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Autore: Emapiro95    05/05/2015    4 recensioni
Cosa succederebbe se la vita di un diciassettenne qualsiasi, che vive a Londra, venisse distrutta e stravolta dall'arrivo di un "exchange student?". Mi sono basato sulle mie esperienze personali per scrivere questo piccolo racconto, spero vi piaccia!
"Il mio nome è Jared Maycon, e questa è la mia storia, la storia di come tutta questa monotonia fu distrutta. Bastò il suo arrivo perché tutto cambiasse… Dalla “A” alla “Z”."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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kjuhyg
Capitolo 18 - "Quasi-friends"

Hello everybody! :)
Pubblico questo capitolo con un peso sullo stomaco, perché è da un po' che non scrivo e ho ripreso in mano la storia solo adesso, e spero con tutto il cuore di riuscire a scrivere un diciannovesimo capitolo in tempo... Nel frattempo godetevi questo breve chapter e fatemi sapere cosa ne pensate! :)
Vi ricordo di passare sulla mia pagina Facebook cliccando QUI, e, se vi fa piacere, di lasciare una recensione ^^


Quella notte la passai completamente in bianco, a leggere e rileggere le parole del mio parente canadese, cercando di farle mie, di capirne il significato nascosto. In fondo sapevo che quelle parole nascondevano la verità su ciò che provavo e su come mi sentivo, ma non sapevo se fossi pronto ad ammetterlo.

Passai ore ed ore, con il foglio tra le mani e la mente nel mio mondo personale, quello a cui nessuno poteva accedere, se non io; quello che mi serviva a fare chiarezza tra le cose dentro e fuori di me. Non aggiunsi né un tostapane né la luna, quella volta, ma cercai di riorganizzare i miei pensieri in maniera razionale ed ordinata, e di accettarli così com’erano.

Ogni volta che il mio cervello raggiungeva una conclusione, il mio subconscio cercava qualsiasi scappatoia, qualsiasi scusa, per impedirmi di afferrarla; per impedirmi di accettare le cose così come stavano.

I minuti iniziarono ad accavallarsi, diventando prima ore ed infine giornate, che passai in casa, fingendo di non sentirmi bene. Mia madre non mi fece domande, consapevole delle mie bugie ma, allo stesso tempo, disposta a fare finta di nulla. Pensò, invece,  a tranquillizzare mio padre, che invece si barcamenava da un posto all’altro per cercare di concludere tutte le scartoffie necessarie al trasferimento che sarebbe avvenuto in poco più di un mese.

“Oggi ho concluso il contratto con la compagnia telefonica.” Disse una volta tornato a casa, con mille e più cartelline sottobraccio; oppure “oggi ho finalmente trovato una buona agenzia di traslochi”; una volta, invece, quel mercoledì sera, tornò a casa dicendo a me e mia madre: “ho parlato con la preside della tua scuola, Jared, e abbiamo finalmente concluso il tuo trasferimento al Lycée Thiers…” non ascoltai neanche quello che aveva da dire su esami e quant’altro.

D’improvviso mi si era chiuso lo stomaco.

Il giorno seguente, invece, - quello stesso giovedì – la mia giornata fu completamente stravolta da un messaggio di Alex, che si informava circa la mia assenza:

 

Hey Jay…

Non so il motivo per cui non sei venuto a scuola, in questi giorni… Se è una cosa seria o meno. Volevo solo dirti che, se il motivo è quello successo venerdì scorso, allora non devi preoccuparti. Per me è come se non fosse mai successo. Nada. Niente. Nothing. :)

Se invece il motivo è un altro, allora spero che non sia nulla di troppo grave.

In ogni caso… Mi piacerebbe venirti a trovare o comunque passare del tempo con te, se vuoi e puoi. Così magari ti do anche i compiti del signor Boujdi!

Fammi sapere.

 

Seguito, subito dopo da un secondo messaggio, di completamento:

 

Sono preoccupato… Ti voglio bene,

Alex.

 

Oltre questi due messaggi, a cui non risposi, il venerdì seguente passò tranquillo, e il weekend arrivò prima del previsto, senza la solita impressione di libertà che ogni volta mi pervadeva. Quella volta, invece, non aveva nulla di particolare, nulla di diverso rispetto agli altri giorni passati in casa a sentire mia madre parlare emozionata della nuova vita che ci attendeva nella capitale francese – forse più per convincere se stessa che altro – e rileggere la lettera di Kyle più e più volte.

Quando la sveglia del mio cellulare squillò, quel sabato, segnando l’inizio di un nuovo giorno, e dando il via alla ripresa della mia routine, mi alzai dal letto con una strana sensazione addosso; non più pensando alle parole di Kyle, ma con una strana calma dentro di me.

Quasi come l’acqua della piscina prima di essere increspata dai movimenti della gente.

