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Autore: Nymeria90    05/05/2015    2 recensioni
Tutti conosciamo la storia del comandante Shepard, ma della persona che era prima di diventare il paladino della galassia e dell’umanità sappiamo ben poco. La mia storia si propone di ricostruire le origini di Shepard prima che diventasse comandante, dalla nascita fino al suo arrivo sulla Normandy SR1.
“ La notte calò sul pianeta Akuze. Una notte senza stelle, illuminata solo dalla flebile luce di una piccola luna, lontana e stanca. Nel silenzio assoluto di un pianeta senza vita giacevano i corpi di chi, quella vita, aveva tentato di portarcela.
Cinquanta uomini e donne erano arrivati sul pianeta alla ricerca di gloria e conquista, di loro non rimanevano che i corpi spezzati sparsi per il deserto.
[...]. Erano morti tutti. Tranne uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Akuze, 2182
 

Sasha appoggiò il capo contro la parete fredda della navetta; sul trasporto non c’erano finestre ma la cosa non la disturbava, anzi non aveva nessuna voglia di vedere cosa c’era là fuori.
Chiuse gli occhi, cercando inutilmente di farsi cullare dal movimento regolare del veicolo e dal leggero fruscio dei motori. Si mosse a disagio sul sedile: la corazza da combattimento non era certo pensata per essere indossata durante lunghi viaggi come quello. Ma Sasha non aveva nessuna intenzione di arrivare a destinazione senza una corazza e un lanciagranate.
Sospirò, ritornando con la mente agli ultimi quattro anni trascorsi e a tutte le cose che erano cambiate dalla prima volta che aveva fatto quel medesimo viaggio.
Aveva completato brillantemente il programma N7, diventando membro a pieno titolo di quel prestigioso corpo di combattimento. Un tempo ne sarebbe stata fiera, avrebbe camminato a petto in fuori per essere certa che nessuno mancasse di notare la sigla N7 vergata sulla sua corazza. Ma i tempi dell’arroganza e del cieco orgoglio erano passati e tutte le sue ambizioni cancellate da quel pianeta su cui ora stava così faticosamente tornando.
Non c’era molto da ricordare di quei quattro anni passati a … a fare cosa? Scosse impercettibilmente il capo, incapace di trovare una risposta a quella semplice domanda. Su Titano non si era fatta amici, non si era preoccupata di legare con nessuno. Gli altri membri del programma la guardavano con timore e ammirazione, come chi osserva una bestia feroce rinchiusa in gabbia.
In gabbia, ecco come si era sentita. Non che la cosa la disturbasse: era una gabbia che si era costruita da sola, le cui chiavi custodiva gelosamente. Sapeva che finché fosse rimasta lì dentro, protetta da un nome famoso e da una reputazione altrettanto famosa, nessuno avrebbe potuto accorgersi di ciò che era in realtà: solo Sasha, un’orfana di Atene che distruggeva tutto ciò che toccava.
Si mosse a disagio sul sedile: era da tanto tempo che non pensava più a se stessa in quei termini. Gli altri la chiamavano “comandante Shepard”, ed era piacevole illudersi di essere solo quello. Un soldato perfetto nato quattro anni prima, senza un passato da rimpiangere e un futuro a farle paura.
Era un’illusione che aveva funzionato per un po’: non c’era più nessuno in grado di forzare la porta della sua cella e ricordarle chi era veramente.
Cross era morto due anni prima, ucciso da una malattia che avrebbe potuto curare se solo avesse avuto la volontà di farlo. Ma, sentita la diagnosi, Cross aveva scrollato le spalle ed era rimasto seduto sulla veranda della sua casa terrestre in mezzo alle montagne, con il suo sigaro e la sua bottiglia di whiskey finché un giorno, semplicemente, non si era più alzato. Una fine di pace per un uomo di guerra.
