Capitolo 37
«Come sarebbe sparito?» La voce di Jenny, forte e chiara,
mi arrivò alle orecchie nonostante la porta della mia stanza fosse chiusa,
attraversandomi il cervello in una fitta lancinante, con la facilità che
avrebbe avuto una lama nel tagliare un blocco di gelatina. «Esigo una spiegazione!» Nelle sue urla riuscii a cogliere
una punta di preoccupazione, e il mio tentativo di abbandonare il letto venne
prontamente sabotato da un capogiro. Riatterrai sul cuscino con un tonfo, la
tempia sinistra dolorante, la vescica piena e lo stomaco vuoto. E per mille
diavoli: come ci ero tornato a Fort George? Avevo vaghi ricordi dell’ultima
volta che ero stato cosciente, e il bernoccolo sulla tempia sinistra mi fece
intuire che, forse, la mia presenza a Bunker Hill non aveva migliorato la
situazione.
Nonostante il mal di testa mi alzai, infilando gli stivali
senza la forza di aprire gli occhi. Ah, Dio, se un colpo in testa era riuscito
a ridurmi in questo stato avrei dovuto iniziare a preoccuparmi seriamente.
«Oh, cielo, ti sei svegliato?» Mi voltai verso la porta,
trovando Jennifer accanto allo stipite. Sembrava allarmata. «Ti senti meglio? Dio, ci hai fatti
preoccupare.»
«Ti ho sentita strillare, è
successo qualcosa?»
«In effetti sì. Charles è sparito» socchiuse la porta avvicinandosi
al letto, sedendosi poi sulla sedia alla mia scrivania. «Lui e Connor
ti hanno trovato a Boston, eri svenuto. Dopo averti portato qui, dei colleghi
di Charles sono venuti a parlargli e...»
«Artemas?» La interruppi. «Artemas Ward è
stato qui?»
«Non ne ho idea! Come puoi
pretendere che sappia i nomi dei comandanti dell’esercito?» Alzai una mano per farla tacere. Le
fitte non sarebbero cessate con lei intenta ad urlarmi nelle orecchie.
«Le guardie» portai due dita alla base del
naso. «Le guardie sapranno qualcosa. Con chi
stavi parlando prima?» Jenny agitò una mano, lasciandola poi ricadere sulle gambe.
«Con il giovane che l’ha aiutato a
portarti fin quassù. Lo stesso che gli ha annunciato la visita.»
«So io dov’è…» ci voltammo di nuovo verso l’entrata,
scorgendo la sentinella poco più che ventenne che aveva avuto l’onore di tirare
un po’ di spada con Charles. «Li ho seguiti di nascosto, ma non ho avuto il coraggio di
intervenire.»
«Ti ascolto» allargai le braccia reprimendo la
voglia di schiaffeggiarlo. Dopotutto era l’unico a sapere dove fosse Lee.
«Chi non muore si rivede, non è
così, Kenway?» Gli augurai di strozzarsi con
quel cazzo di sigaro un paio di volte e mi avvicinai a lui tentando di
mantenere la calma.
Ignorai la sua ironia e avanzai ancora, fermandomi a mezzo
passo da lui e unendo le mani dietro la schiena, sotto il mantello. «Dove avete portato Charles?» Le ciglia tremarono per riflesso
involontario, tradendolo in un istante. «Avanti, non ho tempo da perdere
con te.»
«Cosa ti fa credere che io sappia
dove sia finito?» Afferrai Putnam per il bavero e lo
misi spalle al muro con forza. Se credeva di prendermi per il culo solo perché
aveva gli amici di Washington dalla sua, beh, si sbagliava di grosso. Mi
credevano davvero così sprovveduto? Così facile da eliminare?
