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Autore: Persej Combe    03/05/2015    1 recensioni
Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità.

[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Elisio, Professor Platan, Serena
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eterna ricerca'
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17 . Petali nella tempesta


 

   Il cielo era chiaro, colorato di quel celeste acquerellato come delle illustrazioni in un libro per bambini. Le nuvole erano soffici, piccole, bianche come latte. Disteso su un prato, sentiva le amorevoli mani del vento accarezzargli il viso. Sorrideva e poi chiudeva gli occhi, si lasciava inebriare dal profumo di miele e di fiori che aleggiava nell’aria.
   «Che pace...» sussurrò.
   Avvertì qualcosa posarsi sulle sue labbra e, dischiudendo la bocca, assaporò un che di dolce fra i denti. Un petalo. Lo ingoiò e rise. Poi sentì tante piccole piume cadere sul suo corpo, gentili e leggere. Si mise a sedere e mentre apriva gli occhi si accorse di essere ricoperto da miriadi di petali colorati. La sua attenzione venne catturata da una risata argentina, simile al cinguettio di un Fletchling. Si voltò e al proprio fianco vide un bambino. Sorrideva, e tra le dita stringeva un giglio bianchissimo e rigoglioso.
   «Adesso sei un fiore!» esclamò.
   L’uomo si osservò e si fece sfuggire un piccolo riso. Non ne capì il perché, ma a venir chiamato in quel modo sentì come una sensazione di nostalgia appesantirsi sul petto.
   «Come ti chiami?» chiese al bambino. Tuttavia non ottenne risposta.
   «Non lo ricordo», scosse la testa e i ciuffi di capelli si mossero assieme a lui «So di saperlo, ma non lo ricordo».
   L’altro lo guardò incuriosito. Non si ricordava il proprio nome? Era piuttosto strano.
   «E tu come ti chiami?» stavolta fu il bambino a domandarlo a lui.
   «Platan», rispose.
   «Lo dici con così tanta sicurezza, come se fossi più che certo di ciò che sei. T’invidio, sai?».
   «Oh, ma c’è voluto tanto tempo per diventare ciò che sono adesso...» precisò «È normale che tu ora abbia dei dubbi. È successo anche a me, molti anni fa. Ma crescerai e alla fine ti lascerai tutto alle spalle».
   Si sdraiarono di nuovo sull’erba, osservando il cielo e riconoscendo oggetti e figure nei contorni delle nuvole candide. Il profumo del giglio era particolarmente intenso e Platan si sentiva al sicuro immerso in quell’odore.
   «E sei felice?» domandò a un tratto il bambino «Sei felice di quello che sei adesso?».
   Avrebbe voluto dire di sì: chi non sarebbe stato felice in quella pace, in quella serenità? Ma non poté farlo. Cominciò a sentire una strana pressione nella testa e un timore remoto e sopito nel cuore risvegliarsi lentamente. Era stato lui a causare quella frattura? O qualche altro?
 
