Pubblico questo capitolo con un peso sullo stomaco, perché è da un po' che non scrivo e ho ripreso in mano la storia solo adesso, e spero con tutto il cuore di riuscire a scrivere un diciannovesimo capitolo in tempo... Nel frattempo godetevi questo breve chapter e fatemi sapere cosa ne pensate! :)
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Quella notte la
passai completamente in bianco, a leggere e rileggere le parole del mio parente
canadese, cercando di farle mie, di capirne il significato nascosto. In fondo
sapevo che quelle parole nascondevano la verità su ciò che provavo e su come mi
sentivo, ma non sapevo se fossi pronto ad ammetterlo.
Passai ore ed ore,
con il foglio tra le mani e la mente nel mio mondo personale, quello a cui
nessuno poteva accedere, se non io; quello che mi serviva a fare chiarezza tra
le cose dentro e fuori di me. Non aggiunsi né un tostapane né la luna, quella
volta, ma cercai di riorganizzare i miei pensieri in maniera razionale ed
ordinata, e di accettarli così com’erano.
Ogni volta che il
mio cervello raggiungeva una conclusione, il mio subconscio cercava qualsiasi
scappatoia, qualsiasi scusa, per impedirmi di afferrarla; per impedirmi di
accettare le cose così come stavano.
I minuti iniziarono
ad accavallarsi, diventando prima ore ed infine giornate, che passai in casa, fingendo
di non sentirmi bene. Mia madre non mi fece domande, consapevole delle mie
bugie ma, allo stesso tempo, disposta a fare finta di nulla. Pensò,
invece, a tranquillizzare mio padre, che
invece si barcamenava da un posto all’altro per cercare di concludere tutte le
scartoffie necessarie al trasferimento che sarebbe avvenuto in poco più di un
mese.
“Oggi ho concluso
il contratto con la compagnia telefonica.” Disse una volta tornato a casa, con
mille e più cartelline sottobraccio; oppure “oggi ho finalmente trovato una
buona agenzia di traslochi”; una volta, invece, quel mercoledì sera, tornò a
casa dicendo a me e mia madre: “ho parlato con la preside della tua scuola,
Jared, e abbiamo finalmente concluso il tuo trasferimento al Lycée Thiers…” non
ascoltai neanche quello che aveva da dire su esami e quant’altro.
D’improvviso mi si
era chiuso lo stomaco.
Il giorno seguente,
invece, - quello stesso giovedì – la mia giornata fu completamente stravolta da
un messaggio di Alex, che si informava circa la mia assenza:
Hey Jay…
Non so il motivo per cui non sei venuto a scuola, in
questi giorni… Se è una cosa seria o meno. Volevo solo dirti che, se il motivo
è quello successo venerdì scorso, allora non devi preoccuparti. Per me è come
se non fosse mai successo. Nada. Niente. Nothing. :)
Se invece il motivo è un altro, allora spero che non
sia nulla di troppo grave.
In ogni caso… Mi piacerebbe venirti a trovare o
comunque passare del tempo con te, se vuoi e puoi. Così magari ti do anche i
compiti del signor Boujdi!
Fammi sapere.
Seguito, subito
dopo da un secondo messaggio, di completamento:
Sono preoccupato… Ti voglio bene,
Alex.
Oltre questi due
messaggi, a cui non risposi, il venerdì seguente passò tranquillo, e il weekend
arrivò prima del previsto, senza la solita impressione di libertà che ogni
volta mi pervadeva. Quella volta, invece, non aveva nulla di particolare, nulla
di diverso rispetto agli altri giorni passati in casa a sentire mia madre
parlare emozionata della nuova vita che ci attendeva nella capitale francese –
forse più per convincere se stessa che altro – e rileggere la lettera di Kyle
più e più volte.
Quando la sveglia
del mio cellulare squillò, quel sabato, segnando l’inizio di un nuovo giorno, e
dando il via alla ripresa della mia routine, mi alzai dal letto con una strana
sensazione addosso; non più pensando alle parole di Kyle, ma con una strana
calma dentro di me.
Quasi come l’acqua
della piscina prima di essere increspata dai movimenti della gente.
Mi guardai allo
specchio e, negli occhi blu che ricambiarono il mio sguardo, notai una lieve
scintilla; un qualcosa di diverso che, però, allo stesso tempo, mi era
stranamente familiare. Qualcosa che mi portò a sfilarmi finalmente il pigiama
di dosso, per indossare un pantaloncino di tuta e una maglia grigia
traspirante.
Una volta finito
nel bagno, mi spostai in camera da letto, dove presi il cellulare, ignorando le
chiamate perse da parte della mia counselor, e, dopo aver controllato l’ora –
erano le otto meno venti -, lo presi e scesi al piano di sotto, dove, in
cucina, trovai mio padre alle prese con la macchina del caffè.
