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Autore: Zomi    03/05/2015    4 recensioni
-… hai capito?- rise la rugosa e sgraziata donna alla guida dell’autobus, allargando le grandi labbra colorate di fucsia.
L’uomo annuì convinto, portandosi poi una mano alla nuca, grattandosela mentre si guardava in torno, nel buio della notte, quasi non riconoscesse la sua fermata.
Sghignazzando, la vecchia stappò con i denti una bottiglia di liquore, portandosela alle labbra avida e golosa, gettando il capo all’indietro nel bere.
Si passò la manica della divisa sulla bocca, asciugandola delle esili gocce che erano scappate alla sua ingordigia, singhiozzando con le guance arrossate.
-Arriva fino in paese…- indicò la strada principale con la mano che reggeva la bottiglia -… quando sei nella piazza principale, prendi l’unica strada dinanzi a te e percorrila fino in fondo-
Si fermò, fissando l’uomo scrutare la strada innevata, perso nei suoi pensieri, mentre il vento si alzava con il suo gelo.
-La troverai di certo…- sorrise Kokoro, riponendo la bottiglia nel vano del cruscotto, portando la mano alla leva della porta aperta.
**Fanfiction partecipante al concorso Dounjinfiction indetto dal Midori Mikan**
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nami, Roronoa Zoro | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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2° GIRONE DOUNJINFICTION:
 
Numero immagini: 3 scelte da Tsunami
Giudice: Tsunami
Classificata: ultima (su due)
Giudizio:
La tua storia, anche se io non sono un amante degli Alternative Universe, l'ho trovata molto valida come idea e magari la potresti sviluppare per un fanfiction futura. Mi aspettavo alla fine piombasse un piccolo Zorino in casa, a scusare la mancanza di reazioni da parte di Nami per la fuga di Zoro  :P
Purtroppo però la grammatica ha penalizzato tanto la tua storia, ma al di là dei tempi verbali mi stavo chiedendo, te che programma usi per scrivere? Word o simili hanno anche l'autocorrezione che potrebbero facilitarti negli errori di distrazione dovuti alla velocità di scrittura, perchè molte parole sono erroneamente spezzate come se ti partisse il dito sulla barra spaziatrice XD.
E' un vero peccato, posso anche consigliarti di rileggere il tuo racconto ad alta voce oppure rivolgerti a qualcuno per ricontrollarlo prima della pubblicazione ^^

 

 
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L’autobus frenò sulla strada ricoperta di neve, slittando su un piccolo cumolo ammassato proprio davanti alla fermata, inavvicinabile a causa del lavoro grossolano dei spargi neve.
Con un crepitio bisognoso di riposo, le porte ad ala di gabbiano del bus si ripiegarono su di loro aprendosi, lasciando scendere un uomo robusto e stanco, appesantito dalla sua sacca, portata in spalla quasi non pesasse nulla, nonostante la gran quantità di oggetti che richiudesse.
-… hai capito?- rise la rugosa e sgraziata donna alla guida dell’autobus, allargando le grandi labbra colorate di fucsia.
L’uomo annuì convinto, portandosi poi una mano alla nuca, grattandosela mentre si guardava in torno, nel buio della notte, quasi non riconoscesse la sua fermata.
Sghignazzando, la vecchia stappò con i denti una bottiglia di liquore, portandosela alle labbra avida e golosa, gettando il capo all’indietro nel bere.
Si passò la manica della divisa sulla bocca, asciugandola delle esili gocce che erano scappate alla sua ingordigia, singhiozzando con le guance arrossate.
-Arriva fino in paese…- indicò la strada principale con la mano che reggeva la bottiglia -… quando sei nella piazza principale, prendi l’unica strada dinanzi a te e percorrila fino in fondo-
Si fermò, fissando l’uomo scrutare la strada innevata, perso nei suoi pensieri, mentre il vento si alzava con il suo gelo.
-La troverai di certo…- sorrise Kokoro, riponendo la bottiglia nel vano del cruscotto, portando la mano alla leva della porta aperta.
-Bhè ragazzo mio, è stato un piacere…- si congedò la vecchia alcolista, richiudendo le porte e avviandosi con il suo sgangherato autobus, lasciando il suo passeggero sul ciglio della strada.