 
   Aprì gli occhi e si ritrovò nel suo studio. Il cielo azzurro era svanito, coperto dai muri, mentre i morbidi ciuffi del prato erano stati rimpiazzati da una vecchia poltrona consumata, abbastanza scomoda. Forse era ora di comprarne una nuova, si disse. Si stropicciò la faccia e sbadigliò, allungò la mano sulla scrivania e a tentoni cercò l’orologio spostando qualche pila di fogli e un mucchio di penne. L’una e mezza di notte. La vista dell’orario bastò a farlo sbadigliare una seconda volta. Si mise in piedi e si stiracchiò mentre cercava di ricordare su cosa stava lavorando. Non era la prima volta che si addormentava nel mezzo della stesura di una relazione. In particolare però la pressione subita negli ultimi giorni lo aveva svigorito molto più rispetto al solito. Era stanco. Decise di tornare a casa a riposarsi e che avrebbe finito il lavoro l’indomani, perciò si affrettò a raccogliere i propri oggetti e ad infilarli nella borsa alla rinfusa. Il Laboratorio era vuoto, Sina e Dexio se n’erano andati da un pezzo, così come anche gli altri suoi collaboratori. Prima di uscire fece un giro nella serra per assicurarsi che i Pokémon stessero dormendo tranquillamente, poi se ne andò.
   Per strada non c’era un’anima. Soffiava un venticello fresco: stava arrivando la bella stagione, ma di notte faceva ancora freddo. Ogni tanto accanto al marciapiede passava qualche macchina con i finestrini aperti e la musica a palla che lo svegliava un po’ dalla sua sonnolenza e gli ricordava di fare attenzione: Luminopoli, come tutte le grandi città, era sì bella, ma aveva anche la brutta fama di diventare pericolosa dopo una certa ora.
   Mentre rincasava incontrò un signore che abitava qualche piano sopra di lui, un poliziotto che faceva la guardia notturna al Museo, che si offrì di tenergli aperto il portone.
   «Giornata faticosa, Professore?» gli chiese notando il suo viso stanco.
   «Abbastanza. Spero che lei ne abbia passata una migliore».
   «È un periodo difficile un po’ per tutti. Con il Team Flare in giro non si può abbassare la guardia neanche un attimo».
   «Già», disse distrattamente. Quelle due parole messe insieme non gli facevano più tanto effetto.
   «Mi scusi, ma adesso devo proprio salutarla. Buona serata».
   «Anche a lei».
   Salì al terzo piano e rovistò nelle varie tasche in cerca delle chiavi. Che le avesse lasciate nel camice per la stanchezza? Sospirò. Aprì la borsa, la lasciò a terra e dispiegò il camice in aria, affondando le mani nelle tasche grandi. Non c’erano, neanche in quelle piccole. Allora tirò fuori tutto il contenuto della borsa, ma niente, delle chiavi non c’era traccia.
   «Dio, ma dove le ho messe?» bisbigliò poggiando la schiena sulla porta e stropicciandosi un occhio, innervosito ma troppo stanco per poter dare sfogo a una vera reazione di irritazione. Desiderava soltanto buttarsi a letto e dormire come gli Snorlax che di tanto in tanto si addormentano in mezzo ai Percorsi. E pure lui in quel momento non disdegnò l’idea di sdraiarsi di fronte alla porta di casa e farsi un bel sonno sul pianerottolo. Ma no, non poteva, lui era il Professor Platan, aveva una reputazione da salvaguardare, soprattutto in quel momento in cui l’attenzione di tutti era posta sulla Megaevoluzione e sulle sue ultime scoperte.
   Chiuse gli occhi e cercò di ricordare. Le aveva lasciate sulla scrivania del Laboratorio? No, aveva controllato ed era sicuro che non ci fossero. In qualche altra stanza? Poco probabile. Forse gli erano cadute nella serra? O per strada? Sennò cosa aveva fatto prima? La sera precedente aveva dormito da Elisio, avevano passato la notte insieme. La mattina si era svegliato di soprassalto, stava facendo tardi a lavoro. Aveva raccattato i vestiti sparsi sul pavimento e li aveva indossati in fretta. Poi era andato in cucina, aveva preso al volo una fetta di pane tostato mentre si stava allacciando la cinta dei pantaloni, aveva bevuto un sorso di caffè e poi si era messo a controllare che non si fosse dimenticato nulla, poggiando sul tavolo tutto il contenuto delle tasche e divorando un’altra fetta di pane.
   «Platan, rallenta. Ti sentirai male, così», lo aveva rimproverato Elisio, smettendo di leggere il giornale.
   «Scusa, ma sono in mega ritardo!».
   Poi aveva ripreso tutto quanto e si era chinato su di lui per dargli un bacio sulla bocca al sapore di caffè. Era corso via tutto di fretta e...
   «Non è possibile. Non ci credo», si diede una manata in fronte. Aveva lasciato le chiavi sul tavolo. Ecco perché Elisio per un po’ gli era andato dietro prima che se ne fosse andato.
   Si sentì in imbarazzo mentre prendeva l’Holovox e componeva il suo numero. Certe volte aveva la testa davvero per aria.
   Elisio stava dormendo. Sentì squillare l’Holovox e poco a poco si svegliò. Accese il lume sul comodino e sul display guardò chi fosse. Gli venne un po’ da ridere. Rispose e immediatamente di fronte a lui apparve il viso mortificato di Platan.
   «Ciao, cher...» disse quello, dispiacendosi di averlo svegliato a un’ora così tarda. Vederlo in pigiama e con i capelli arruffati lo faceva vergognare ancora di più. Non era la prima volta che lo chiamava in mezzo alla notte, ma stavolta si trattava di una cosa talmente sciocca che sentiva l’imbarazzo fin sulle punte dei capelli.
   «Alla fine te ne sei accorto, allora», disse Elisio con voce profonda e assonnata «Vengo a riportartele?».
   «No, non preoccuparti, ci pens...».
   «Vengo a riportartele», lo interruppe «Aspettami, faccio più in fretta che posso. A dopo».
   Elisio chiuse la chiamata, si vestì. Se doveva essere sincero, da una parte aveva sperato che sarebbe venuto a casa sua a riprendersele. Però erano le due di notte e sapeva quanto Platan di solito fosse stanco a quell’ora. Già era diventato un peso per lui, non voleva infierire ulteriormente. In realtà non glielo aveva mai detto, ma Elisio a poco a poco stava iniziando a temere che i sentimenti di Platan per lui stessero cambiando. E sapeva benissimo perché, nonostante facesse finta del contrario. La verità gli faceva male. Attraversando il salotto passò di fronte al balcone. Gli venne un’idea.
 