Non era andata a trovarlo mentre era malato, non aveva viaggiato fin sulla Terra per assistere ai suoi funerali: aveva appreso la notizia dai telegiornali, annunciato tra il meteo e la cronaca di una partita. Aveva accusato il colpo, gettando anche quella morte nel pozzo delle cose dimenticate e dei ricordi perduti. Era lo stesso pozzo in cui, qualche anno prima, aveva gettato la notizia di un’altra morte: Daario, il suo unico amico d’infanzia, era morto su Torfan durante una missione punitiva contro dei pirati Batarian. Una missione che si era trasformata in un mattatoio. Anche in quel caso aveva appreso della sua morte dai notiziari, senza versare nessuna lacrima, il viso immobile come quello di una statua.
E così nell’arco di quattro anni si era ritrovata completamente sola in quella galassia dove perdersi era la cosa più semplice dell’universo.
Chi c’era ora a ricordarsi di lei? Hannah e Anderson vigilavano, lo sapeva, poteva sentire la loro presenza, ma era flebile come il ricordo dei morti. Nessuno di loro era in grado di vedere oltre la corazza del comandante, né lei aveva alcuna intenzione di mostrarsi.
Non c’era più nessuno a chiamarla Sasha.
Eppure, nonostante tutto, era tornata lì, nel luogo in cui la sua vita era finita.
Aveva cercato di dimenticare se stessa e solo ora che non c’era più nessuno a ricordare il suo nome si rendeva conto della sua follia.
Come poteva combattere per l’umanità se dimenticava tutto ciò che di umano c’era in lei?
Era bastata una domanda, posta da uno sconosciuto, per metterla di fronte all’evidenza di ciò che stava rischiando di diventare: un soldato perfetto.
Ma qualcuno, una volta, le aveva detto che i soldati perfetti sono solo armi: uccidono ma non salvano nulla.
Rivide l’espressione accusatoria del giovane soldato, riudì la sua voce sferzante mentre le poneva la fatidica domanda “Lei ha mai amato qualcuno, comandante?”
Sasha sospirò, pentendosi di aver seguito le stupide regole dell’Alleanza facendo rapporto sulle due giovani reclute N7 poste sotto il suo comando che aveva sorpreso in atteggiamenti intimi. L’Alleanza vietava la fraternizzazione e lei, troppo impegnata ad essere un soldato perfetto per soffermarsi un istante sulle conseguenze del suo gesto, aveva applicato il regolamento alla lettera spedendo quei due giovani soldati agli antipodi della galassia. E non avrebbe provato nessun rimorso se uno dei due non le avesse posto la fatidica domanda.
Una domanda alla quale non aveva dato risposta. Era tornata su Akuze per rispondere a quella domanda e perché, per la prima volta voleva …
Sospirò, sfoderando un sorrisetto ironico rivolto a se stessa “Per la prima volta voglio ricordarmi di me.”
- Stiamo per atterrare, comandante.- l’avvertì il pilota distogliendola dai suoi pensieri.
Sasha annuì, la bocca troppo arida per poter parlare; si alzò aggrappandosi al gancio di metallo del portellone, preparandosi a sbarcare come se si trovasse in territorio di guerra.
Non importava quanto civilizzato potesse divenire quel pianeta: che l’Alleanza si divertisse pure a definirlo “sicuro” e a costruire inutili cattedrali nel deserto per affermare chissà quale dominio: per lei Akuze sarebbe rimasto sempre il pianeta infernale che affrontava continuamente nei suoi incubi.
La navetta atterrò morbidamente sul terreno sabbioso e Sasha uscì dal portellone con un agile balzo; non appena i suoi piedi toccarono terra la navetta riprese quota, come da accordi presi con il pilota.
Aspettò che la sabbia sollevata dai motori si disperdesse mentre il suo corpo si adattava all’aria rarefatta del pianeta. Rimase immobile, in piedi in mezzo a quella desolazione nera, la pelle d’oca sulle braccia malgrado il sole torrido che scaldava la sua corazza.