L’uomo contemplò per un breve attimo la notte, abituando la vista alle ombre soffuse e alla luce riflessa che la neve, accumulata agli angoli della strada, rigettava tutt’attorno ai lampioni ancora accesi.
Si sistemò meglio la sacca sulla spalla, posando la mano libera dalla cinghia stretta sul braccio, sulle else delle spade che cozzavano al suo fianco, incamminandosi lungo la strada principale.
Non riusciva a riconoscere molto di ciò che lo circondava.
Le case, i negozi, per fino gli alberi erano diversi da come se li ricordava.
La neve riprese a scendere dal cielo, ricoprendo le strade pulite col ghiaino e attutendo il passo del ragazzo, che avanzava lento nella notte.
Da quanto era via?
Cinque-sei anni?
Troppi da ricordare, eppure ricordava esattamente il girono in cui aveva lasciato Raftel.
Anche quel giorno nevicava, e lui se n’era andato prima ancora che l’alba iniziasse a colorare i cumoli di acqua gelata con i primi raggi rossastri.
Guardò di fronte a sé Zoro, fissando la piazza centrale muta nella notte, ricoperta già di un fine strato di neve, dove nemmeno i gatti randagi osavano zampettare, paurosi di spezzare il silente incantesimo che rendeva tutto così immobile e fermo nel tempo.
Il vento gelido della notte non riusciva a imporre a Zoro di chiudersi con maggior cura il leggero giubbotto che indossava, né di affrettarsi ad attraversare la piazza centrale con la fontana spenta e l’acqua ghiacciata, che nella sua morsa di ghiaccio e morte, proteggeva le carpe Koi che ondeggiavano tranquille nel dormiveglia notturno.
Era cambiata.
Anche la pizza era cambiata.
La pasticceria si era trasformata in una ferramenta, il rigattiere in una farmacia, i ciliegi giapponesi sostituiti da lampioni e le panchine da cesti per l’immondizia.
L’unica cosa che sembrava essere immutata e intoccata dal tempo erano le vie, con i loro nomi e ricordi impressi nel selciato.
Lentamente, iniziò a muovere i passi sullo strato di neve che si era depositato sulla piazza, attraversandola e studiandola con gli occhi del ragazzo che era partito dalla città senza dir niente a nessuno, lasciando tutti e tutto dietro di sé, all’avventura e seguendo quell’incarico di cui non aveva parlato ad anima viva.
Nemmeno a lei.
Si fermò, dinanzi alla strada in salita di Via Tangerine, respirando i ricordi che ora gli assalivano la mente.
Era stato via così allungo, eppure era tornato al punto di partenza.
Era tornato da lei.
Forse inutilmente, forse si era fatta una nuova vita, forse ce l’aveva ancora con lui per il modo in cui se n’era andato, senza dir nulla, senza dare una spiegazione.
Ma che spiegazione poteva darle?
Poteva dirle di essere una cellula dormiente, in attesa della sua prossima missione in solitaria, che era stato un errore stare con lei, che l’aveva messa in pericolo, che l’Agenzia per cui lavorava non accettava un rifiuto per una missione, e che la possibilità di fare ritorno, dentro una bara, era la più probabile per lui. Poteva?
La scelta di andarsene nell’ultimo buio della notte, prima dell’alba, abbandonandola, era stata la migliore.
Non poteva lasciarla dicendole tutto, abbandonandola a lacrime e paura di non rivederlo mai più. L’odio l’avrebbe aiutata a dimenticarlo in fretta, l’amore a ricordarlo con dolore.
Perché allora, ben conscio che lei lo aveva dimenticato e odiato per tutto quel tempo, faceva ritorno?
Da lei, dall’unica che voleva lo dimenticasse per sempre?
Prese un respiro profondo, incamminandosi lungo la strada che saliva il profilo della collina del paese, per nulla intimorito dai dieci chilometri di camminata che lo aspettavano prima di poterla rivedere.
Anzi, gli sarebbero tornati utili per pensare.
Per ricordare.
Ricordare come, alla prima missione dopo la sua partenza, l’ultima con l’addestratore che l’aveva preparato al lavoro nell’Agenzia, proprio il suo mentore, dandogli le spalle gli avesse impartito la prima ed unica regola di un agente dell’Agenzia: ricordati ti tornare sempre a casa.
 
 
-…e che regola sarebbe?- aveva sbottato, storcendo le labbra nel sentirle macchiate di sangue.