 
   Platan aspettava. Ormai era sveglio. Passava il tempo leggendo qualche articolo scientifico sul tablet. Poi gli era arrivata una mail del Professor Birch che lo invitava a trascorrere qualche giorno ad Hoenn, diceva di avere delle notizie interessanti da condividere con lui.
   “Mi dispiace, caro Birch,” gli stava rispondendo “ma come ben saprai in questo momento non ho proprio un attimo libero. In più sono rimasto fuori casa e sto aspettando che il mio fidanzat”.
   Ah, vero. Lui non lo sapeva.
   Cancellò tutto, l’asticella del testo tornò indietro fino a lasciare la pagina bianca. La noia faceva brutti scherzi. Lasciò perdere e accantonò la bozza nel cestino. Chiuse gli occhi. Pensò ad Hoenn, alle sue spiagge calde. C’era stato ad Hoenn, qualche anno addietro. Per un po’ aveva lavorato con il Professor Cosmi alle Cascate Meteora. Chissà come stava il Professor Cosmi, era parecchio tempo che non lo sentiva. Avrebbe dovuto scrivergli, un giorno di quelli, si disse.
   Ad un tratto sentì un profumo di fiori. Si era messo di nuovo a sognare? Aprì gli occhi e vide Elisio di fronte a lui che teneva un mazzo tra le dita. In mezzo ai petali aveva nascosto le chiavi. Platan prese il mazzo e annusò i fiori.
   «Sei il solito romanticone», gli disse con un sorriso.
   «Domani mattina saranno ancora più belli, quando si apriranno».
   «Non vedo l’ora di vederli. Vieni dentro, troviamogli un vaso».
   Li sistemarono in un vecchio vasetto di vetro che Platan aveva lasciato come soprammobile sulla cassettiera del salotto. Si misero a guardare i fiori, abbracciati l’uno all’altro. Elisio poggiava la testa dietro la sua, un po’ assonnato.
   «Li hai presi dal tuo balcone?» chiese Platan.
   «Mh mh».
   «Sono davvero belli anche così».
   «Ma il fiore più bello di tutti sei tu, Platan», sussurrò.
   Il Professore arrossì di poco. Gli piaceva quando Elisio gli faceva complimenti con quel tono della voce. Era molto intimo e passionale. Si girò verso di lui, gli accarezzò una guancia guardandolo negli occhi. Si spinse sulla punta dei piedi e lo baciò sulle labbra passando le mani fra i suoi capelli spettinati che nella fretta di venire non aveva più sistemato. Era durante quelle ore in bilico fra il giorno e la notte che, avvolti in mezzo a manifestazioni di affetto, riscoprivano di amarsi. Erano soli nel mondo ed eternamente felici, lontani dagli amari pensieri che li imprigionavano per il resto del tempo. Si allontanarono, volevano guardarsi. Elisio lambiva con un dito le labbra dell’altro, sussurrava tenere parole mentre i loro occhi si illanguidivano. Si piegò su di lui, gli prese il mento con le dita e lo condusse piano verso la sua bocca. E Platan pensò che non c’era nulla di meglio che finire fra le sue braccia dopo una giornata intensa di lavoro. Si sentiva quasi gratificato, ripagato di tutte le fatiche. Spinse la testa sotto il suo mento e lo baciò sul collo.
   «Questo toglilo, però», disse sfilandogli di dosso il cappotto e gettandolo sul divano. Riprese a baciarlo mentre sentiva Elisio passare le mani sul suo corpo e inclinare la testa di lato, appagato dal tocco intangibile delle sue labbra. Le loro bocche si unirono un’altra volta, i loro fiati si mischiarono.
   «Portami a letto», sospirò Platan stringendosi a lui. Elisio eseguì.
   Andarono in camera attraversando abbracciati il minuscolo corridoio. L’appartamento di Platan non era molto grande, dato che di solito non ci trascorreva molte ore: era abbastanza per avere un posto dove mangiare, dormire e lavarsi. Per il resto andava bene il Laboratorio.
   Si sdraiarono sul letto e continuarono ad accarezzarsi. Tuttavia presto si fermarono, sopraffatti dalla stanchezza. Platan aprì un cassetto del comodino e prese il pigiama, si cambiò. Prima di ridistendersi si ricordò che doveva mettere a posto il camice. Fece il giro della stanza e tirò fuori una busta dalla cassettiera della scrivania, vi mise dentro l’indumento. Il giorno dopo lo avrebbe portato in lavanderia, aveva bisogno di una pulita. Mentre tornava a letto lo sguardo gli cadde per un attimo sulla finestra. Nel cielo vide qualche stella. Il suo viso si rabbuiò. “Pensa, ma stai zitto,” rifletté raggomitolandosi sul materasso dando le spalle a Elisio “stai zitto. Che quel che la bocca dice, prima o poi il cuore si abitua a credere. Zitto”. Il compagno passò una mano sul suo braccio e si strinse a lui.
   «Tu es silencieux, mon cher», disse: non era la prima volta in quel periodo che si faceva taciturno all’improvviso «Tout va bien?».
   «Je suis fatigué. C’est tout», ribadì.
   «Tu n’as pas l’air convaincu...».
   Spinse la testa contro la sua e sospirò. Platan non pareva aver voglia di rispondere. Elisio lo baciò sulla nuca, accarezzandogli lentamente l’addome con una mano.
   «Oh, principe senza terra, dove vaga il tuo cuore errante?» sussurrò attorcigliando le dita tra i suoi capelli per poi allontanarle «Io intendo ritrovarlo... E placare finalmente il tuo animo affranto...».
   «Che cos’era? Mi ricorda qualcosa», si stava sforzando di riportare alla memoria dove e quando avesse già sentito quelle parole.
   «È solo un antico canto che mi insegnarono da bambino. Sapevo anche la melodia una volta, ma ora non la ricordo più. Però, forse, se riuscissi a ritrovare il carillon...».
   «Sì, ma era diversa, mi pare».
   «Come per tutti i canti di tempi passati, esistono diverse versioni. Io ne conosco un paio».
   Platan si rigirò nel letto, gli poggiò un dito sulle labbra facendogli intendere che poteva bastare. Di canti su un principe senza terra in quel momento non gli importava poi molto. Chiuse gli occhi e sbadigliò.
   «Rimani qui?» gli chiese a voce bassa accucciandosi con la testa sul suo petto mentre si allungava su di lui in un abbraccio assonnato.
   «Sono troppo stanco per tornare a casa, non ho neanche la forza di alzarmi. Perciò, se posso approfittarne...».
   «Per quanto mi riguarda, puoi approfittarne sempre. È un periodo un po’ strano, questo, quindi se avessi voglia di farmi compagnia, non mi dispiacerebbe. A volte mi sento solo».
   «Platan, hai così tante persone al tuo fianco... Sina e Dexio, Diantha, Bulbasaur, Garchomp... E poi ci sono io».
   «E poi ci sei tu», ripeté.
   E per quanto tempo? Per quanto tempo ci sarai, ancora, Elisio?, gli avrebbe voluto chiedere. Scosse la testa e si impose di non pensarci. Il viso di Elisio si era lievemente incupito, si era accorto che stava avendo qualche dubbio in merito.
   «Platan, se hai qualcosa che senti il bisogno di dirmi, voglio che tu lo faccia», gli disse, improvvisamente si era fatto serio «Qualunque cosa, dalla più stupida alla più grave. Chiaro? Sono qui per te e voglio renderti felice».
   «Ma io sono felice, con te! Sono la persona più felice del mondo quando sto con te! Io... Io ti amo, Elisio. E non smetterò mai di farlo. Quello che provo per te non riuscirei mai a dirlo, perché non sono un poeta e con le parole non ci so fare. Quando si tratta di sentimenti, non ho mai trovato modo di esprimerli bene a voce. E se poi parliamo di te, allora è ancora più difficile, perché non ci riesco ad alta voce e nemmeno nella testa. Sei come...» si prese qualche secondo per pensarci, perché era difficile trovare un paragone adatto «Sei come una tempesta che sconvolge tutto. Ed è una sensazione bellissima sentire questo sconvolgimento dentro di me. È solo che...».
   Lo accarezzò sul viso. Elisio era rapito dalle sue parole e Platan vedeva quanto si stesse emozionando nel sentirle, nonostante il suo viso fosse tutt’altro che trasparente quando c’erano in ballo i sentimenti. Ormai aveva conosciuto come interpretare quell’espressione apparentemente indecifrabile che aveva sempre addosso. Riusciva a percepire qualche lieve piegamento accanto alla bocca, o sotto gli occhi, anche, oppure qualche volta le sue guance cambiavano tonalità in maniera impercettibile o il naso si arricciava. Erano tante piccole spie che Platan aveva imparato a riconoscere e che gli dicevano ciò che Elisio stava provando in quel momento. In realtà non era sempre stato così, ma le ultime circostanze lo avevano costretto ad accentuare ancora di più quella parte poco avvezza ad esternare le proprie emozioni, persino con l’uomo che amava. Platan si era adattato di conseguenza.
   «Questa settimana ho quattro congressi, un’intervista al Corriere di Luminopoli e mi avrebbero anche chiesto di partecipare ad un programma televisivo, ma ancora non ho risposto all’invito. Sono in una fase del mio percorso di Professore che non avrei mai immaginato di poter raggiungere. Almeno, non in questo modo. È stancante. Tutti mi guardano con ancora più insistenza di prima e si aspettano da me chissà quali cose... Io non voglio deluderli, ma so di non essere all’altezza delle loro aspettative...».
   Elisio prese un lembo della coperta e coprì entrambi con essa. Baciò Platan sulle labbra e poi sulle guance, lo strinse fra le braccia sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Si addormentarono.
 
