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Autore: zucchero filato    31/12/2008    4 recensioni
Tutto è nato da un "e se..." ed alcune pagine sono uscite prepotenti, scritte di getto in un pomeriggio.
E se Terence avesse deciso di distruggersi completamente? E se Candy non avesse resistito al bisogno di trovarlo? E se...
Solo che poi c'era bisogno di capire come mai sono arrivati qui, a questo appuntamento con il destino, l'inizio e la fine ben chiari ma poco chiaro era quello che stava nel mezzo.Per definire gli eventi ho impiegato più tempo ed ormai che sono in dirittura d'arrivo inizio a postare l'inizio, proprio quelle prime pagine che ho scritto tutte d'un fiato.
Questo racconto è stato anche un esercizio di scrittura, provare a calarmi in un personaggio per me più difficili rispetto ad Albert, come Terence, sua madre, Susanna o altri...giudicherete voi...
Buona lettura.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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L’angolo dell’autrice

Comincio quest’ultimo angolino dell’autrice col ringraziare akane_val, blu rei, gobra1095, kaoru, medea78, perlanera, rayne, rina, semplicementeme, valentina 78 per aver messo questa storia tra le vostre preferite; anche se alcune di voi non hanno mai lasciato commenti la cosa mi ha fatto comunque davvero piacere.

Ringrazio ancora kaoru per gli ultimo commenti che mi hai lasciato, mi piace sempre molto l’entusiasmo che traspare da ciò che scrivi ^_^

Con quest’ultimo epilogo dedicato a Susanna si chiude questa storia lunghissima ed articolata che mi ha portato via molte notti e molto sonno ma sono decisamente soddisfatta del lavoro svolto. ^_^

Un saluto a tutti e Buon Anno Nuovo.

New York, Natale 1919

Quando le luci si spegnevano veniva il momento peggiore: la realtà tornava ad essere padrona della sua esistenza e con essa la solitudine e la nostalgia. Il sipario si chiudeva, gli applausi scrosciavano, ovazioni con il suo nome ma poi doveva fare i conti con se stessa, tornava ad essere Susanna e niente più.

Quella era l’ultima rappresentazione ed improvvisamente sentiva tutto il peso di un anno passato ad annegare l’amore e la nostalgia nel lavoro e negli impegni: ora, con il Natale che incombeva,i fantasmi e gli angeli del passato tornavano a farsi vivi più che mai, come l’anno passato, come l’anno ancora prima ma ora faceva più male, lui era tornato in America, con la moglie che gli aveva dato un erede ed i giornali non parlavano che di loro.

Osservò il camerino: come sempre c’erano fiori ovunque e, come sempre, spiccavano le rose rosse di Jason Walton, l’impresario.

Era ormai un’abitudine vedere quei fiori nel suo camerino da due anni a questa parte.

Si alzò e ne accarezzò una mentre fissava la notte fuori dalla finestra e gli spettatori che sciamavano allegri dal teatro.

Era l’antivigilia di Natale.

Non lo aveva ancora dimenticato, non si poteva dimenticare così facilmente un uomo come lui. Sua madre per un po’ l’aveva spinta ad uscire, a fare vita sociale ma era al di sopra delle proprie forze mostrarsi allegra e socievole quando l’unica cosa che avrebbe voluto fare era morire…

Senza la sua voce e i suoi occhi con cui vedere il mondo e se stessa nulla aveva più avuto senso ma per quegli occhi e per quella voce lei era andata avanti, aveva fatto quello che lui si sarebbe aspettato da lei: aveva ripreso a recitare, teneva una rubrica di critica su un giornale importante, aveva persino imparato a ballare di nuovo anche se era comunque rimasta un po’ limitata nei movimenti.

Erano decine le lettere di ammiratori che riceveva ogni giorno, rispondeva cortesemente a tutti ma declinava qualsiasi invito, da parte di chiunque: non se la sentiva e basta.

Ed ora lui era tornato in America.

Non lo avrebbe incontrato, non frequentava i ritrovi mondani se non lo stretto necessario ma i giornali si erano letteralmente innamorati della bellezza e timidezza della sua sposa e di quel bambino che avrebbe ereditato l’immensa fortuna degli Andrew.