«Pensi che abbia usato il plurale
per risultare ossequioso? So che Ward si è fatto
aiutare da te e da quell’altro leccaculo. Non vi conviene farmi incazzare,
quindi te lo chiedo per l'ultima volta» feci scattare la lama celata,
pungendogli il collo. «Dov'è Charles?» Il pomo d'Adamo si alzò e abbassò
velocemente. Forse comprese in quell'istante che non scherzavo affatto. Se c'era
Lee di mezzo non scherzavo mai, volevo fosse chiaro.
Mostrò entrambi i palmi,
accennando un sorriso tirato. «Ehi, calma, amico»
Gli strappai dalle labbra quel cazzo di sigaro e lo gettai a
terra con stizza. «Non sono tuo amico, e adesso parla.»
«D’accordo, d’accordo. Va’ in fondo
alla strada, c’è un vicolo sulla sinistra» strinse le labbra, cercando forse
di capire quanto fossi deciso a spingermi oltre per ottenere le informazioni
che mi servivano. «C’è una porta sola, è lì dentro.» Lo mollai malamente facendo
rientrare la lama celata e gli riservai l’occhiata più compassionevole che conoscessi
mentre lo osservavo aggiustarsi la giacca per ridarsi un contegno.
«Credevo che tu fossi il meno
peggio, Israel. Mi sono fidato della stima che
Charles provava nei tuoi confronti. Evidentemente ho fatto male.» Ciò detto mi allontanai nella
direzione indicatami da Putnam, il passo svelto per
timore di arrivare troppo tardi, il cuore in gola, impaziente di vedere Lee
vivo.
Entrai in una specie di cantina, l'aria viziata intrisa di
polvere e l'odore dolciastro del sangue, l'interno illuminato da un timido
raggio di sole proveniente dal finestrella sulla parete opposta alla porta.
«Santo Dio» non riuscii a dire altro quando
intravidi Charles supino al centro della stanza, legato a una sedia ribaltata,
le braccia piegate dietro lo schienale sotto il peso del corpo, i polsi stretti
da una corda, una gamba appoggiata al sedile e l'altra a terra. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai. Lo chiesi più a me
stesso, consapevole di essere il solo responsabile del suo dolore. Mi avvicinai
incredulo, notando che sanguinava dal pettorale sinistro. In verità l'intero
busto era martoriato, ma con po' più di attenzione vidi che la ferita maggiore
era in corrispondenza del buco che aveva al posto del capezzolo. Cristo.
«Charles» mi inginocchiai e gli misi una
mano dietro la testa, sollevandola di poco e mettendolo finalmente in una
posizione naturale «Charles, avanti. Rispondi, per carità di Dio» gli colava sangue dal
sopracciglio destro, le labbra erano spaccate e secche. Da quanto non beveva?
Gli diedi un paio di schiaffi leggeri sperando che prendesse conoscenza. Perché
era vivo. Doveva. «Charles!» Trattenni la mano sulla sua guancia fredda e umida,
lasciando che la sua barba mi solleticasse il palmo.
Di scatto il medio e l'indice si posarono soli sulla
giugulare, e in cuor mio pregai che non fosse morto. Non l'avrei sopportato.
Sentii i polpastrelli appiccicosi percepire il battito debole.
Sangue, pensai. Sangue di Charles, del
mio pupillo, del mio ragazzo.
Serrai la presa sulla sua nuca, stringendogli i capelli tra
le dita tremolanti e un lamento flebile raggiunse i miei sensi, nonostante
l'unica cosa che sentissi da un paio di minuti fosse il sangue rimbombare nelle
orecchie.
Era cosciente «Resisti, ti porto fuori di qui.» Non ci pensai due volte e gli
liberai i polsi con la lama celata, portando le braccia indolenzite lungo i
fianchi. Diedi una rapida occhiata in giro, e alla vista del tavolo alla
sinistra di Lee mi piegai in due, colto alla sprovvista da un crampo allo
stomaco. Mi chiesi se fosse il ripiano dove i suoi carnefici avessero lavorato,
e una seconda fitta mi fece intuire di sì. Tentai di ignorare gli oggetti per
non immaginare nessuna scena, concentrandomi sulla ricerca di qualcosa di
utile, come il secchio in fondo. Fa' che
sia potabile. Ah, quanti problemi. Sarebbe morto comunque, disidratato o
avvelenato, tanto valeva provare.