 
   «Questi fiori sono per te, Platan.» gli mise in grembo il bouquet e lo baciò sulla fronte. Mentre allontanava le mani gli rimase impigliato un giglio tra le dita. Platan provò a prenderlo, ma non voleva venire via. Il gambo si era attorcigliato al suo braccio. Lasciò andare il mazzo di fiori e allungò le mani verso quei petali bianchi. Desiderava solo quelli, tutti gli altri erano presto scomparsi dalla sua mente. Sentiva il profumo forte del giglio e impazziva. Tirava il fiore con tutta la forza, infossava le unghie nella corolla e tirava ancora. Il gambo era troppo robusto e non si sfilava. Avvicinò la bocca e con i denti cercò di spezzarlo, lo mordeva con i canini affilati, come una bestia affamata e impaziente di consumare il proprio pasto.
   «Elisio, dammelo», ringhiò. Elisio non rispondeva.
   Platan alzò la testa e rimase con la bocca aperta, necessitante d’aria. Ansimava e a tratti la vista gli si offuscava. Aveva i palmi delle mani sporchi di rosso. Il sangue scorreva lungo la lama della chiave che fuoriusciva dal suo petto e gocciolava sulle sue dita. L’oggetto l’aveva trapassato da una parte all’altra. Si aggrappò a Elisio, gli chiese aiuto. Ma anche lui sembrava soffrire. Pativa il dolore in silenzio. Il suo sguardo si era fatto vacuo e la pelle del viso era tirata. Spalancò gli occhi tremando e contorcendosi su sé stesso. Si stringeva la testa tra le mani mentre dagli occhi piangeva lacrime.
   Si fermò. Tutto era tornato calmo.
   Il cielo cominciò a oscurarsi e la sua pelle diventò bianca come quella di un cadavere.
 
   «Il sangue versato non sarà mai abbastanza per sanare il dolore».
 
   Gridò un urlo disumano. Da dietro di lui partì una tempesta di frecce che cercava di colpirlo, come se un intero esercito lo avesse preso di mira. Elisio urlava, urlava e si dimenava, come un’enorme fiera ormai in trappola dopo una lunga fuga. Platan guardava, aveva la nausea e voleva vomitare. Sussultò nel momento in cui una lama lo sfiorò, trapassando il corpo di Elisio. Aveva la schiena coperta di frecce e si piegava, sopraffatto dal loro peso. Il giglio nelle sue mani si era seccato ed era tutto imbrattato di schizzi.
   I loro sguardi si vennero in contro per l’ultima volta.
   Elisio si accanì su di lui gettandosi sul suo viso, mordendogli le labbra con un morso che sapeva di bacio. E Platan soffocò.
 
 
   Si svegliò tutto accaldato, il corpo ancora intorpidito, ma che desiderava muoversi in maniera irrefrenabile e disperata per correre via. Elisio dormiva con la testa poggiata sul suo petto, il viso rilassato in un’espressione addolcita rispetto al suo solito. Platan adorava fermarsi a guardarlo nel sonno, talmente era delicato e dolce il suo sorriso, ma in quel momento non fece altro che provare repulsione e inorridimento nel trovarsi al suo fianco, nel fatto che i loro corpi fossero così vicini fino a urtarsi, nel fatto che qualche minuto o ora prima avesse desiderato toccarlo e che lui stesso lo toccasse, con quelle mani, con quella bocca sottile con cui lo aveva morso, uccidendolo. Non appena riprese il controllo degli arti, si alzò di corsa dal letto, doveva bere, doveva andare in bagno, doveva girare per casa così a caso, stare per un po’ lontano da Elisio e metabolizzare quello che aveva appena sognato. Percorse la stanza, ma si fermò di scatto davanti alla finestra quando i suoi piedi vennero toccati dalla luce notturna proveniente da fuori e che si stendeva sul pavimento. Si avvicinò al vetro, guardò il cielo. Quante stelle...
   Era tornato bambino, lui che bambino non lo era più. Si mise a contare ogni punto luminoso come aveva fatto da piccolo nelle notti di incubi.
   «Mon petit fleur...» per un attimo gli sembrò di sentire la voce della madre nelle orecchie, e si trovava fra le sue braccia, seduto sulle sue gambe e la testa rintanata in mezzo al suo seno mentre cercava conforto.
   «Maledette», sibilò, ritornando al presente «Maledette tutte quante».
   Guardò Elisio e adesso esplodeva di rabbia e frustrazione. Perché il destino doveva essere quello? Perché? Spesso di notte sognava ancora quella visione assurda vista mesi addietro e immagini raccapriccianti come quella di poco prima. Una volta era lui stesso a morire, altre volte i suoi cari. E poi Elisio. Chiuse la tenda e rimase al buio, nascondendo le stelle maledette che lo avevano ingannato. Andò in cucina e riempì un bicchiere d’acqua, si sedette sul divano del salotto attaccato ad essa.
   Gli era passata la sete.
   Osservò i mobili che aveva di fronte: un tavolo, un mobiletto su cui c’era il vecchio televisore che a volte si rifiutava di accendersi. Passò gli occhi sulla libreria, osservò ogni libro e per ognuno cercò di ricordarsi di cosa parlavano e di quando li aveva letti. Poi si girò e incontrò il vaso in cui aveva messo i fiori che Elisio gli aveva portato.
   Lui, pensò con rammarico, non gli aveva mai regalato dei fiori.
   Se voleva donargli qualcosa, cercava sempre la cosa più sofisticata e lussuosa che poteva permettersi con ciò che guadagnava – negli ultimi mesi tuttavia, a causa dell’incidente con Golurk, almeno metà del suo stipendio se ne era andato via, e non poteva più fargli quei bei regali. Di solito si trattava di un orologio antico, o di una boccetta d’acqua di colonia comprata in una città particolare dove andava per lavoro, una cravatta, dei gemelli...
 