Lei, semplicemente, aveva smesso di vivere al di fuori del teatro.

Ancora pochi giorni e sarebbe partita per un viaggio: aveva bisogno di stare sola, di allontanarsi da New York cercando quiete per finire la sua sceneggiatura. Sua madre sarebbe rimasta a casa, glielo aveva chiesto espressamente, aveva necessità di stare sola.

Lo sguardo inquieto vagò di nuovo dalle rose ai giornali aperti sul tavolino, dove la famiglia Andrew occupava le pagine insieme a Candy e Terence.

Bussarono.

“Avanti!”

“Altri fiori, Susanna!”, disse una voce dietro un enorme mazzo di rose rosse.

Lei sorrise debolmente,  “Non so più dove metterle!”

“Mi offendo se non trovi un posto per le mie rose!, disse Jason spuntando da dietro il mazzo.

“Credevo fossero quelle le tue.”

“Te ne ho mai regalate così poche?”

Susanna non rispose, non sapeva mai cosa rispondere a quell’uomo che ora aveva deposto i fiori sul tavolo e la guardava con occhi scintillanti.

“Sei stata magnifica anche stasera!”

“Grazie Jason”, desiderava che se ne andasse e allo stesso tempo temeva di rimanere sola, con i fantasmi del passato che la perseguitavano.

“Susanna, io…”

Lui non sapeva più come prenderla, aveva provato tutti i modi per scuoterla da quel torpore in cui sembrava a proprio agio, non riusciva a rassegnarsi all’idea che lei lo considerasse solo l’impresario.

Jason Walton era un bell’uomo dai tratti mediterranei, dai modi piacevoli ed allegri, che fino a due anni prima era  stato il proprietario di una piccolissima compagnia che non aveva nemmeno una sede propria ed allestiva spettacoli qui e là a seconda della stagione; gli attori della compagnia erano piuttosto apprezzati dal pubblico ma penalizzati dal non avere un teatro.

All’inizio dell’autunno del 1917 Susanna Marlow si era presentata nel suo ufficio chiedendo di entrare a far parte dell’organico della compagnia.

Lui, per lo stupore, era quasi caduto dalla sedia. La conosceva di fama, per il talento e la sfortuna, sapeva, da quel che si diceva in giro, che di persona fosse molto più bella che nei manifesti o in fotografia ma era rimasto abbagliato soprattutto dalla dolcezza e tristezza di quel viso che gli ricordava una Madonna di Raffaello.

Sulle prime non aveva preso sul serio la proposta ma lei era determinata, non le importava molto del salario, l’importante era tornare a recitare. Gli aveva spiegato che alla compagnia Stratford non si trovava più a suo agio, i problemi con Terence erano risolti ma la rivalità con Karen Klies non si era mai assopita e il suo essere menomata pesava sulla sua vita all’interno della compagnia.

Lei era alla ricerca di un posto dove ricominciare, con ruoli secondari, un posto dove la sua invalidità non venisse continuamente utilizzata per metterla da parte.

Walton era rimasto pensieroso a lungo: un’attrice come lei poteva essere causa di attriti tra i membri della compagnia ma era anche una meravigliosa opportunità per avere più visibilità e forse, finalmente, soldi a sufficienza per una sede stabile.

Walton aveva chiesto il parere ai suoi attori e l’inserimento di Susanna era avvenuto senza problemi: il carattere dolce e remissivo di lei aveva facilitato tutto e la sua assoluta mancanza di protagonismo le aveva attirato la simpatia dei suoi compagni; alla fine, inevitabilmente per il suo talento, aveva avuto ruoli di primo piano.

Ora, a due anni da quell’incontro inatteso, la compagnia era divenuta finalmente famosa: avevano un teatro proprio e le pagine dei giornali erano dedicate più o meno equamente a loro, alla compagnia Stratford e a Eleanor Baker, tornata a calcare le scene.