Tornai da Charles ancora agonizzante, accostando il bordo del
secchio alle labbra spaccate. Al contatto con l'acqua sembrò rinascere, aprì
gli occhi e tese il collo verso il metallo freddo e sporco, tentando di ingurgitare
quanto più liquido possibile dopo giorni di fame e sete. Provai qualcosa di
simile alla pietà, ma sapevo che Charles era l'ultimo che avrei voluto e dovuto
compatire. Volevo piangere, uscire da lì e urlare al mondo che l'assassino del
loro amato Washington ero io, e che per vendicare la sua morte avevano quasi
ammazzato un innocente. Il senso di colpa mi chiuse lo stomaco ancora in
subbuglio. L'odore acre del sangue non mi aveva mai schifato, ma sapere che
fosse di Charles era tutta un'altra faccenda. E doveva esserne uscito tanto,
troppo, per impregnare in quel modo le pareti della cantina. Ringraziai che
fosse vivo, nonostante tutto.
«Signore...» stentai a credere che fosse lui,
troppo abituato a vederlo scattante e pieno di energie. Mi rifiutavo di credere
che fosse lo stesso uomo che, in quel momento, era a terra, senza voce e senza
forze, senza dignità, pestato a sangue per un sospetto dai suoi stessi
colleghi.
Putnam. E dire che quel bastardo mi era
sembrato il più ragionevole dei tre. Stronzate. Poteva essersi limitato a
spegnere il suo cazzo di sigaro sul petto di Charles, girare i tacchi e
andarsene, lasciando il lavoro sporco ad Artemas e
Philip.
«Zitto, ti porto fuori di qui» lo sollevai piano sperando non
avesse ossa rotte, e azzardai a mettergli un braccio intorno al mio collo per
aiutarlo a camminare.
Una volta in piedi iniziò a lamentarsi e a contorcersi e,
preso dall'ansia, controllai che non sanguinasse da qualche parte. «Che c'è?» Chiesi preoccupato, notando solo
in quel momento la mano poggiata sul ventre a torturare la carne. Non era
ferito e non vedevo segni. «Ti fa male?»
«Ho bisogno...» spalancò di più la bocca per
calmarsi e prendere fiato
«Di cosa?» Si conficcò i denti nel labbro
inferiore, già in pessimo stato.
«Ho bisogno... Ho bisogno di un
catino» si accartocciò su se stesso e
feci fatica a credere a ciò che la mia mente formulò in un istante.
«Da quant'è che non urini?» A pensarci non vedevo tinozze e
nella stanza non c'era cattivo odore. Che l'avesse trattenuta per tutto quel
tempo?
«Tre... Tre gior-ni» gli tremava la mano, che
istintivamente portò sulla patta dei pantaloni, stringendo.
«Gesù» girai facendolo voltare e avanzai
verso il muro in fondo «sei pazzo»
Soffocò un singhiozzo, trascinando i piedi e cercando di sballottare
la vescica il meno possibile. «Ho una dignità» ringhiò con rabbia, i denti
serrati e la mano sempre sotto la cintura. «Non mi vedranno mai in quello
stato pietoso, coi calzoni pisciati o affogato nel mio stesso sangue» oh, già, meglio con la vescica implosa, vero?
Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e gli poggiai la mano al
muro, scoprendola insolitamente arrossata. «Svuotati» mi voltai di spalle e lo sentii
armeggiare con la cintura, immaginando la mano agitata e impaziente aprire il
bottone dei calzoni. Poi nel silenzio si udì un getto debole, accompagnato da
mugolii sofferenti e gemiti. Doveva far male, eccome.