   Un mazzo di fiori era così semplice.
 
   Semplice come avrebbe dovuto essere il loro amore.
 
   Ma il legame che avevano era tutt’altro che semplice.
 
   Sentì dall’altra stanza Elisio che lo chiamava. Lasciò il bicchiere in salotto, tornò in camera e si sedette sul bordo del letto. L’uomo parlava nel sonno, ripeteva il suo nome. Platan gli accarezzò il viso con la mano, lo svegliò con delicatezza.
   «Platan!» si tirò a sedere e strinse le mani sulle sue braccia, lo guardò ansimante «Sei qui... Sei ancora qui...».
   Tremava, Elisio. Involontariamente per qualche secondo ruppe lo scudo che proteggeva le sue espressioni. Posò la testa nell’incavo fra il collo e la spalla dell’amante e chiuse gli occhi, respirò profondamente.
   «Sei ancora qui», disse un’ultima volta, e si calmò.
 
   Entrambi avevano e vivevano nello stesso identico incubo.
 
 
   Il giorno successivo si svegliarono più o meno nello stesso momento, abbastanza presto. Platan doveva prepararsi per andare ad uno di quei congressi, quindi si mise camicia bianca, pantaloni neri e una delle giacche più eleganti che aveva nell’armadio. Si pettinò con più cura del solito: a quel convegno avrebbero partecipato scienziati provenienti da tutto il mondo e doveva presentarsi bene. Si chiese se anche il Professor Rowan sarebbe venuto. Controllò di aver messo tutti i fascicoli e i documenti che gli sarebbero serviti quel giorno e raggiunse Elisio in salotto.
   «Possiamo andare», disse.
   Vide il compagno intento a cambiare l’acqua del vaso. Com’erano belli, quei fiori. Profumavano molto più della notte precedente. Era felice che glieli avesse portati.
   Accompagnò Elisio a casa con la macchina, aspettò che si sistemasse pure lui per la giornata. Andarono a fare colazione insieme al Caffè, ancora chiuso in realtà, ma ormai Platan era diventato cliente abituale in quegli orari irregolari.
   Si sedettero insieme ad un tavolo, accompagnati da due tazze di cappuccino e due cornetti appena sfornati.
   «È da un po’ che non vengo qui a mangiare qualcosa con calma», disse Platan intingendo un pezzo di croissant nel caffelatte. Girò la testa verso il mobile che ora, conseguentemente a quella sua irruzione, nascondeva l’accesso ai Laboratori, poi la alzò sul soffitto.
   «Xante non c’è», lo rassicurò Elisio «Puoi stare tranquillo».
   Fra i due non correva buon sangue e il capo del Team Flare lo sapeva bene.
   Platan però scosse la testa: non si trattava di quello.
   Era nel covo di quei terroristi, eppure questo pensiero non gli metteva più la minima inquietudine. Forse si era abituato all’idea? Si era abituato all’idea che anche Elisio stesse diventando un criminale? Poteva essere. Più che essersi abituato probabilmente si era costretto ad accettare la realtà dei fatti. Quella visione continuava a tormentarlo, ma del futuro non poteva dare certo colpa a Elisio. Aveva lungamente riflettuto in quelle settimane frenetiche su quel punto. Ogni membro del gruppo, alla fine, aveva un valido motivo per aderire alla causa. Lo stesso Elisio, nonostante inizialmente non lo avesse capito, combatteva per un principio ben chiaro. Voleva un mondo perfetto, un mondo senza disparità, bello, in cui la ricchezza sarebbe stata alla portata di tutti, un mondo senza odio, un mondo senza violenza perché tutti avrebbero avuto ciò che volevano e non avrebbero avuto bisogno di guerre per ottenere ciò che gli mancava. Invece nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile in un mondo come quello in cui vivevano ora: erano in troppi e quando si è in troppi c’è sempre qualcosa che, rimasta unica, non si può spartire e quindi ce la si deve accaparrare con la forza e con il sangue. Elisio tutto questo lo vedeva. Lo sentiva sulla sua stessa pelle. E dentro fremeva dalla rabbia. Quindi lui, che era di nobile stirpe, voleva battersi in questa impresa senza eguali e portare alla gente una soluzione, una speranza per il futuro.
   In un mondo come il loro, chi mai sarebbe riuscito a sperare, dopotutto?
   Platan adesso lo capiva, vedeva i tasselli tutti riuniti e infilati nei punti giusti a formare uno schema preciso.
   Dell’avidità dell’uomo ne aveva avuto esperienza nel proprio campo diverse volte, ma soltanto in quell’ultimo periodo ci aveva fatto mente locale. Non era mai stato molto di spicco nel corso della sua vita: soltanto nel momento in cui era diventato Professore aveva avuto modo di dire un po’ la sua. E ora che aveva fatto quelle scoperte, ora che stava riuscendo a farsi valere per le proprie capacità, i suoi colleghi lo invidiavano, avevano acceso con lui delle dispute feroci nonostante in precedenza fossero stati in buoni rapporti. In passato si erano sostenuti a vicenda, li aveva aiutati nelle loro ricerche e si era tirato da parte quando era venuto il momento di prendersi il merito. Adesso li ritrovava nel proprio Laboratorio, che per ringraziarlo gli aprivano i cassetti e gli rubavano schede e documenti di importanza inestimabile. La biologia dei Pokémon era tutto un circolo vizioso in cui la concorrenza fra scienziati era all’ordine del giorno, spietatissima, e i vecchi valori che gli erano stati tramandati dal Professor Rowan e da altri non valevano più neanche un soldo. Oh, e i soldi, appunto, quanti ne giravano di continuo, sia in chiaro che in nero, un enorme oceano di banconote e di corruzione! Gli faceva male vedere il suo mondo ridotto in quel modo. Erano in troppi e per farsi vedere dovevano rubare agli altri e mostrare di essere i migliori, anziché condividere e collaborare. Ogni volta che sul giornale leggeva di queste storie, si esentava dall’esprimere la propria opinione.