Di tutto questo Jason Walton era molto soddisfatto: il suo sogno di bambino, di quando andava a vedere le prove del padre in teatro, era sempre stato quello di far parte di quel mondo ma poiché non amava calcare le scene aveva trovato più congeniale misurarsi con la difficoltà di gestire una compagnia ed aveva iniziato con quel gruppo di giovani attori usciti dalla scuola del teatro stabile.

Susanna era stata una presenza silenziosa e discreta, tanto brillante in scena quanto poco appariscente nella vita quotidiana della compagnia: osservava gli eventi, le persone, le piccole gelosie e rivalità tra i colleghi senza mai intromettersi, senza mai mostrare maggiore simpatia per questo o quello.

Jason Walton, dapprima colpito dalla sua bellezza, fu infine soggiogato dal mistero di quel volto che solo raramente sorrideva e senza mai quella luce negli occhi che hanno le persone felici ed appagate.

Aveva discretamente chiesto informazioni su di lei ad amici fidati che avevano raccontato in dettaglio la sfortunata storia con Terence Granchester ma poco sapevano, a parte i pettegolezzi scritti dai giornali, di quello che poteva essere accaduto con William Andrew.

Quello che aveva notato era che Susanna era molto più nervosa ed assente da quando la stampa aveva iniziato a a parlare del miliardario di Chicago e della sua consorte di ritorno dall’Africa.

Ora, finito l’ultimo spettacolo, lei sembrava ancora più assente.

“Susanna, io…vieni a cena con me stasera? Mi piacerebbe portarti in un ristorantino molto grazioso qui vicino, non ci disturberà nessuno, tanto per festeggiare…”

Jason ormai era bersaglio delle prese in giro di amici e colleghi: da due anni ormai faceva una corte serrata e costante a Susanna che non si accorgeva di nulla (i più maligni dicevano che lei faceva finta di non accorgersi delle attenzioni di lui per farlo cadere sempre più nella rete), questo malgrado lui stesso fosse oggetto di attenzioni da parte di molte signorine, più o meno costumate.

A volte sfacciato, a volte consapevolmente galante, era difficile che non si notasse la sua presenza ad un ballo, in strada o a un cocktail.

Prima dell’arrivo di Susanna la sua fama di conquistatore era mormorata alle sue spalle mentre ora veniva preso in giro platealmente perché aveva abbandonato le vecchie abitudini e lasciato molte signorine a bocca asciutta.

Susanna lo aveva colpito anche per la sua indifferenza a tutti i trucchetti che era solito usare per affascinare le sue prede: era come se lui nemmeno esistesse.

Sulle prime lui l’aveva presa come una sfida: più alta era la posta, più difficile la preda, più divertente sarebbe stato farla cadere ma si era infine reso conto della solitudine che quella tristezza ed indifferenza nascondevano. E se ne era innamorato, perdutamente.

Non riusciva a capire come Terence Granchester e William Andrew avessero potuto rinunciare a lei e spezzarle il cuore in quel modo…era menomata, era vero, ma questo non era un valido motivo.

“Susanna”, la chiamò di nuovo.

“Scusami Jason…non…non ho capito cosa hai detto…”

“Vieni a cena con me?”

“No, scusa, non mi va…”, sorrise debolmente, lo sguardo sui giornali, “vado a casa, sono molto stanca.”

Jason era al limite della sopportazione.

“Smettila di pensare a William Andrew!”

Le parole la colpirono come uno schiaffo: come aveva fatto a capire?

Lo fissò, vedendolo forse per la prima volta.

“Possibile che tu debba pensare ancora a lui? E’ sposato, ha un figlio!”

Susanna fece un passo indietro, Jason si era proteso verso di lei, arrabbiato e minaccioso. Lo guardò senza riuscire a pensare ad una risposta coerente.

“Non puoi andare a avanti così!”

Lei scosse la testa: “Non puoi capire…”

Lui era sempre più furente.

“Non posso capire, eh? Capisco che per lui hai rinunciato a vivere! Capisco che sei tornata a recitare per non pensare a lui! Capisco che sarebbe ora che tu la smettessi! Nessuno merita il sacrificio della tua vita sull’altare del ricordo, qualunque cosa ci sia stato tra voi!”