«’Giorno.» Dissi
io, entrando nella stanza e posando un attimo il cellulare sul bancone da
cucina.
«Buongiorno Jay.»
Rispose lui, scostando lo sguardo dalla brocca del caffè solo per un istante.
«Come mai sveglio a quest’ora?»
«Avevo pensato di
andarmi a fare una corsetta.» Dissi, prendendo una banana dal cesto della
frutta. «Sai com’è, dato che sto finalmente bene…»
«Sì certo, certo…
Fai bene.»
«A proposito,»
ripresi io il discorso, iniziando a mangiare la banana, «hai per caso visto la
mia fascia per iPod?»
«Sì, se non sbaglio
è sul tavolo nello studio di tua madre.» Rispose mio padre, dando un colpo alla
macchina del caffè. «Non riesco a far funzionare questo dannato coso!»
Trattenni una
risata e andai verso di lui, accanto al lavandino. «Ecco.» Sorrisi, premendo un
singolo pulsante sulla caffettiera, che si azionò immediatamente.
«Grazie.» Sospirò
mio padre, demoralizzato. «Come hai fatto?»
«Basta premere
questo, pa’.» Sorrisi, prendendo il cellulare dal bancone e mettendomelo in
tasca.
«Jared.» La voce di
mio padre mi fermò prima che uscissi del tutto dalla cucina.
«Pa’, devi solo
aspettare che esca il caffè, adesso.»
«Cosa? Ah… Sì sì,
lo so, grazie.» Replicò, sorridendo anche lui. «No, ti volevo dire che io e tua
madre oggi andiamo a fare un giro in centro, per vedere alcune cose prima del
trasloco… Ti vuoi unire?»
Sentii le mie
labbra distendersi, prima di rispondere: «ti faccio sapere, ma credo di sì…
Okay?»
«D’accordo.»
Rispose mio padre, sempre con il sorriso impresso sulle labbra. «Buona corsa.»
«Grazie pa’, a
dopo.»
Presi la felpa e la
fascia per l’iPod, che mi misi attorno al braccio, ed uscii di casa, sentendo
il freddo gelido entrarmi dentro, fino alle ossa.
La corsa, sin da
quando ero più piccolo, mi aveva aiutato a riflettere, a pensare senza rimanere
assordato dalle impressioni che gli altri si stavano costruendo di me: la
musica, lo sforzo dei muscoli, i passanti assorti nelle proprie vite, il
respiro regolare, tutte questi piccoli elementi mi aiutavano ad estraniarmi
dalla realtà.
Non appena uscito
di casa mi calai il cappuccio fin sopra gli occhi, mi misi le cuffie nelle
orecchie facendo partire la musica e, con la prima nota, iniziai a correre
lungo il marciapiede del viale di casa mia.
Non appena iniziai
ad avere il fiato corto, e a sentire le guance arrossarsi, cominciai ad
isolarmi, e tutti i pensieri che mi avevano reso quasi catatonico durante la
settimana iniziarono ad allinearsi, per la prima volta in quei sette giorni, in
maniera ordinata, uno dietro l’altro. Pronti per essere analizzati.
Non sentivo più il
freddo, anzi. Ero ricoperto di sudore dalla testa ai piedi, e potevo sentire il
battito accelerato del mio cuore aumentare la mia temperatura corporea. La mia
testa ormai, però, non era più affollata da pensieri su quanto detto da Kyle e
su quello che provavo per Alex. In quel momento di pura stanchezza le uniche
cose che potevo sentire nella mia testa erano le parole di Ed Sheeran.
Non sono mai stato
un tipo da musica. L’ascolto, questo è ovvio, ma non sono mai stato uno di
quelli che si lasciano trasportare dal testo di una canzone, dalla sua melodia,
e che permettono a quest’ultima di risvegliare qualcosa dentro di loro.
Quella volta, però,
- mentre correvo verso un qualcosa che neanche io sapevo bene cosa essere – i
versi di I’m A Mess rimbombarono
dentro di me, urtando le pareti più recondite del mio essere e facendomi
vibrare dall’interno.
“Oh I’m a mess right now,
Inside out
Searching for a sweet surrender,
But this is not the end.
I can’t work it out,
How going through the motions…
Going through us.
And oh I’ve known it for the longest time,
And all of my hopes
All of my own words
Are all over written on the signs…”
Sarà stato, forse, il fatto che quelle
parole mi si addicevano così tanto da farmi quasi paura, oppure qualche
congiunzione astrale; il risultato rimane, però, lo stesso.
Mi fermai solo un momento per capire
dove mi trovassi, con la musica che continuava a suonare nelle mie orecchie,
attraverso gli auricolari. Senza rendermene conto mi ero allontanato un bel po’
da casa mia e, ora che ci pensavo, non sapevo neanche da quanto ero per strada,
a correre… A dire la verità neanche mi interessava. Provai a dedurre, da quanto
mi circondava, la mia posizione esatta e, quando arrivai ad una conclusione,
sentii le gambe tremarmi – non per la fatica.