   Quindi capiva Elisio, lo capiva perfettamente. Ma capiva anche che quello era soltanto un modo di vedere le cose e che la situazione poteva essere studiata e migliorata anche in altre maniere. E questo invece l’altro faticava a comprenderlo. Era rimasto talmente colpito dall’egoismo degli uomini che altre soluzioni non poteva vederle. Era accecato dal proprio orgoglio. Platan avrebbe voluto aiutarlo ad aprire gli occhi, a mettere da parte il suo ego. Ma non avrebbe mai avuto occasione di dirglielo. Il destino ormai era segnato.
   Da dietro una fessura del mobile, Akebia li osservava silenziosamente. Martynia uscì dall’ascensore e la guardò incuriosita dalla cima della scalinata. Scese e venendole dietro chiese: «Che cosa stai facendo, Akebia?».
   La ragazza si girò sobbalzando, come colta nel sacco, e vide riflessa la propria figura negli occhi azzurro elettrico di quella.
   «Nulla!» rispose, mettendosi davanti alla fessura per coprirla.
   «Nulla? A me non sembra proprio! Avanti, fammi vedere chi c’è!» la stuzzicò e spostandola di lato guardò anche lei, ignorando le proteste della compagna «Ah, ma quello è il capo! Ed è con il Professor Platan?».
   «Sì. Contenta, adesso?».
   «Akebia, non è che ti piace uno di loro due? Quando vengono, stai sempre a guardarli...».
   Akebia scosse la testa con forza e cercò di ribattere spiegando le proprie ragioni, anche se non era sicura che avrebbe capito: «Assolutamente no! È solo che, quando sono insieme, Elisio sembra così felice... Io sono stata la prima del gruppo ad essere presa e lavoro con lui da molto tempo prima che venisse fondato il Team Flare. Gli sono grata per l’aiuto che mi ha dato e mi sono affezionata a lui, tutto qui. Vederlo felice mi rende contenta...».
   Mentre l’aveva detto, aveva riflettuto con talmente tanta passione sui ricordi delle circostanze che li avevano portati a conoscersi che gli occhi arancioni avevano preso a brillarle, sfiorati da un velo di lacrime. Martynia scoppiò a ridere.
   Platan si pulì la bocca con un tovagliolo e si alzò, si mise la borsa a tracolla: «È ora di andare, tra un’ora ho già il primo intervento da fare», disse.
   Elisio lo accompagnò alla porta e prima che se ne andasse gli sistemò meglio la cravatta.
   «Buona giornata», gli disse con ancora le dita sul nodo.
   «Anche a te», sorrise e si spinse sulle punte dei piedi per dargli un bacio, a cui Elisio rispose con estrema delicatezza, diversamente da come aveva fatto nel sogno. Non era ancora diventato una bestia, si disse Platan, e di questo era sollevato. C’era ancora tempo, forse, per vivere tranquilli. Si lasciarono e il Professore uscì dalla caffetteria. Intanto che andava a prendere la macchina s’incrociò con Xante e i due si scambiarono uno sguardo eccessivamente ostile. Poi ripresero le proprie strade.
   «Almeno dimmi che ha deciso di unirsi a noi», disse acidamente lo scienziato corpulento sbattendo le porte della caffetteria e facendo il suo ingresso.
   «No. Non gliel’ho neanche chiesto», ribatté Elisio sparecchiando il tavolo dove avevano appena mangiato «Ti pregherei di essere più gentile nei modi. Le porte non crescono sugli alberi, credo tu lo sappia».
   «Ovviamente», lo fulminò con lo sguardo per l’offesa subita, tuttavia Elisio lo ignorò «Ma se tu non continuassi a sperperare denaro in giro per ripagare i danni del Laboratorio Pokémon, magari non dovremmo nemmeno preoccuparci di qualche eventuale guasto ai materiali».
   «Tu comincia con il non romperli, allora. Per il resto si vedrà. Ma cos’è questo baccano?».
   Si girarono verso l’entrata dei Laboratori. Elisio scostò il mobile e vide Martynia e Akebia nel mezzo di una discussione.
   «Cosa sta succedendo?» chiese severamente.
   «Capo!» esclamarono le due, spaventate: non si erano accorte di essere state scoperte.
   «Andate a radunare tutti nella sala principale. Ho qualcosa da dirvi», ordinò.
   «Subito!» dissero di nuovo insieme. Akebia gli rivolse un’occhiata imbarazzata e se ne andò, trascinata per un braccio da Martynia.
   «Se cominciano a formarsi delle fratture nel gruppo, stiamo a cavallo».
   «Invece di contestare ogni cosa, vedi di essere d’aiuto. Va’ a chiamare gli altri e diffondi la voce. Loro due avranno avuto un piccolo battibecco, nulla di grave. Si chiariranno».
   Xante lo guardò di sbieco. Elisio lì dentro pareva avere il controllo persino sui rapporti fra i suoi dipendenti, quasi.
   «Vai», ripeté il capo nervosamente: perdere tempo non gli piaceva.
 
