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Autore: rossella0806    09/05/2015    3 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Quando ero piccolo, non vedevo l'ora che arrivasse l'estate, perché sapevo che avrei trascorso l'intero periodo delle meritate vacanze a Rouge, un minuscolo paese valdostano da cui proviene la famiglia di mia madre, incastrato in una delle valli ai piedi del Monte Bianco.
Partivamo il 1 di luglio e tornavamo a Lione il 30 di agosto, giusto il giorno prima di preparare lo zaino con tutto l’occorrente per iniziare l'ennesimo anno scolastico, far finta di ricontrollare i compiti che avevo frettolosamente e stancamente eseguito tra una partita di calcio all'oratorio e una passeggiata tra i sentieri di montagna in compagnia di mio padre e delle mie sorelle o, più spesso, con i miei amici italiani, Luca, Alberto e Matteo.
Quelli erano i momenti che preferivo, avventurarmi in mezzo alla natura assieme a loro tre, avvolti dalla maestosità dei pini, calpestando il sottobosco ricco di sassolini e di humus, avaro dei croccanti e umidi fili d’erba che abbondavano prima di addentrarci nel profondo di quel paesaggio, cercando al contempo di non schiacciare i formicai disseminati lungo la strada, le rare lucertole e i più abbondanti ricci, sotto lo sguardo vigile degli sparvieri.
Il sole filtrava appena, facendosi largo tra quel tetto di aghi secolari, riscaldandoci assai fiocamente, cosicché le temperature erano sempre piuttosto basse, tanto da essere necessario portare con sé almeno un pullover da legare in vita o da appoggiare sulle spalle.
Con mio padre e le mie sorelle, invece, andavamo a caccia di funghi estivi, ma quasi mai eravamo fortunati nella nostra ricerca.
Venivamo ripagati assai scarsamente, molto probabilmente perché non sapevamo quali luoghi battere, nonostante il manuale del perfetto cercatore che il mio intrepido genitore insisteva a portare con noi.
Mia madre non si fidava del magro bottino che portavamo a casa, quindi buttava – devo ammettere con una certa dose di altezzosità mal celata- il contenuto mezzo putrefatto del cestino in legno e tessuto, che io prontamente le porgevo.
La seconda o terza estate in cui ritornammo a casa senza aver portato nulla di certamente commestibile, cominciò a proibire a me e alle mie sorelle di continuare quell'inutile perdita di tempo: io, però, le disobbedivo puntualmente, perché adoravo quei momenti trascorsi nei meandri del bosco, tutto il contrario di quelle coraggiose delle sue figlie, le quali non ci pensarono un solo secondo a evitare di assecondare l'entusiasmo di nostro padre, ben felici quindi di rinunciare alle nostre salutari passeggiate di montagna, preferendo invece sculettare vanitosamente tra le vie del paese, alla ricerca di qualche affascinante garçon italiano.
Quando, rispetto alle inutili battute di caccia ai funghi, mi addentravo tra i sentieri in compagnia dei miei amici, ci divertivamo a fare il countdown per decretare il vincitore che toccava per primo il pino rosso, un albero dalla corteccia naturalmente bruna, ma dai riflessi insolitamente carmini.
Sopra le radici forti e robuste che avvallavano il terreno in maniera sinuosa, stendevamo un fazzoletto di tessuto, una specie di tovaglia rubata a turno dalle nostre case, aprivamo il sacchetto delle provviste - che consisteva sempre in un paio di baguette tagliate a metà, farcite con maionese, pomodori, lattuga e tonno, il tutto innaffiato da una borraccia di the alla pesca- e cominciavamo a gustare il succulento pranzo, fingendo che fossimo famosi esploratori nel posto più remoto del mondo, membri di una spedizione internazionale di fondamentale importanza per le sorti del pianeta.
Tornavamo a casa nel primo pomeriggio, dopo che i nostri stomaci erano stati abbondantemente ripagati dalle fatiche, e le menti si erano rigenerate dalla pennichella post pranzo; imbrattati di terra, con le ginocchia escoriate, esito delle corse per raggiungere nel più breve tempo possibile il pino rosso, un po’ intimoriti dalle puntuali sgridate dei rispettivi genitori, eravamo però sempre felici per le ricchissime ore trascorse insieme.
Ho avuto la fortuna di imparare discretamente l'italiano, dal momento che i miei genitori si sono battuti -fin dalla cosiddetta fase della lallazione- perché imparassi la nostra lingua d'origine, quindi non mi era difficile riuscire a comunicare con loro, i miei tre amici intendo, tralasciando qualche strafalcione grammaticale che gioivano sempre nel puntualizzarmi, con pazienza ed ironia al contempo.