“Smettila, non parlare così!”, mormorò flebilmente Susanna.

Jason le si era avvicinato, prendendola per le spalle.

“Qualunque cosa ti abbia fatto quel vigliacco non merita che tu smetta di esistere!”

“Non è un vigliacco, è un uomo meraviglioso, un angelo”, gli rispose, lo sguardo perso nei ricordi.

“Sei ti ha ridotta così tanto angelo non può essere stato!”, strinse ancora di più le mani sulle spalle di lei.

Susanna sollevò lo sguardo e gli rispose con un tono che mai le aveva visto usare al di fuori del palcoscenico: “Non tutti ti considerano un trofeo da conquistare!”, aveva stretto gli occhi fissandolo con freddezza.

La stilettata lo colpì in pieno.

“E’ per questo che mi hai sempre trattato come se non esistessi?”

“Perché tu non esisti!”, gli rispose durante.

Ah, è così che la pensi, allora?!  “Avevano ragione quando mi dicevano che la facevi apposta ad ignorarmi, era per esasperarmi!”

“Non mi interessa essere l’ennesimo trofeo di Jason Walton!”

“Ma avresti voluto essere il trofeo di William Andrew!”

“Non sei degno nemmeno di pulirgli le scarpe!”

“Ah, davvero!?!?”, strinse ancor di più la presa e la tirò a sé per poi circondarle le spalle mentre la baciava in modo rude ed impetuoso.

Susanna cercò inutilmente di opporre resistenza ma si sottrasse al bacio solo quando lui le consentì di farlo.

“Sei un essere spregevole!”, gli disse con le lacrime agli occhi mentre lui continuava a tenerla saldamente contro di sé. Le lacrime velavano gli occhi azzurri ma non riusciva a muoversi.

“Ti aveva mai baciata così?”, le chiese con ancora la rabbia nella voce.

Lei scosse la testa: “No! Non mi aveva mai baciata e basta! Come hai potuto?!”

Con una mano le accarezzò il viso, la risposta che gli aveva dato lo aveva fatto sentire un verme: “Scusami Susanna, ho perso il controllo” ma lei continuava a piangere silenziosamente.

“Dammi una possibilità, ti prego…”

“Jason, io…”

“Fidati di me, non ho fretta, saprò aspettare ma dammi una possibilità.”

“Io, io…non ci riesco…”

“Non ce la farai mai se continui a chiuderti in te stessa…”

Le lacrime continuavano a scendere, inarrestabili. Senza sciogliere l’abbraccio prese a baciarle il viso, asciugandole le lacrime ora con le dita, ora con le labbra; la sentì rabbrividire.

Susanna si sentiva come febbricitante, aveva perso tutte le forze: da troppo tempo aveva bisogno di sentirsi accarezzare, baciare, coccolare.

Quando aveva compreso il proprio errore aveva cercato Marian per spiegarle tutto, non voleva avere sulla coscienza anche William dopo Terence.

Marian era stata difficile da convincere.

Presentarsi poi nella sala gremita cercando di apparire tranquilla era stato l’ultimo sforzo che era riuscita a fare prima di chiudersi in camera propria e guardare il soffitto incapace di piangere e sfogarsi.

Era stata Candy a consolarla come meglio poteva e ad accompagnarla alla stazione; non aveva voluto vedere William, troppa vergogna, anche se lui aveva chiesto sue notizie.

Così, mentre il treno lasciava la piccola stazione di Lakewood, Susanna aveva guardato a ritroso nella memoria alla ricerca del punto in cui aveva iniziato ad equivocare il proprio rapporto con William e non era riuscita a venirne a capo: sapeva solo rintracciare il momento in cui era divenuta consapevole del sentimento che provava per lui.

Tutto ciò che era avvenuto dopo il suo rientro a New York era stato uno stillicidio continuo di notizie dolorose: il fidanzamento ufficiale, il matrimonio, la partenza per Londra e quella per l’Africa e tutti i pettegolezzi su una coppia tanto ricca e conosciuta quanto schiva e riservata ed ora, dopo due anni, la nascita di quel bambino che lei aveva desiderato a lungo di poter portare in grembo. Invano.