 
   Tutte le reclute si erano riunite nella sala principale dei Laboratori. Bromelia, Cytisia, Martynia e Akebia sedevano in prima fila assieme a Xante, dietro c’erano gli Ufficiali e a seguire le varie Reclute. Elisio salì sul palco e controllò che tutti fossero presenti.
   «Malva?» chiese, vedendo il posto accanto a Xante e a lei riservato vuoto.
   «Aveva da fare alla Lega Pokémon, stamattina. Non è potuta venire», spiegò l’uomo.
   «D’accordo. Più tardi riferiscile».
   Si mise al centro del palco e cominciò a parlare seriamente:
   «Sono infine riuscito a localizzare il punto preciso in cui si trova l’Arma Suprema. Come avevamo calcolato in precedenza, è nelle vicinanze di Cromleburgo, e più esattamente sotto di essa, al centro. C’è bisogno che alcune truppe vengano con me ad esplorare i cunicoli che si diramano dal Quartier Generale in costruzione. Chi si offre?».
   Alcune Reclute alzarono la mano, determinate a seguire il loro Capo. Altri ci pensarono qualche minuto, ma infine anche loro si decisero ad accettare.
   «Io ho una domanda», disse una ragazza.
   «Ti ascolto».
   «Il fatto che l’Arma Suprema si trovi a Cromleburgo potrebbe essere un indizio riguardo ai monoliti che sono attorno alla città? Potrebbero davvero essere loro la chiave di alimentazione dell’Arma?».
   «È possibile, ma ancora non ne siamo certi. Ho bisogno di un secondo gruppo che presieda lungo la Strada dei Menhir e che recuperi informazioni sulla natura di quelle pietre. Qualche volontario?».
   Altre Reclute diedero la propria disponibilità.
   «Molto bene», annuì notando il corposo numero di persone che si erano offerte di partecipare alla missione, quindi si rivolse a coloro che erano rimasti con la mano abbassata «Voialtri allora rimarrete qui a controllare la situazione dai computer. Xante, tu gestirai questo gruppo. Voi quattro, invece,» guardò le scienziate «verrete con noi. Una volta arrivati lì, vedremo se separarci o meno».
   «Mi scusi, un’ultima domanda», la ragazza di prima aveva di nuovo chiesto di avere la parola «È più riuscito ad ottenere quella relazione del Professor Platan? Se potessimo carpirne qualche informazione, partiremmo già avvantaggiati, non crede anche lei?».
   Elisio rimase a pensare in silenzio alla risposta da dare. Ovviamente non aveva neanche provato a farsela dare, né a cercarla di nascosto. Non poteva fare una cosa del genere nei suoi confronti nonostante in realtà inizialmente ci avesse pensato – e se ne fosse subito pentito. No, era fuori discussione. Xante lo scrutava, attendendo le sue parole.
   «Vedrò ciò che posso fare», rispose Elisio facendo così credere che si sarebbe attivato in qualche modo «Altre domande?».
   Nessuno aveva obiezioni o commenti da fare. Si sentì un leggero brusio e qualche testa rossa si guardava intorno per vedere se vi fosse qualcuno che volesse parlare. Poi tornò il silenzio.
   «D’accordo. La riunione è finita, potete tornare alle vostre occupazioni. Grazie a tutti».
   Mentre la sala si svuotava, Elisio andò incontro ad Akebia.
   «Raggiungimi nella mia stanza. Devo parlarti», le disse.
 
 
   Si fermò davanti alla porta chiusa della stanza del capo. Senza pensarci troppo bussò ed aspettò che quello da dentro le desse il permesso di entrare. Fece i suoi primi passi all’interno con un po’ d’indecisione: probabilmente voleva parlarle della discussione che aveva avuto con Martynia e il solo pensiero di dovergli spiegare che cosa era successo la metteva in imbarazzo. Elisio alzò la testa dal solito libro, «Il canto fraterno aprirà l'accesso,» stava leggendo ad alta voce, vide la ragazza e la invitò ad avvicinarsi.
   «Chiudi la porta, per favore», le chiese gentilmente.
   «Capo, io...»
   L’uomo però la bloccò. Prese un pacchetto e glielo mise fra le mani.
   «So che qualche giorno fa era il tuo compleanno. Mi dispiace non averti potuto fare gli auguri in tempo, perciò vorrei rimediare. Ci conosciamo da molti anni, quindi sai quanto per me sia importante», le disse.
 Akebia lo osservò interdetta. Non pensava che l’avesse chiamata per quello. Strinse il pacchetto con le dita e ridacchiò.
   «Sul serio, Capo? Tutto questo trambusto per un compleanno mancato?».
   «Vorrei che tu lo aprissi».
 Lei lo guardò di nuovo con uno sguardo un po’ incredulo. Senza farselo ripetere, aprì il pacco e dentro vi trovò un paio di calze gialle. Alzò la testa e rivolse a Elisio un’occhiata commossa. A quell’uomo non sfuggiva mai nulla, pensò, ricordava sempre tutto. Nonostante potesse apparire severo, in realtà aveva un gran cuore.
   «Ricordo che la tua casa era piena di ranuncoli gialli, perciò ho pensato che questo colore ti piacesse. Sono per la tua divisa», spiegò Elisio.
   «Tu non sai che significato abbiano per me», disse lei con le lacrime agli occhi «Grazie».
   Si girò dal lato opposto per non farsi vedere. L’uomo le poggiò una mano sulla spalla.
   Ora bisognava ritornare nei propri ruoli.
   «Xante prima mi ha fatto notare l’incrinatura fra te e Martynia», le disse.
   «Ah, posso spiegare!» esclamò lei voltandosi un’altra volta, pur non avendo la voglia di farlo.
   «No, non c’è bisogno che tu mi dica cosa è successo. Vorrei soltanto chiederti di mantenere un buon clima fra di voi. Abbiamo bisogno di essere uniti e ogni screzio potrebbe essere dannoso per la riuscita dei nostri piani. Martynia ha un carattere un po’ arrogante, ma è una ragazza intelligente: è per questo che l’ho scelta. Cerca di sopportarla. Tu sei una persona solare, e so che non ti lascerai infastidire da qualche frase pungente detta da lei, vero?».
   «Va bene, Elisio, ho capito».
   L’uomo le rivolse un’occhiata grata. La conosceva da parecchio tempo e in lei riponeva una grande fiducia. Stava anche pensando di metterla a capo di una delle missioni successive e avrebbe voluto dirglielo. Ma non lo fece: avrebbe rischiato di far aumentare i divari fra le ragazze e si sarebbe potuta montare la testa. Bisognava essere cauti.
   «Stai facendo un buon lavoro, ultimamente», le disse invece «Mantieniti su questo livello».
   «Cercherò di fare del mio meglio!».
 