Mi guardai allo specchio e, negli occhi blu che ricambiarono il mio sguardo, notai una lieve scintilla; un qualcosa di diverso che, però, allo stesso tempo, mi era stranamente familiare. Qualcosa che mi portò a sfilarmi finalmente il pigiama di dosso, per indossare un pantaloncino di tuta e una maglia grigia traspirante.

Una volta finito nel bagno, mi spostai in camera da letto, dove presi il cellulare, ignorando le chiamate perse da parte della mia counselor, e, dopo aver controllato l’ora – erano le otto meno venti -, lo presi e scesi al piano di sotto, dove, in cucina, trovai mio padre alle prese con la macchina del caffè.

«’Giorno.» Dissi io, entrando nella stanza e posando un attimo il cellulare sul bancone da cucina.

«Buongiorno Jay.» Rispose lui, scostando lo sguardo dalla brocca del caffè solo per un istante. «Come mai sveglio a quest’ora?»

«Avevo pensato di andarmi a fare una corsetta.» Dissi, prendendo una banana dal cesto della frutta. «Sai com’è, dato che sto finalmente bene…»

«Sì certo, certo… Fai bene.»

«A proposito,» ripresi io il discorso, iniziando a mangiare la banana, «hai per caso visto la mia fascia per iPod?»

«Sì, se non sbaglio è sul tavolo nello studio di tua madre.» Rispose mio padre, dando un colpo alla macchina del caffè. «Non riesco a far funzionare questo dannato coso!»

Trattenni una risata e andai verso di lui, accanto al lavandino. «Ecco.» Sorrisi, premendo un singolo pulsante sulla caffettiera, che si azionò immediatamente.

«Grazie.» Sospirò mio padre, demoralizzato. «Come hai fatto?»

«Basta premere questo, pa’.» Sorrisi, prendendo il cellulare dal bancone e mettendomelo in tasca.

«Jared.» La voce di mio padre mi fermò prima che uscissi del tutto dalla cucina.

«Pa’, devi solo aspettare che esca il caffè, adesso.»

«Cosa? Ah… Sì sì, lo so, grazie.» Replicò, sorridendo anche lui. «No, ti volevo dire che io e tua madre oggi andiamo a fare un giro in centro, per vedere alcune cose prima del trasloco… Ti vuoi unire?»

Sentii le mie labbra distendersi, prima di rispondere: «ti faccio sapere, ma credo di sì… Okay?»

«D’accordo.» Rispose mio padre, sempre con il sorriso impresso sulle labbra. «Buona corsa.»

«Grazie pa’, a dopo.»

Presi la felpa e la fascia per l’iPod, che mi misi attorno al braccio, ed uscii di casa, sentendo il freddo gelido entrarmi dentro, fino alle ossa.

La corsa, sin da quando ero più piccolo, mi aveva aiutato a riflettere, a pensare senza rimanere assordato dalle impressioni che gli altri si stavano costruendo di me: la musica, lo sforzo dei muscoli, i passanti assorti nelle proprie vite, il respiro regolare, tutte questi piccoli elementi mi aiutavano ad estraniarmi dalla realtà.

Non appena uscito di casa mi calai il cappuccio fin sopra gli occhi, mi misi le cuffie nelle orecchie facendo partire la musica e, con la prima nota, iniziai a correre lungo il marciapiede del viale di casa mia.

Non appena iniziai ad avere il fiato corto, e a sentire le guance arrossarsi, cominciai ad isolarmi, e tutti i pensieri che mi avevano reso quasi catatonico durante la settimana iniziarono ad allinearsi, per la prima volta in quei sette giorni, in maniera ordinata, uno dietro l’altro. Pronti per essere analizzati.

 

 

Non sentivo più il freddo, anzi. Ero ricoperto di sudore dalla testa ai piedi, e potevo sentire il battito accelerato del mio cuore aumentare la mia temperatura corporea. La mia testa ormai, però, non era più affollata da pensieri su quanto detto da Kyle e su quello che provavo per Alex. In quel momento di pura stanchezza le uniche cose che potevo sentire nella mia testa erano le parole di Ed Sheeran.

Non sono mai stato un tipo da musica. L’ascolto, questo è ovvio, ma non sono mai stato uno di quelli che si lasciano trasportare dal testo di una canzone, dalla sua melodia, e che permettono a quest’ultima di risvegliare qualcosa dentro di loro.

Quella volta, però, - mentre correvo verso un qualcosa che neanche io sapevo bene cosa essere – i versi di I’m A Mess rimbombarono dentro di me, urtando le pareti più recondite del mio essere e facendomi vibrare dall’interno.

 

“Oh I’m a mess right now,

Inside out

Searching for a sweet surrender,

But this is not the end.

I can’t work it out,

How going through the motions…

Going through us.

And oh I’ve known it for the longest time,

And all of my hopes

All of my own words

Are all over written on the signs…”

 

Sarà stato, forse, il fatto che quelle parole mi si addicevano così tanto da farmi quasi paura, oppure qualche congiunzione astrale; il risultato rimane, però, lo stesso.