Presente e passato si sovrapposero mentre sotto i suoi piedi la terra iniziava a tremare e lunghe crepe si aprivano nel deserto. Udì gli spari delle mitragliatrici, il rombo secco dei mezzi corazzati, le urla di uomini morenti e le strida dei mostri. Chiuse gli occhi, crollando in ginocchio mentre ombre antiche la sovrastavano e sotto di lei si apriva l’abisso. Si sentì cadere nel vuoto, precipitare in un’oscurità senza fondo, la sabbia nera che vorticava intorno a lei, la voce di un uomo che chiamava il suo nome.
- Sasha!-
Sussultò, spalancando gli occhi e guardandosi intorno. Era in ginocchio in mezzo al deserto di Akuze, la sabbia nera che, sospinta dal vento, già si accumulava attorno alle sue gambe.
Non c’erano mostri vermiformi pronti a ghermirla, nessuna voragine nel terreno, né uomini che sparavano in preda al panico. C’era solo lei, in compagnia dei suoi ricordi e delle sue paure: persino la voce che aveva udito risuonare nell’etere apparteneva unicamente alla sua mente. D’altronde come poteva essere reale? Non c’era più nessuno a chiamarla con quel nome.
- Comandante Shepard.- ricordò a se stessa, alzandosi e spazzolando via la sabbia dalla lucida corazza N7.
Voltò le spalle alla desolazione nera, rivolgendo le sue attenzioni all’enorme cupola che occupava buona parte dell’orizzonte. Era una costruzione immensa, maestosa, ma quand’era uscita dalla navetta non si era nemmeno accorta della sua presenza. Perché, come lei, quella struttura non aveva ragione di esistere. Era solo un’illusione, una cortina fumogena che aveva come unico scopo quello di era far dimenticare l’orrore.
Ecco cos’era diventata Akuze: una farsa grottesca, un luogo impregnato di retorica, dove la morte era raccontata come la più splendida delle avventure.
Lì, nel luogo dove tanti uomini avevano perso la vita nel più atroce dei modi, l’Alleanza non aveva saputo fare di meglio che costruire un tempio in gloria a se stessa.
Sasha fece una smorfia, costringendo il suo corpo a muoversi per entrare in quell’illusione. Sotto la cupola il clima si fece improvvisamente mite, mentre erba soffice e verde cresceva sconfiggendo il deserto.
Un’interfaccia virtuale con le sembianze di una giovane donna apparve al suo ingresso, ma lei la zittì prima ancora che riuscisse a sciorinare, con voce incolore, la sua favoletta sui grandi eroi morti in quel luogo.
Si guardò intorno, disgustata e triste, mentre il suo sguardo scivolava lungo la piccola collina di alberi ed erba punteggiata di lapidi bianche che si dipanava di fronte a lei.
Camminò lungo quel cimitero uscito da una cartolina, senza osare soffermarsi al cospetto di quelle pallide lapidi che raccontavano di eroi e duelli, di morti aggraziate e di nobili gesta.
Era mai esistito un inganno più grande di quello? Un inganno capace di cancellare ciò che davvero era quel posto?
Invece dell’erba lei ricordava la sabbia impregnata di sangue e materia cerebrale; le ombre degli alberi avevano sostituito quelle mostruose dei mostri che avevano sbranato i suoi compagni. Lei ricordava una pianura punteggiata di ossa, bianche come quelle lapidi ma infinitamente più minacciose.
In quel luogo, in quel piccolo paradiso creato nel più mostruoso degli inferni, la morte di quei soldati sembrava quasi trovare una giustificazione, essa veniva glorificata quando avrebbe dovuto essere solo pianta.
Lei conosceva la morte. Conosceva l’odore della morte, era odore di sangue e piscio e paura. Conosceva i suoni della morte: erano agonia, singhiozzi e patetiche invocazioni di aiuto. Conosceva l’aspetto della morte.
Strinse i pugni e digrignò i denti: certo che lo conosceva.
Avrebbe voluto radere al suolo quel luogo, strappare le ossa dalle loro tombe e portarle migliaia di chilometri lontano da quel pianeta e da quel memoriale che non ricordava niente.
Quegli uomini meritavano un cielo vero sopra la testa e vento a far stormire le fronde degli alberi di casa loro. Meritavano l’infinita vastità dello spazio e gli oscuri misteri degli oceani. Meritavano il tocco delicato della pioggia e il freddo abbraccio dei ghiacci.