Mi incamminai, a passi più decisi di
quanto avrei immaginato, sul vialetto della casa di Alex e, poco prima di
arrivare di fronte alla porta di ingresso, sentii la maniglia girare su se
stessa e l’anta aprirsi verso l’esterno.
Sentii il cuore salirmi in gola, e
iniziare a palpitare più velocemente di quanto non avesse mai fatto. Vidi una
ciocca bionda uscire dal cappuccio della giacca del canadese, che mi dava le
spalle, intento a chiudere la porta.
Mi sciugai il sudore delle mani sul
tessuto sintetico dei pantaloncini, giusto prima che Alex si girasse verso di
me.
«Jared?» Disse lui, sbalordito. Non
dissi niente mentre il biondo si avvicinava a me, con le mani nelle tasche del
giubbotto. «Che ci fai qui?» Continuò, aggiustandosi una ciocca bionda davanti
agli occhi. «E perché sei tutto sudato?!»
«Ho corso.» Dissi io, sorridendo e
togliendomi il cappuccio. I miei capelli neri erano madidi di sudore, e
appiccicati alla fronte. Me li scostai leggermente in modo tale da poter vedere
per bene gli occhi verdi di Alex.
«Hai corso?» Domandò lui.
«Già.» Sorrisi inebetito io, in
risposta.
Lo sguardo di Alex era pieno di
interrogativi. «Ok… Che fine hai fatto?!» Domandò poi.
«Sono stato a casa.» Risposi,
guardandolo incamminarsi e seguendolo. «Febbre.» Spiegai subito dopo,
rendendomi conto della stupidità della mia risposta.
Il silenzio che si venne a creare subito
dopo quasi mi destabilizzò. Il primo che riprese la parola fu Alex. «Senti…»
«No, non dire niente, ti prego.» Lo
interruppi io, cercando di fare mente locale tra i concetti che avevo passato
una settimana intera ad analizzare minuziosamente.
«O-Okay.»
«Altrimenti perdo il filo del discorso e
sono cazzi.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione quasi addolorata. «Questi
sette giorni che ho passato a casa,» cominciai, «mi sono serviti anche per
capire bene alcune cose, come ad esempio quanto successo venerdì a scuola.»
«A proposito…» Fece per dire lui, prima
di notare la mia espressione. «Ah già, scusa… Continua.»
«Bene.» Inspirai profondamente. «Ho
potuto pensare molto anche a quanto è successo – o forse è meglio dire a quanto
non è successo – venerdì. Il punto è, Al, che…»
«Non farci tanti giri attorno, Jay. Non
ce n’è bisogno. Siamo stati guidati da un momento.» Mi interruppe di nuovo. «Da
un momento di pura idiozia e, se vogliamo dirla tutta, di debolezza. Non mi
sono fatto alcun film su noi due perché so benissimo quello che pensi e,
soprattutto, quali sono i tuoi gusti, in quell’ambito. Non mi sono creato
nessun castello in aria, tranquillo, perché tu per me sei un caro amico che ho
imparato a conoscere in questi ultimi mesi, e non credo che potrai mai essere
qualcosa di più.»
Sentii le parole morirmi sulle labbra, e
qualcosa, dentro di me, spezzarsi lentamente.
«Era quello che stavi per dire, giusto?»
Disse Alex, notando la mia espressione contrita.
“Certo che no, idiota! Sono qui per
dirti che tu sei stato in grado di farmi mettere in discussione ogni singola
parte di me; che ogni volta che penso a chi, tra tutte le persone che conosco,
mi abbia realmente cambiato la vita, il primo nome che mi viene in mente è il
tuo; che se dovessi tornare indietro a venerdì scorso manderei a fanculo quella
dannata campanella e mi allungherei quel minimo in più per poterti finalmente
sfiorare le labbra. Sono qui per dirti che mi sto innamorando di te.”
«Certo.» Dissi, fingendo un sorriso e
cercando di trattenermi dall’urlare per il dolore allo stomaco che quelle
parole mi avevano provocato.
Non capisco perché la gente si ostini a
parlare del cuore quando si tratta di amore: accade sempre tutto nello stomaco.
«Bene.» Sorrise Alex, posandomi una mano
sulla spalla e levandola subito, notando quanto fossi sudato. «Ora devo andare,
ho una sorta di appuntamento con Joshua. Ci sentiamo Jay!»
Non feci in tempo a metabolizzare il
nome di Joshua, che il biondo si era allontanato, lasciandomi da solo.
«Ci sentiamo dopo!» Urlai io alle sue
spalle, prima di riprendere la corsa verso casa.