungo il tragitto.
Frojaarn
camminava piano, i suoi passi quasi impercettibili, si nascondeva ad ogni
riparo che trovava quando sentiva una delle potenziali prede ruggire o fare
rumore. Avrebbe volentieri seguito le orme del gigante, e lo aveva persino
visto mentre con la sua grossa clava spaccava gli alberi intorno a sé,
ricavandone della legna per riscaldarsi e creare un accampamento confortevole
per i suoi mammut. Ci ripensò e pian pianino sgattaiolò via dalla sua portata.
Dopo l’ultimo avvenimento avvenuto la mattina stessa, quell’orrendo incubo, si
era detto che sarebbe stato meglio distrarsi, magari cercando i suoi amici e
andando a caccia insieme. Purtroppo non gli era stato detto il perché ma solo Ulfskaar si presentò. Non era la prima volta che restavano
soli a caccia, ma il fatto che continuasse ad emettere smorfie di
disapprovazione ogni volta che Frojaarn gli chiedeva
dove erano Nadjr, Naxius e Aranea gli pareva strano. Così dopo la terza volta smise, non
voleva litigare per l’ennesima volta con Ulfskaar.
Sapeva che il nord mingherlino non aveva un buon carattere – non che il proprio
fosse migliore – ma in otto anni di amicizia avevano litigato così tante volte,
spesso per cose talmente stupide, che era stufo di quel suo lato infantile e
immaturo. Ulfskaar la pensava altrettanto di lui, e
non era restio a dirlo ogni volta che si scontravano. Continuava a ripetergli
che aveva passato così tanti anni della sua vita nella fucina della Vergine
della Guerra a creare armi, armature e ad allenarsi con esse da sentirsi
superiore agli altri, come se forgiare il metallo lo avesse spinto a vivere in
un mondo tutto suo, in cui egli era il signore incontrastato del mondo.
Quando
Frojaarn sentiva questi pensieri uscire dalla bocca
dell’amico restava sconvolto. Non gli diede molto peso all’inizio ma con il passare
degli anni la cosa lo disturbava. L’amicizia, pensava Frojaarn,
era come una semplice lama appena forgiata: per farla diventare bella e letale
ci voleva tanto tempo di cure e attenzioni prima di poter essere certi di
fidarsi di essa in ogni situazione. Oppure come degli stivali: prima di
sentirseli comodi e perfettamente adatti bisognava camminare per molto, molto
tempo. Era vero che una volta dentro alla forgia si sentiva invincibile, ma una
volta uscito il freddo gli sferzava il viso, riportandolo alla realtà. E cioè
che non era altro che un solitario bosmer in una
terra straniera ma che, comunque sia, amava molto. E sì, amava le armi e
armature, crearle, studiarle, venderle, usarle.
Frojaarn si
girò e vide che Ulfskaar era parecchio dietro di lui,
un altro segno che qualcosa non andava. In genere stava sempre avanti al gruppo
di caccia, forse per fare il gradasso davanti agli altri, o semplicemente aveva
fiducia nelle sue due asce. Invece Frojaarn era quasi
sempre relegato a ruolo di esploratore o arciere, in pratica doveva parare il
culo ai suoi amici affinché non fossero stati abbattuti e permettere loro di
attaccare con tutta tranquillità. La cosa gli rodeva molto, voleva essere anche
lui in prima fila. Si immaginava con un’enorme ascia da guerra a due mani a
mozzare teste, spaccare crani e mutilare creature orrende o orde di mercenari
agguerriti. Poi tornava alla realtà e guardò la stessa scena ogni volta alla
fine del sogno ad occhi aperti: impugnava il suo arco lungo elfico che anni
prima un viandante portò alla fucina, scambiandolo con un comunissimo antico
arco nord, di quelli che si trovano a iosa in qualunque rovina. Da quel
momento, quando lo impugnò per la prima volta, sentì che fosse fatto apposta
per lui e, non a caso, era anche molto più potente e rapido. Dietro la vita
aveva, invece, riposto due pugnali, e come sempre portava con sé una delle sue
creazioni più belle, una spada nanica legata alla
cintura e un normalissimo scudo di legno borchiato sulle spalle, dietro la
faretra. Ormai non si sentiva più appesantito, ma ancora ricordava come solo
pochi anni prima tutto quell’equipaggiamento lo rallentava molto; spesso cadeva
all’indietro per via dello scudo.
Così Frojaarn si fermò e aspetto il suo amico.
«Beh?
Come mai sei così svogliato oggi? Se continui ad andare così piano non
porteremo niente a casa» disse Frojaarn.
Ulfskaar lo
raggiunse poco dopo e si appoggiò al tronco di un albero, poi iniziò a fissarlo
prima di rispondere in modo orribilmente serio.