Erano su una spiaggia.
Una villa in fiamme si poteva scorgere sull’isola che si stagliava dinanzi alla costiera, sotto cui stavano controllando che tutto bruciasse, senza lasciare alcun segno del cartello Colombiano che avevano appena messo fuori mercato.
Doveva sembrare un incidente: una bombola del Gas chiusa male nel laboratorio di trasformazione dell’eroina, e una sigaretta accesa nel momento sbagliato.
Un incidente.
Sarebbe sembrato a tutti un incidente, non appena i corpi colpiti a morte dalle loro pistole si fossero ridotti in cenere.
Zoro aggrottò il naso, fissando il tetto della villa incenerirsi e cedere sulle colonne portanti dell’edificio, ignorando con la mente la propria parte sinistra del viso, imbrattata di sangue.
-È quella che ti salverà la vita- aveva risposto l’addestratore, dandogli le spalle e scrutando il mare, calmo e sereno, in netto contrasto con l’inferno che ardeva sulla spiaggia che si apriva dinanzi alla loro.
-… e come dovrebbe salvarmi?- aveva sbottato Zoro, sfilandosi la maglia, inzaccherata e unta, immergendosi nel mare per sciacquarsi il viso.
Sentiva il sangue dei Narcos sporcargli la pelle, i muscoli, le ossa, e infettare tutto ciò che vi era in mezzo, macchiandolo.
Anche il ricordo di lei, puro e felice.
Prese a sfregarsi le braccia, il viso, il petto con l’acqua di mare, incapace di zittire il ricordo di lei, lasciata sola a Raftel, a piangere per lui, per averla lasciata, per aver taciuto su tutto.
-Ti salverà…- sentì parlare l’uomo che l’accompagnava per l’ultima volta in missione, mentre lo sciabordio del mare si scontrava con i suoi pantaloni, rendendo scarlatte le onde che si insaccavano sulla spiaggia.
-Perché se hai una casa, hai anche un luogo dove fare ritorno…-
Il ringhio di Zoro si spezzava tra le sue stesse mani, mentre si sfregava il viso, ripulendolo.
-Lei non mi vorrà a casa…- ringhiò, immergendo il capo nell’acqua, risollevandolo e scuotendolo per allontanare i pensieri e le gocce di salsedine, che ricaddero sul suo petto come una pioggia.
-… ma tu non devi tornare solo da lei…- prese la sacca con le pistole, mentre le pale dell’elicottero in avvicinamento si facevano sempre più rumorose e vicine.
-… devi tornare anche da te-
 
 
Si fermò davanti al viale in ghiaino che accoglieva, insieme alla palizzata in tiglio, gli ospiti della piccola e candida casa circondata dai mandarini.
Non aveva pensato che forse, lei, la sua Nami, lì non abitasse più.
Troppi i ricordi che da felici aveva reso insopportabili con la sua partenza.
Le mattine passate tra lui, avvinghiato alle coperte per rubare qualche minuto nel dormicchiare, e lei, con la sua voce acuta ma rotta dalle risate, a svegliarlo, strattonando le lenzuola e tirandogli una caviglia.
Le giornate passate nel suo agrumeto, quelle calde, in cui i mandarini si maturavano a vista d’occhio, assumendo l colore dei capelli mossi di lei, del suo profumo.
Sghignazzò, pestando i piedi nel ghiaino misto neve.
Erano i mandarini a sapere di lei, non il contrario, solo ora se ne rendeva conto.
Come solo posando la suola dell’anfibio sul primo scalino della veranda della casetta, si rendeva conto che lei ancora abitava lì.
I mandarini ben potati e in salute lo confermavano, ma ancor di più gliene dava conferma il piccolo spaventa spiriti appeso alla porta, dondolante per il vento gelo della notte.
Glielo aveva regalato lui.
-Per proteggere i tuoi sogni dai mostri... mocciosa-
Ghignò al ricordo delle sue guance gonfie, della frangia rossa mossa con stizza e gli occhi, dolci come cioccolata mista nocciole, che sempre gli mettevano una gran gola in bocca nell’assaggiare la sua anima, che dardeggiavano di rabbia per la sua battuta.
Mocciosa.