Si morse il labbro, abbassando colpevolmente il capo: si era convinta che non le importasse niente di dove fossero seppelliti i suoi amici e il suo uomo.
“Sono morti” si era detta “Cosa importa dove siano seppelliti.”
Forse a loro non importava niente. A lei, invece, importava tutto.
Raggiunse l’ultima fila di lapidi, camminò lentamente tra i due schieramenti di pietre bianche, sentendo il loro sguardo su di sé, come un imputato sotto processo che sfila di fronte alla giuria in procinto di emanare il verdetto. Obbligò i suoi occhi a scorrere i nomi incisi sulla pietra: Jake e Jin, Abigale e Dario, Tiger e Nadine, Habib e C.J.
Si soffermò davanti ad ogni lapide, sfiorò con la punta delle dita le curve di ogni nome, strinse i denti al ricordo di come era morto ognuno di loro. Sapeva che alcune tombe erano vuote, che non era stato ritrovato alcun corpo da seppellire.
Dovette racimolare ogni briciola di coraggio rimastole per proseguire e raggiungere l’ultima tomba. Era uguale a tutte le altre, eppure appariva più silenziosa, più triste, più sola: era l’unica a non avere un compagno.
Sasha si accucciò davanti alla lapide bianca, nel luogo in cui, se cose le cose fossero andate come per molto tempo aveva sperato fossero andate, ci sarebbe stata la sua tomba.
Invece eccola lì: il fantasma di una donna viva circondata dagli spettri di uomini morti.
“Alexander Andreij Shepard” lesse su quella lapide che avrebbe potuto essere la sua.
Si tolse i guanti, affondando i palmi delle mani nell’erba fresca e sottile, aliena su un pianeta alieno.
- Sarei dovuta venire prima.- ammise, parlando a tutti e a nessuno – Ma ci sono molte cose che avrei dovuto fare e non ho fatto. Molte cose che avrei dovuto dire e non ho detto. Piangerle ora non servirà a realizzarle.-
Prese dalla cintura la piccola sacca di cuoio che vi portava appesa da quando aveva ripreso a combattere.
Lì dentro c’era la sua fortuna e la sua colpa. Ma era stanca di basare la sua vita su fortuna e colpa. Era tempo di lasciarle andare, entrambe.
Prese una fotografia sgualcita dal troppo uso. Studiò quei volti che sorridevano per motivi che aveva dimenticato, davanti a un fotografo di cui aveva scordato il nome. Quante volte aveva osservato quei volti impressi sulla carta per impedire che il tempo li cancellasse dalla sua memoria. Eppure non era servito a niente, fino a pochi giorni prima aveva dimenticato quanto li avesse amati, tutti loro e uno in particolare.
Non era compito di quella fotografia ricordare chi non c’era più. Solo lei poteva farlo. Lei che era la sola rimasta a ricordare il suono delle loro voci e l’odore del loro sudore.
Appoggiò la fotografia alla base della lapide di Shepard, chiedendosi che cosa avrebbe fatto lui al suo posto, rispondendosi che forse preferiva non saperlo. Aveva amato il ragazzo che era stato e l’uomo che stava diventando; ma se i ruoli fossero stati invertiti, se fosse toccato ad Alex inginocchiarsi davanti a quella distesa impietosa di tombe, Sasha era certa che la mano che avrebbe accarezzato la sua lapide sarebbe stata quella di uno sconosciuto avvelenato dalle troppe morti, indurito dalla sua sola sopravvivenza.
- Mi hai lasciato il compito più difficile, Alexander. Pensavo di averti rubato la vita, ora mi chiedo se non sei stato tu a rubarmi la morte.- si concesse un sorriso mesto – Sono sola, Alex, come non lo sono mai stata. Sono uno spettro che si aggira per la galassia: ho tutto quello che un soldato vorrebbe avere eppure sono come un’armatura vuota, un cavaliere inesistente. –
Dalla saccoccia estrasse la piastrina di riconoscimento che era stata di Sasha Red e una morsa le serrò il cuore quando l’anello infilato nella catenina tintinnò contro la mostrina. Sfilò delicatamente l’anello, rigirandoselo tra le dita, incapace di allontanare dalla mente il ricordo dell’attimo in cui l’aveva ricevuto. Come apparivano semplice le cose, adesso.