«Non
mi va di cacciare oggi.»
«Si,
come no. È la cosa che adori fare più di qualsiasi altra.»
«Oggi
è così.» Si limitò a rispondere. Il suo sguardo si fece più arcigno e
incazzoso, poi riprese a parlare. «In realtà avevo bisogno di parlarti.»
Frojaarn lo
fissò a lungo, poi scoppiò a ridere. «Parlarmi? E ci siamo dovuti incamminare
così a lungo solo per questo?»
«Purtroppo
sì. È una cosa che non potevo dirti in città davanti lo sguardo di tutti.»
Frojaarn era
sempre più perplesso. «E cosa ci sarebbe di così privato da dirmi?»
Ulfskaar
sospirò un attimo, poi iniziò a venirgli incontro lentamente mentre parlava.
«Non ti vogliamo più con noi.»
«Eh?»
«E’
quello che ho detto.»
«Ma
che…» Frojaarn non capiva cosa significasse tutto
questo, né cosa intendeva con noi. «Noi chi?» si limitò a chiedere.
«Deficiente,
io e gli altri ragazzi. Non ti vogliamo più nel nostro gruppo!» alla fine urlò Ulfskaar.
Frojaarn
sentì le gambe afflosciarsi, l’arco gli cadde di mano. «Cosa? Ma che cazzo
dici, abbiamo riso e scherzato per più di due mesi insieme, abbiamo perfino
festeggiato insieme poco tempo fa, che senso ha quello che dici?»
«Senti,
mi è stato detto da tutti che sei un rompiscatole, dai noia, sei fastidioso e
non fai ridere nessuno. Avevamo già deciso da qualche giorno di mollarti senza
dirti niente invece io ho preferito farti venire qui e dirtelo così potrai
riflettere sul tuo comportamento e magari non ti lasceremo.»
Frojaarn si
abbassò appena per raccogliere l’arco, poi dovette cercare l’albero più vicino
per appoggiarsi. Non gli risultava di aver fatto niente che potesse aver dato
fastidio agli altri ragazzi. Inoltre il linguaggio del corpo gli aveva fatto
notare che nessuno di loro gli rivolgeva sorrisi stentorei o finti, ridere solo
per il gusto di doverlo fare o altro ancora. Avevano riso e si erano divertiti
come matti solo poco tempo prima ad una festa in città. Come poteva tutto
questo essere vero? Poi gli occhi del ragazzo si sgranarono al pensiero che gli
passò per la mente. Di colpo avvampò di rabbia.
«Tu…
Perché mai gli altri avrebbero bisogno di dirmi qualcosa tramite qualcuno,
anche se così dolorosa?»
«Forse
perché sei il mio migliore amico?» rispose prontamente Ulfskaar
con un sorriso malevolo stampato in viso.
«E il
mio migliore amico mi sta cacciando, guarda caso. Stammi bene a sentire, se c’è
qualche problema, e intendo un vero problema, saranno loro a dirmelo. Ora se
permetti torno a casa, mi sto davvero incazzando e non voglio litigare con te.»
«Fai
come vuoi» rispose Ulfskaar. «Anche se il tuo
principale problema adesso non sarà tornare a casa, ma rimanere vivo.» rise il
nord mingherlino e, dopo essersi accarezzato la lunga barba bruna si affrettò
per primo verso Whiterun.
Frojaarn gli
gridò di fermarsi e di spiegarsi, ma non fece in tempo. Una freccia stava per
piantarsi nel suo cranio quando egli la schivo di striscio, causandogli
soltanto un piccolo graffio sulla fronte. Si guardò attorno e in lontananza
vide una donna con un arco simile al suo. Ne dedusse che era un’elfa anche lei, nessuno tirava così preciso come loro. Il
giovane corse via, non c’erano ripari da nessuna parte e le frecce
dell’assassina lo spingevano sempre più fuori dalla foresta. Si guardò attorno
e riconobbe il piccolo fiume che passava a fianco il sentiero per Riverwood, ringraziò Talos e
corse come il vento. Non dovette attendere molto quando sentì un urlo maschile
provenire da dietro. Questi lo atterrò con un colpo di spadone a due mani
eseguito di piatto. Con la testa dolorante Frojaarn
afferrò della neve e la gettò nel muso dell’uomo, che finì scaraventato indietro
con gli occhi doloranti, mentre una freccia lo colpì all’altezza del cuore da
dietro. Per fortuna si incastrò nello scudo borchiato, la punta non penetrò
nell’armatura leggera che indossava. Continuò a correre finché non poté
gettarsi nel piccolo fiume, con frecce che continuavano a bersagliarlo. Appena
fu in profondità continuò a nuoto fino ad una roccia sporgente. Si accovacciò e
incoccò una freccia, pronto per colpire la donna. Ancora non riusciva a vederla
ma sapeva che presto o tardi sarebbe arrivata. Imprecò pensando al quel figlio
di puttana del suo ‘amico’ quando un’altra voce maschile ruggì da destra, dalla
riva del fiume. Era un uomo altissimo e muscoloso, portava ben due spadoni, una
per mano e lo stava caricando a soli cento passi di distanza. Sì pentì
amaramente di quella decisione, ma tutto il suo corpo ormai iniziò a muoversi
di propria iniziativa e con un tiro perfetto centrò l’occhio sinistro del
gigante, penetrando anche parte del cervello. Questi continuò a ruggire,
sorpassando il giovane e finendo per morire con un tuffo nel fiume, tingendolo
di sangue.