La chiamava così per il suo fare sbarazzino, per il sorriso sempre aperto e sornione sulle labbra, carnose e invitanti, per il suo modo di fare per nulla innocente, ma con la naturalezza di una bambina, cresciuta in fretta, segnata dalla vita, e su di cui anche lui aveva lasciato un doloroso segno.
Posò la fronte contro la porta in legno chiusa, chiudendo gli occhi e abbandonandosi ai ricordi dell’ultima notte passata in quella casa.
Ricordava la cena, frivola ma condita dalle loro solite scaramucce, della risata cristallina di lei, e delle sue carezze, un segno di pace, di affetto, di amore.
Amore, quello che avevano consumato nel loro letto, per l’ultima volta, come disperati, quasi che anche lei sapesse che non si sarebbe più visti.
L’aveva baciata da capo a piedi.
Stretta contro il suo petto, la pelle madida di sudore, le labbra che non smettevano di cercarsi e la lingua che schioccava a ogni singolo contatto.
Le lenzuola non riuscivano a coprirli neanche, ma il freddo pungente della neve che cadeva non li aveva mia sfiorati per una sola volta nella notte.
La passione li aveva scaldati, la voglia di amarsi continuava a farli fremere.
Si era unito a lei una, due, tre, quattro volte, mai abbastanza, mai abbastanza profonde le spinte, mai abbastanza pieni gli amplessi, mai abbastanza sazio di lei.
-Se le spezzi il cuore ti spezzo le gambe- l’aveva minacciato Nojiko, la sorella della sua mocciosa, e lui avrebbe voluto che l’avesse fatto davvero, impedendogli così di partire, di lasciarla, di perderla.
Di perdere il diritto a baciarla, accarezzarla, amarla con tutto se stesso.
Di perdersi in lei, nel suo corpo, di fondere le loro anime e scivolare lentamente e con desiderio nel suo corpo, riuscendo a trovare una pace che nessuno gli avrebbe concesso.
Schiacciò la fronte contro il legno freddo della porta, respirando profondamente l’aria fredda della notte, che gli gelava i polmoni e la gola, facendolo tremare.
L’aveva lasciata, le aveva spezzato il cuore, non si era fatto vivo per cinque lunghi anni… e ora si ritrovava lì, davanti alla porta di una casa che un tempo aveva potuto chiamare “sua”, loro, ma non era per riavere una casa che era lì.
-Non sono le case a cui devi fare ritorno…- gli aveva detto una volta suo padre, Koshiro -… ma le persone che vi sono dentro: sono da loro che fai ritorno... e lo farai sempre-
Sollevò la mano allo stipite della porta, facendo scorrere dita fino a farle arricciarle contro una piccola chiave in ferro, che scivolò perfettamente nella toppa della porta, aprendola.
Socchiuse l’uscio, facendo scricchiolare appena, un rumore lagnoso e stridulo che si perse in una folata di neve e vento, che formava piccoli mulinelli nel porticato.
Posò la sacca a terra, richiudendo la porta dietro di sé, posando poi la chiave, la sua chiave, nel piatto di ferro contenente alcuni spiccioli e le chiavi di un auto, posato sul primo mobile dell’entrata.
Un tintinnio secco e singolo echeggiò nella casa, immersa nella notte, che filtrava dalle finestre, oscurandola, ma bastavano i profumi che la riempivano a descriverla a Zoro.
Se ne stava fermo con le spalle contro la porta, ascoltando il profumo di caffé serpeggiare dalla cucina, quello di pagliericcio del gatto che dormiva e faceva le fusa su un divano lì vicino, e un intenso e agrodolce profumo di mandarino che si affacciava sul corridoio che sapeva aveva dianzi.
Non osava aprire gli occhi, sollevare lo sguardo a posarlo su di lei, sveglia e in piedi sulla soglia della sua, loro, camera.
Che era venuta a fare lì?
Cinque anni, cinque lunghi maledetti anni… pretendeva, da egoista, che lei lo volesse ancora?
Forse doveva andarsene e basta.
Lei stava bene, lo odiava e stava bene… poteva anche andarsene ora no?
Allungò il braccio al piatto in ferro, pronto a recuperare la chiave e uscire per sempre dalla casa in cima alla collina, quando le mani di lei lo afferrarono per il bavero ormai intirizzito dal freddo, obbligandolo a inclinare il capo in avanti ad incontrare le sue labbra.
Un bacio.