- Non ho dimenticato quello che mi dicesti, il giorno in cui tentai di restituirti questo anello. – ricacciò indietro le lacrime, sentendo il familiare retrogusto amaro della disperazione scenderle giù per la gola -  Mi ordinasti di tenerlo e di riportartelo il giorno in cui avessi ottenuto tutto ciò che desideravo. Quel giorno avrei dovuto dirti se ne era valsa la pena.-
Si morse il labbro, cercando di trovare le parole giuste per dire ciò che voleva dire e anche quello che non avrebbe mai voluto dire.
- Ho ottenuto tutto quello che desideravo. E se dovessi rispondere oggi a quella domanda ti direi che no, non è valsa la pena.- strinse il pugno attorno all’anello – Ma io non voglio darti questa risposta. Non posso tollerare l’idea che tutto quello che ci è successo sia avvenuto per niente. Ecco perché terrò questo anello.- mostrò il pugno chiuso alla lapide, come avrebbe fatto se lui fosse stato ancora in vita per vedere il suo gesto – Quando avrò reso la galassia un luogo migliore di come l’ho trovato, quando avrò salvato abbastanza vite da ripagare tutte quelle che ho contribuito a stroncare, quando avrò salvato un popolo dall’estinzione e riportato la pace laddove non c’era altro che guerra allora, solo allora, ti restituirò l’anello e ti dirò che ne è valsa la pena. - posò le labbra sul nome inciso nella pietra – E finalmente il mio debito sarà saldato e tornerò da te, amore mio. Non importa in che luogo morirò, quanto lontano da qui sarà il mio corpo, ovunque tu sia adesso io ti troverò. E avremo quella pace che tu sognavi per noi, mentre il tuo nome e le mie gesta riecheggeranno per l’eternità.- appoggiò la piastrina sul bordo della lapide, ma tenne l’anello per sé. Prese il pugnale che portava alla cintura, si passò il filo della lama sul palmo e, mentre il sangue zampillava dal piccolo taglio, appoggiò la mano sulla lapide, lasciandovi una traccia rossa – Lo giuro col sangue e che io sia dannata se dovessi permettere alla morte di fermarmi.-
Si rialzò, sentendo di aver, finalmente, compiuto il proprio dovere.
Sentì gli occhi di ogni soldato seppellito in quella terra arida puntato su di sé: lì erano i suoi dèi e i suoi demoni; le loro anime erano le sole divinità cui avrebbe mai rivolto le sue preghiere.
Aveva pronunciato il suo giuramento e, nel silenzio che avvolgeva il cimitero di Akuze, seppe che era stato accolto: non le rimaneva altro che adempiere al suo dovere per quel giorno e per tutti i giorni a venire.
- Sono Sasha Shepard, comandante dell’Alleanza.- sussurrò ai suoi dèi – E mi ricordo di me. -
 
 
 
 
Nota
 
Perdonate lo spaventoso ritardo, è stato un mese di fuoco ma conto di recuperare il tempo perso.
Rimane un solo capitolo prima della fine di questa storia che, devo ammetterlo, mi è particolarmente cara, forse più delle altre. L’idea di mettervi parola fine mi rattrista, soprattutto perché ormai ho spremuto da Mass Effect e dal suo meraviglioso protagonista tutto quello che, a mio avviso, c’era da spremere. Personalmente non credo di avere più nulla di originale da scrivere su questa storia e ora mi sento come alla fine di una maratona. Stanca e soddisfatta, ma rattristata dal fatto che non ci sia più strada da percorrere.
Ma non è ancora il momento degli addii, rinvio questo triste compito al prossimo capitolo.
Nel frattempo ringrazio di cuore chiunque sia arrivato a leggere queste parole!
Alla prossima!
  
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