 
   «Arrivederci!» Platan si avviava a tornare a casa dopo l’ennesimo congresso, salutando i colleghi e uscendo dall’albergo in cui aveva avuto luogo. Quattro convegni in una settimana: alla fine ce l’aveva fatta. Comprensibilmente, quindi, era stanco morto. Prima di uscire aveva preso un caffè, ma la stanchezza era davvero tanta. Gli faceva un po’ male la testa. Quel giorno neanche era andato con la macchina dato che il posto si trovava nelle vicinanze. Adesso stava avendo qualche ripensamento al riguardo e si malediceva per non averci riflettuto meglio in mattinata. Sentì qualcuno che lo chiamava e alzò la testa: davanti a lui, Elisio lo stava aspettando al volante della sua automobile.
   «Tesoro!» esclamò Platan coprendosi subito la bocca e guardandosi attorno imbarazzato. Fortunatamente non c’era nessuno.
   «Serve un passaggio?».
   «Beh, in effetti!».
   «Sali su, ti riporto io».
 
 
   Platan aveva bisogno di tornare in Laboratorio, perciò passarono lì. Si sedettero sul divano della stanza solitamente adibita alle pause, quella con la cucinetta dove si poteva preparare il caffè e di cui il Professore abusava per questo motivo.
   «Che giornata!» sospirò l’uomo posando a terra la borsa. Si strinse fra le braccia di Elisio e chiuse gli occhi.
   «Grazie per essere venuto a prendermi».
   «Non c’è problema».
   Si accarezzarono le mani e rimasero a guardarsi negli occhi per lunghi secondi. No, Elisio era ancora Elisio, si disse Platan. I suoi occhi erano chiari e ancora non vi vedeva il rancore disperato che vi dimorava invece nei suoi incubi. Quanto gli doleva, però, sapere che quell’odio e quella rabbia lo avrebbero consumato un poco alla volta e reso spietato, un mostro. Di notte piangeva, di tanto in tanto. Lo assaliva una temporanea paura nei suoi confronti. Eppure riusciva a calmarsi soltanto sapendo che era al suo fianco. La loro promessa non contava più nulla, perciò non avrebbero mai raggiunto quella pace che desideravano. Ciò per cui aveva vissuto ogni istante, ciò per cui aveva viaggiato, ciò per cui lo aveva cercato tutti quegli anni non esisteva più. Gli bastava la magra consolazione di sapere che ancora non era giunto il tramonto, che ancora si poteva vivere serenamente qualche esperienza insieme senza aver paura del futuro.
   Forse.
   Allungò una mano sul suo viso e lo accarezzò su una guancia, a lungo e dolcemente. Bisognava accontentarsi del presente e viverlo pienamente.
   «Platan, senti,» Elisio si ricordò della richiesta che gli aveva fatto quella Recluta qualche giorno prima. Forse un tentativo poteva farlo, magari prendendo l’argomento alla larga e con qualche domanda indiretta.
   «Sei bellissimo, Elisio...» sussurrò il Professore, perso nelle sue riflessioni e nella piacevolezza di quel momento. Aveva sentito il bisogno di dirglielo, perché era quello che stava pensando in quell’istante esatto. Non bisognava sprecare il presente. Ogni secondo era prezioso e valeva la pena di essere vissuto.
   Elisio aprì gli occhi più del normale, le iridi azzurre fattesi improvvisamente più languide. No, no, non poteva. L’amore di Platan non si doveva tradirlo, né sfruttarlo. Era troppo prezioso. Se lo avesse perso non sarebbe più stato in grado di riaverlo. E se non per il marciume di quel mondo, allora sarebbe morto per mancanza di lui. Era la sua aria, era la sua vita, era il suo fiore. Insieme erano qualcosa di unico e perfetto. Inquinare quella perfezione sarebbe stato inaccettabile.
   «Ti va di andare a cena fuori, stasera?» gli chiese, scacciando via l’idea che aveva avuto pochi istanti prima «Magari in qualche posto tranquillo,».
   Platan lo baciò sulle labbra, facendogli intendere che era d’accordo. Elisio posò le braccia sulle sue spalle e chiudendo gli occhi mise tutta la passione che rivolgeva nei suoi confronti in quegli innumerevoli baci. E l’altro nuovamente pensò che finire nella sua bocca dopo mille fatiche era un piacere impareggiabile. Si baciarono piano, lentamente, in modo da non tralasciare nessuna sensazione che gli dava il toccarsi delle loro labbra. Si scostarono e ognuno sorrise a modo suo, con gli occhi o con la bocca. Si voltarono verso la porta e Platan ridacchiò: «Sì, Dexio, che cosa devi dirmi?».
 
 
   «Sei felice di quello che sei adesso?».
   Il vento spirò, e qualche petalo volteggiò nel cielo.
   «Non lo so. Però sarebbe meraviglioso se potessi dire con orgoglio di aver vissuto pienamente ogni singolo giorno».




***
Angolo del francese.
     * Tu es silencieuxmon cher. Tout va bien? = Sei silenzioso, mio caro. Va tutto bene? ;
     * Je suis fatigué. C’est tout = Sono stanco. Tutto qui ;
     * Tu n’as pas l’air convaincu... = "Non mi sembri molto convinto... ;
     * Mon petit fleur... = Mio piccolo fiore... .




 


PS. Per la questione delle calze, è perché ho notato che non sono simmetriche con le altre divise: se guardate le ragazze sono tutte vestite in modo incrociato, alcune con le spalline, altre con la gonna, altre con degli stivaletti particolari... Perché lei ha le calze diverse? Perché non le ha uguali a quelle di Cytisia? Dopotutto nero e rosso sono i colori dominanti, mentre il giallo è usato per particolari minori... Come mai?
 
Probabilmente si tratta molto più semplicemente di una scelta grafica, ma a me come al solito piace fantasticare, ahah! 
  
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