Caldo, violento, rabbioso.
Un bacio che gli faceva male da quanto la rossa gli mordeva le labbra, succhiandole e assaporandole. Le lingue si incontrarono subito, nostalgiche e vogliose solo di riprendere a danza che avevano interrotto troppo presto.
Le mani di Zoro scivolarono ad accerchiarle la vita, coperta solo da una canotta corta, mentre le sue spade, segno del suo compito nell’Agenzia, cozzavano a terra, sciolte dalle mani di lei, che si intrufolarono agili sotto la giacca, sotto la maglia, a scottarsi contro la sua pelle bronzea.
Rabbrividì al contatto, per i ricordi che si sormontarono nella sua mente, brucianti come lava.
Se la strinse al peto, sollevandole a sua volta la canotta dai fianchi, accarezzandole il bordo di pizzo dell’intimo, percependo i capelli rossi e mossi cresciuti fin a metà schiena, arricciandone qualcun tra le dita.
-… Nami…-
Era la prima volta che aveva il coraggio di nominarla, di chiamarla, di ansimare il suo nome.
Non l’aveva fatto nemmeno con il pensiero, conscio che non le apparteneva più, che non aveva più alcun diritto a sfiorarla e amarla, e il pugno che Nami gli diede sul mento, dal basso verso l’alto, gliene diede conferma.
-Cinque anni!!!- urlò, la voce incrinata dalla furia e singhiozzi di felicità riportando le mani al colletto della sua giacca, avventandosi nuovamente sulle sue labbra, mordendole rabbiosa.
-… cinque anni…- lo strattonò nel corridoio, costringendolo a seguirla mentre gli abiti si perdevano sul pavimento, fin sulla porta della camera della rossa.
-… cinque anni…- le labbra di Zoro scendevano sulla pelle nuda e calda di Nami, mordendole la spalla, la gola, succhiandone i seni -… mai una lettera, una telefonata, una notizia…-
Le mani si aggrappavano alle spalle del verde, premendolo sui suoi seni, incastrando i corpi come avevano imparato a fare anni prima, allacciando le gambe affusolate e snelle di lei sui fianchi, la schiena premuta sul materasso, gli ansimi caldi sul collo.
-… mi hai lasciata…- la sentì gemere, e non riuscì a non baciarla con maggior passione e cura Zoro, accarezzandole il viso mentre affondava in lei, ignorando il dolore alla mascella dolorante per il pugno mentre il piacere aumentava, scaldandoli.
-… cinque anni… a-ah… cinque anni e sei qui… ahhh… da me…-
La sentì inarcare la schiena, conficcargli le unghie nella carne delle spalle e le labbra sorridere contro le sue, mentre iniziava a pomparle dentro, spingendosi sempre più in profondità.
La neve continuava a scendere, come la notte in cui se n’era andato, le lenzuola non riuscivano a coprirli, esattamente come all’ora, i corpi continuavano a fondersi e amarsi ancora e ancora, ma con maggior furia e passione di cinque anni prima, e come il lustro precedente, le loro mani erano strette tra loro, incapace di sciogliere la stretta che le legava.
Semplicemente una cosa era cambiata: la voce di Nami, decisa e testarda, che soffiava amplesso dopo amplesso contro l’orecchio di Zoro, facendolo ghignare di piacere.
-… questa volta non ti lascio andare via: questa volta tu resti qui a casa, resti qui con me!!!-
Quando l’alba iniziò a colorare di rosso li grigiore delle nubi, ancora intenzionate a colorare di bianco la città di Raftel, Zoro stringeva al petto Nami, esausta ma sveglia, scossa dall’ultimo amplesso della notte, che li costringeva ancora uno sull’altro.
-… tu resti qui…- ansimò la rossa, aggrappandosi a lui, impedendogli di muoversi.
Zoro abbassò il viso a baciarla, a fondersi ancora con lei.
-Io resto qui- le sussurrò, circondandole la vita con le braccia, affondando il viso tra i suoi ricci rossi e profumati.
Perché quel letto disfatto era il suo, perchè quella camera era sua, la cucina, il salotto, la casa erano sue, perché Nami era di nuovo sua, l’aveva ritrovata e si era ritrovato, laddove tutto era iniziato.
Perchè Zoro era finalmente a casa.
Era finalmente con lei.
 


 
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