Le notizie erano state, tutto sommato, poco numerose , la riservatezza di William non aveva dato molte occasioni per spettegolare ma, a maggior ragione, ogni notizia sugli Andrew aveva un peso reale perché comunicata per via ufficiale.

Non aveva così potuto dubitare nemmeno per un attimo che quell’unione non potesse andare meno che bene e che quel bambino che Marian portava in braccio con orgoglio e tenerezza non fosse stato voluto con tutte le forze da entrambi i genitori.

Un altro sogno che si infrangeva sugli scogli della realtà.

Il senso di vuoto che provava nel cuore e nella mente da mesi si era spostato più in basso, là dove avrebbe voluto sentire suo figlio muoversi. Il desiderio di maternità che la attanagliava da tempo era divenuto via via più acuto e, con esso, la consapevolezza che non si sarebbe mai realizzato con William…e forse con nessun altro.

Era difficile riuscire a pensare il proprio mondo senza di lui, era impossibile pensare qualcun altro accanto a sé al posto suo.

Impossibile, non quando ciò che si era perduto era così prezioso, nemmeno per Terence aveva sofferto tanto e tanto a lungo, forse su Terence si era illusa di meno.

Jason era entrato nella sua vita perché lei l’aveva voluto: era andata a cercare quel giovane impresario di cui tutti parlavano con simpatia per trovare un modo di riavvicinare quel mondo che le mancava.

Aveva parlato con Terence, poi con Robert Hataway, le prospettive erano incoraggianti ma lei non se la sentiva di tornare in quel teatro dove la sua vita era andata in pezzi insieme al riflettore. Terence aveva capito e l’aveva aiutata a trovare una soluzione e proprio grazie ad un amico di Terry era arrivata a Jason e alla sua compagnia.

Aveva dovuto ammettere che era un bel ragazzo ma la fama di libertino  che lo seguiva ovunque gli aveva conferito un aura di poca rispettabilità che non le piaceva affatto: di fronte a William, poi, non c’era aspetto in cui non risultasse sconfitto.

Jason  però aveva anche molti pregi, sempre allegro, pieno di brio, paziente fino all’esasperazione, tenace ed infaticabile, si faceva perdonare i suoi eccessi di galanteria e i suoi modi talvolta troppo sfacciati e troppo diretti.

Si era accorta dell’inclinazione che lui aveva per lei ma non vi aveva dato peso, prendendola più per una posa assunta da Jason per mantenere la sua fama di dongiovanni.

Forse, in un altro momento lei avrebbe anche potuto considerarlo di più ma ora l’ultima cosa che voleva era sentirsi di nuovo presa e rifiutata.

Ora doveva riconsiderare tutto quanto ma si sentiva incapace di pensare: il calore del suo petto sotto le proprie mani la stordiva come il suo profumo che sapeva di sandalo e muschio.

“Non ce la farai mai se continui a chiuderti in te stessa…”

“Io vorrei solo morire”, mormorò Susanna, “mi sento così sola” ma quella frase non era per lui, era solo un pensiero a voce alta.

Jason la strinse di più, cullandola come si fa con i bambini impauriti e Susanna lentamente si lasciò andare, ricambiando timidamente l’abbraccio.

“Brava, così”, le disse nascondendo il viso nei capelli di lei e baciandole il collo, molto vicino all’orecchio.

Sentì una scossa percorrerle la schiena e provò una fitta al basso ventre; si vergognò ma desiderò che lo facesse ancora. E lui lo fece mentre lei non riusciva ad impedire alla propria testa di muoversi percettibilmente ed appoggiarsi a quella di lui.

Jason sorrise: “Brava Susie, lasciati andare…”, mormorò.

La guardò per un attimo e le appoggiò un bacio sulla fronte: non poteva sapere cosa stava evocando.

Susanna ebbe una fitta al cuore e chiuse gli occhi: William!

Scoppiò in un pianto dirotto che la portò ad avere i conati per la violenza dell’emozione, due anni di lacrime trattenute: non aveva più pianto da quando lo aveva fatto, per l’ultima volta, tra le braccia di William.