Un “aahh”
più acuto degli altri mi costrinse a deglutire. Non girarti, per carità di Dio.
Come avevo potuto permettere un tale scempio? Come avevo
potuto lasciare che facessero una cosa del genere a Charles? Lanciai
un'occhiata alla sua schiena, lacerata qua e là senza criterio, e mi si strinse
il cuore. Era colpa mia, Cristo. Sarebbero bastate tre semplici parole per
evitare che gli facessero del male: sono
stato io. Artemas voleva un colpevole, che fosse
Charles o qualcun altro non credo avrebbe avuto importanza. O sì? Magari era
una scusa, era tutta una farsa per sfogare su qualcuno la frustrazione per non
essere stato scelto per guidare il Continentale.
No. No, assolutamente. Ward non era
interessato al comando. Nessuno di loro lo era. Volevano solo vendicare
Washington, diamine, e il coraggio di dire la verità forse non l’avrei mai
trovato.
Lanciai ancora un’occhiata alla carne lacerata di Lee, i
solchi di sangue secco a rigargli la schiena fino ad imbrattare i pantaloni. Lo
guardai in silenzio mentre si richiudeva la cintura, quindi mi avvicinai per
aiutarlo a camminare.
Gli presi di nuovo il polso destro, portandomi il braccio
intorno alle spalle. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai incredulo. In realtà non
lo volevo sapere, faceva già abbastanza male così.
Lui scrollò la testa accennando un sorriso, come se avesse
una banalissima ferita da arma bianca. «Nulla di tremendo. Hanno testato
la mia resistenza.» Ci voltammo verso la porta avanzando piano, ed io deglutii
senza staccare lo sguardo dal pavimento.
«Cristo santo, Charles, dimmi che
stai scherzando» serrai la presa sul suo polso e lo guardai. Due profonde
occhiaie gli cerchiavano gli occhi stanchi e seri e Dio, questo non mi aiutava
ad ignorare i sensi di colpa.
«Non ho detto niente, sta’
tranquillo. So che è questo che ti preoccupa»
«Stronzate!» Inchiodai bruscamente. «Davvero credi che per me la
priorità sia salvarmi il culo?»
Sì. Serrai i denti sorvolando sul
commento della mia coscienza, obbligandomi a guardarlo in viso. Il fatto che
non mi fissasse e che indugiasse nel rispondere confermò ciò che, in fondo,
pensavo anch’io.
«No» deglutì piano, passandosi con
cautela la lingua sul labbro spaccato. «Non l’ho mai pensato, ma è normale
che foste preoccupato. Lo sarebbe stato chiunque. Si sarebbero divertiti in
ogni caso, tanto valeva stringere i denti e non mandare all’aria il piano, no?»
Annuii debolmente. «Credo di sì.» Era stato coraggioso. D’impulso
lo abbracciai, girandogli il busto e tenendolo stretto col braccio sinistro. Non
avrei mai dovuto dubitare di lui. Mai. Se non mi fossi fidato di lui di chi
altro avrei potuto farlo? Gli avrei affidato la mia vita altre mille volte.
Lo sentii respirare debolmente contro la mia spalla,
staccandolo poi con garbo.
Iniziai a sbottonare la redingote, notando solo dopo qualche
secondo l’espressione stralunata di Charles. «Non farti strane idee, voglio solo
darti la mia camicia» appallottolai la veste tenendola tra le ginocchia, finendo
di aprire i bottoni.
«Oh, no. Non posso, la macchierei
di sangue»
«Non sarà la fine del mondo.» Sfilai entrambe le maniche,
porgendogli poi l’indumento di cotone. «Avanti, indossala. Non puoi girare
così.» Dopo un attimo di esitazione
accettò, infilando le braccia e macchiando la trama di rosso in meno di cinque
secondi.
Boh, niente, stavolta sarò sintetica al massimo, lol.
Un biscotto a chi continua a leggere e due biscotti a chi
recensisce, aw.