Frojaarn
dovette spostarsi, ormai il suo nascondiglio era compromesso, ma appena lo fece
una freccia gli si conficcò nel fianco sinistro, rallentandolo per un attimo.
Non usciva molto sangue, così il giovane poté estrarre via la freccia, felice
che nessun organo vitale fosse stato intaccato. L’uomo di prima, con gli occhi
gonfi, roteava la spada come un ossesso, gridando come un dannato alla
vittoria. Con suo enorme terrore altri tre uomini e due donne spuntarono dalla
foresta che aveva appena abbandonato per inseguirlo. Ebbe appena il tempo di
vedere che erano semplici banditi vestiti di pelle grezza, ma incazzati come
pochi. Le tre arciere si dispersero e scomparvero ai suoi occhi mentre gli
uomini armati nei modi più disparati lo caricavano da almeno 200 piedi di
distanza. Nuotare non sarebbe servito, così corse ancora e ancora e ancora.
Risalì il pendio fino ad arrivare al ponte che portava all’ingresso nord di Riverwood. Voleva attraversarlo ma il suo corpo gli diceva
di nascondersi. Frojaarn ignorò il suo istinto e
arrivò a metà ponte quando le tre arciere iniziarono a scoccare frecce
incendiarie, con tanto di piccole sacche d’olio sulla punta. I contadini di Riverwood accorsero a vedere cosa stava succedendo ma le
tre arciere appostate in alto lungo la strada che conduceva verso il Tumulo
delle Cascate Tristi li fecero allontanare, stavolta con frecce normalissime.
Girandosi Frojaarn fece appena in tempo a parare un
fendente con il suo arco di pietra lunare rifinita, che finì giù in acqua dove
prima c’era il ponte. Senza via di uscita ritrovò la sua mano conficcata nella
gola del primo uomo, armata di pugnale. Il suo istinto lo stava guidando e
ormai non poteva fare altro che affidarsi ad esso.
Frojaarn
impugnò anche il secondò pugnale e lo ficcò nella bocca del secondo uomo, dopo
aver ricevuto un doloroso colpo di scudo nel muso, spingendoglielo su fino al
cervello. Il suo corpo pareva posseduto. Lanciò i pugnali contro il terzo uomo,
il primo lo centrò in gola, il secondo gli lacerò i testicoli. Quel che restava
del ponte bruciava tra le urla degli assassini ancora vivi e malconci. Frojaarn li spinse tra le fiamme e si ritrovò infine
l’ultimo uomo, l’assatanato che continuava a gridare alla vittoria, ancora con
gli occhi arrossati e gonfi. Il giovane fece appena in tempo a prendere lo
scudo e a parare un suo fendente, poi gli restituì il favore, spaccandogli la
mascella con la sfera borchiata dello scudo. Sentì improvvisamente un fischiare
familiare e si accucciò, una decina di frecce lo stavano bersagliando. L’uomo,
con la mascella penzolante ma ancora vivo, afferrò lo spadone e latrò come un
cane, mettendo in mostra la sua lingua scoperchiata. Frojaarn
sgusciò via tra le sue gambe in modo che le frecce lo colpissero sulla schiena
prima di afferrare la preziosa spada nanica e
mozzargli la testa con un unico rapido fendente. Le arciere ormai erano rimaste
sole e senza il resto degli uomini avrebbero potuto continuare a tirare fino a
che l’inferno ghiacciasse ma Frojaarn poteva pararsi
e persino raggiungerle. Inoltre le guardie di Whiterun
accorsero con i loro archi, così le tre elfe si
dileguarono tra la foresta, puntando a nord, probabilmente dove si sarebbero
riunite ad un’altra banda di stronzi fuorilegge.
Senza
più il ponte il giovane avrebbe dovuto nuotare per raggiungere Riverwood. Ma, con tutto quello che aveva passato quel
giorno, non ce la faceva nemmeno più a pensare. Cadde come un sacco di patate e
svenne sul posto, con ancora in mano la spada e lo scudo nell’altra.