Jason la lasciò piangere, cullandola: aveva compreso che quel pianto era l’inizio del cambiamento.

Quando si fu calmata un poco Jason le prose un bicchiere d’acqua mentre con un fazzoletto umido le lavava il viso.

“Ora basta davvero. E’ l’antivigilia di Natale, ora tu ti cambi, ti vesti bene e vieni a cena con me…”

Lei fece per replicare ma Jason continuò imperterrito mentre le puliva ancora il viso e gli occhi.

“E voglio vederti sorridere perché oggi cominci una nuova vita: con me se vorrai. Se non mi vuoi, pazienza, mi getterò da una rupe per il dispiacere e tu avrai rimorso per tutta la vita…”

“Susanna accennò un sorriso: “Non lo faresti mai!”

“Vuoi vedere?”

“Ti tratterrebbe qualcuna delle tue amichette!”

“Non ho amichette, congedate tutte, non mi interessano più!”

Susanna scosse la testa.

“Non ci credi, eh?”

“No”, sorrise di nuovo, “Il lupo perde il pelo ma non il vizio!”

Lui le prese il viso tra le mani: “Voglio solo te, non so cosa mi hai fatto, maledizione, ma voglio solo te e se mi dici di no mi butto da un grattacielo!”

Susanna lo osservò, seria: non stava scherzando e questo le fece piacere…era bello sentirsi desiderata…

“Ne saresti capace!?”

“Già!”

“Ti butti anche se ti dico di no per la cena?”

“Inizio con quella…”

“Ti butteresti per così poco?

“In realtà no ma devo fartelo credere così mi dici di sì e posso continuare a farti una corte spietata fino a domani…”

“Perché fino a domani?”

“Perché domani ti chiederò di nuovo di uscire con me altrimenti mi butto dal ponte di Brooklin!”
Susanna rise mentre lui sorrideva: “E’ così che voglio vederti!”

“Pensi di continuare a lungo con i ricatti?”, gli chiese divertita.

“No, tanto prima o poi mi supplicherai di invitarti a cena…”

“Ah! Sei convinto di questo?!”

“Sì”, e le sfiorò le labbra con un bacio.

Lei lo guardò perplessa: “Senti un po’, io…”

“Vedi? Siamo già a buon punto!”

“Perché?”

“Non mi hai ancora preso a schiaffi , non hai iniziato a piangere e non sei scappata via inorridita!”

“Senti tu, presuntuoso che non sei altro!”, gli disse assumendo una posa esageratamente minacciosa.

“Mi dica, mia signora!”

“Fai poco lo spiritoso!”

“Potrei riprovare…”

“A fare cosa?!”

“Mai fare di queste domande!”

Susanna si trovò di nuovo tra le braccia di Jason, stavolta il bacio era dolce e sensuale e si lasciò andare molto più di quanto avrebbe voluto.

“E’ questo che ti ci vuole, una cura di baci e coccole!”

Susanna lo spinse via: “Nessuno ti ha dato il permesso!”, ma la testa le girava e si sentiva strana.

“Non ne ho bisogno!”

“Come non ti serve?”

Lui la baciò di nuovo…

“Jason!”

“Va bene, la smetto, aspetterò paziente che tu cada ai miei piedi implorandomi, però ora andiamo a cena, vuoi?”

“Va bene”, si sentiva confusa, “Dove hai detto che andiamo?”

Prese i cappotti e la condusse fuori, spegnendo le luci del camerino.

Due voci si sentivano nel teatro ormai vuoto

 “Non l’ho detto…”

“Hai detto ristorantino carino, quale sarebbe?”

“Due isolati verso sud”

“Quello italiano?”

“Sì”

“Non ho mai mangiato niente di italiano…”

“Ti piacerò!”

“Mi piacerà, vuoi dire..”

“No, intendevo dire proprio che ti piacerò e alla fine mi amerai alla follia…”

“Sei troppo sicuro di te”

“L’unica cosa di cui sono sicuro è che ti amo…”

“Jason…”

  
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