Mi fermai solo un momento per capire dove mi trovassi, con la musica che continuava a suonare nelle mie orecchie, attraverso gli auricolari. Senza rendermene conto mi ero allontanato un bel po’ da casa mia e, ora che ci pensavo, non sapevo neanche da quanto ero per strada, a correre… A dire la verità neanche mi interessava. Provai a dedurre, da quanto mi circondava, la mia posizione esatta e, quando arrivai ad una conclusione, sentii le gambe tremarmi – non per la fatica.

Mi incamminai, a passi più decisi di quanto avrei immaginato, sul vialetto della casa di Alex e, poco prima di arrivare di fronte alla porta di ingresso, sentii la maniglia girare su se stessa e l’anta aprirsi verso l’esterno.

Sentii il cuore salirmi in gola, e iniziare a palpitare più velocemente di quanto non avesse mai fatto. Vidi una ciocca bionda uscire dal cappuccio della giacca del canadese, che mi dava le spalle, intento a chiudere la porta.

Mi sciugai il sudore delle mani sul tessuto sintetico dei pantaloncini, giusto prima che Alex si girasse verso di me.

«Jared?» Disse lui, sbalordito. Non dissi niente mentre il biondo si avvicinava a me, con le mani nelle tasche del giubbotto. «Che ci fai qui?» Continuò, aggiustandosi una ciocca bionda davanti agli occhi. «E perché sei tutto sudato?!»

«Ho corso.» Dissi io, sorridendo e togliendomi il cappuccio. I miei capelli neri erano madidi di sudore, e appiccicati alla fronte. Me li scostai leggermente in modo tale da poter vedere per bene gli occhi verdi di Alex.

«Hai corso?» Domandò lui.

«Già.» Sorrisi inebetito io, in risposta.

Lo sguardo di Alex era pieno di interrogativi. «Ok… Che fine hai fatto?!» Domandò poi.

«Sono stato a casa.» Risposi, guardandolo incamminarsi e seguendolo. «Febbre.» Spiegai subito dopo, rendendomi conto della stupidità della mia risposta.

Il silenzio che si venne a creare subito dopo quasi mi destabilizzò. Il primo che riprese la parola fu Alex. «Senti…»

«No, non dire niente, ti prego.» Lo interruppi io, cercando di fare mente locale tra i concetti che avevo passato una settimana intera ad analizzare minuziosamente.

«O-Okay.»

«Altrimenti perdo il filo del discorso e sono cazzi.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione quasi addolorata. «Questi sette giorni che ho passato a casa,» cominciai, «mi sono serviti anche per capire bene alcune cose, come ad esempio quanto successo venerdì a scuola.»

«A proposito…» Fece per dire lui, prima di notare la mia espressione. «Ah già, scusa… Continua.»

«Bene.» Inspirai profondamente. «Ho potuto pensare molto anche a quanto è successo – o forse è meglio dire a quanto non è successo – venerdì. Il punto è, Al, che…»

«Non farci tanti giri attorno, Jay. Non ce n’è bisogno. Siamo stati guidati da un momento.» Mi interruppe di nuovo. «Da un momento di pura idiozia e, se vogliamo dirla tutta, di debolezza. Non mi sono fatto alcun film su noi due perché so benissimo quello che pensi e, soprattutto, quali sono i tuoi gusti, in quell’ambito. Non mi sono creato nessun castello in aria, tranquillo, perché tu per me sei un caro amico che ho imparato a conoscere in questi ultimi mesi, e non credo che potrai mai essere qualcosa di più.»

Sentii le parole morirmi sulle labbra, e qualcosa, dentro di me, spezzarsi lentamente.

«Era quello che stavi per dire, giusto?» Disse Alex, notando la mia espressione contrita.

“Certo che no, idiota! Sono qui per dirti che tu sei stato in grado di farmi mettere in discussione ogni singola parte di me; che ogni volta che penso a chi, tra tutte le persone che conosco, mi abbia realmente cambiato la vita, il primo nome che mi viene in mente è il tuo; che se dovessi tornare indietro a venerdì scorso manderei a fanculo quella dannata campanella e mi allungherei quel minimo in più per poterti finalmente sfiorare le labbra. Sono qui per dirti che mi sto innamorando di te.”

«Certo.» Dissi, fingendo un sorriso e cercando di trattenermi dall’urlare per il dolore allo stomaco che quelle parole mi avevano provocato.

Non capisco perché la gente si ostini a parlare del cuore quando si tratta di amore: accade sempre tutto nello stomaco.

«Bene.» Sorrise Alex, posandomi una mano sulla spalla e levandola subito, notando quanto fossi sudato. «Ora devo andare, ho una sorta di appuntamento con Joshua. Ci sentiamo Jay!»

Non feci in tempo a metabolizzare il nome di Joshua, che il biondo si era allontanato, lasciandomi da solo.

«Ci sentiamo dopo!» Urlai io alle sue spalle, prima di riprendere la corsa verso casa.

   
 
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