Durante quei due mesi scarsi di autentico paradiso, la mia famiglia ed io alloggiavamo a casa dello zio, il fratello di mia madre, che viveva con la moglie e i due figli, un maschio e una femmina più grandi di me di una decina d'anni: questa differenza di età -ai miei occhi assai notevole- mi impediva di considerarli degnamente ma, d’altro canto, neppure loro si preoccupavano così tanto della mia presenza, atteggiamento che non mi dispiaceva affatto, perché io avevo i miei amici e, questo, era di gran lunga migliore della compagnia che avrebbero potuto concedermi.
La prima estate che trascorremmo da loro, avevo sei anni, mentre Zia Arianna ne aveva appena compiuti quarantotto.
A distanza di quasi cinque lustri, è rimasta un donnone come allora: portava sempre i capelli tagliati sopra le spalle, di un rosso naturale ma ora macchiato di bianco, il viso rotondo disseminato di efelidi.
Aveva le mani rovinate dai calli per l’uso prolungato e intensivo della zappa, ma questa sua caratteristica la circondava di un’aura misteriosa, perché credevo fosse una sorta di super eroina che andava a caccia dei folletti dispettosi che –leggenda vuole- abitassero i meandri del sottobosco, punendoli per le loro marachelle.
Zio Paolo, invece, era arrivato al traguardo dei cinquant'anni, alto quanto la moglie, l'ho sempre visto indossare camicie rosse a quadretti.
Portava occhiali leopardati, dalle lenti rotonde, i capelli castani striati di grigio, e aveva sempre un bel sorriso stampato sulle labbra.
I loro figli, Marco di venti e Alessia di sedici anni, sembravano due gemelli da tanto si assomigliavano (adesso le cose sono un po’ cambiate, ma la somiglianza rimane comunque notevole).
Avevano ereditato il colore di capelli della madre, mentre gli occhi avevano la tonalità cerulea uguale a quella del padre.
Tutti e quattro vivevano in una specie di fattoria, a un centinaio di metri o poco più dall’inizio del bosco, circondati da cavalli, mucche e galline a volontà, oltre a due cani e tre gatti.
Al contrario della sorella Nadia ( il cui diminutivo è diventato il francese Nadine), mio zio non aveva voluto lasciare la piccola azienda di famiglia; lei, infatti, dopo gli studi da segretaria d'azienda, si era trasferita per lavoro a Lione e, qui, dopo un paio di anni, aveva conosciuto un giovane dentista, Edmond, anche lui di origini italiane, ma nato in Francia, a Bordeux.
Mia madre, di tanto in tanto, soffre e soffriva di mal di denti, così si era decisa -durante un attacco più forte degli altri- di farsi visitare da uno specialista che, guarda a caso, era mio padre, cioè, ancora ovviamente non lo era, però, grazie alle gengive infiammate della futura moglie, era sulla buona strada per diventarlo.  
Cominciarono così a vedersi ogni sei mesi per il controllo di routine, poi ogni tre e, infine, ogni settimana, grazie agli inviti galanti del giovane dentista che, tra una cena al ristorante e un'uscita al cinema o a teatro, non voleva proprio farsela scappare quella ragazza.
Otto mesi più tardi, la Vigilia di Natale, decisero di sposarsi, coronando il loro sogno d’amore con una cerimonia molto intima, giusto i genitori degli sposi, i testimoni, qualche parente e il sindaco, l'officiante della cerimonia in comune.
Dopo due anni nacque mia sorella Claire poi, a distanza di tre, fu la volta di Jeanne, seguita
un lustro dopo da quella di Agnése e, quando l’ultima aveva quattro anni, arrivò il pezzo forte della collezione, ovvero il sottoscritto.
Ritornando alla fattoria degli zii, quello sì che era una vera oasi!
Ho già raccontato le scampagnate a cercar funghi nel bosco o a bighellonare con i miei amici alla ricerca di insetti, volatili e altri abitanti del sottosuolo a quattro zampe, però un altro passatempo degno di menzione era sicuramente la mansione di aiuto giardiniere che, dall'età di nove anni, assunsi ufficialmente.
Mia zia, infatti, si occupava delle calle, dei tulipani, dei gigli, dei ciliegi e dei peschi come fossero i suoi stessi figli, alla stregua del giardino dell’Eden.
Gongolava
orgogliosa quando faceva notare il rosso brillante dei pomodori, oppure la lunghezza delle zucchine o, ancora, la perfetta rotondità dei cespi di insalata.
Zia Arianna, gelosissima delle creature che aveva piantato anni addietro, permetteva solo a me di avvicinarsi, persino al marito non dava possibilità di calpestare quel sacro suolo perché, un anno prima che noi arrivassimo a villeggiare nella loro fattoria, le aveva quasi ammazzato –questo era il termina che era solita ripetere- mezzo orto.
Così, grazie alla pazienza con cui trascorrevo i miei pomeriggi a guardarla dissestare le zolle di terra, mi promosse suo aiutante in campo, mansione che prevedeva il quasi quotidiano annaffiamento di piante e fiori.
Quando, il 30 di agosto, i miei genitori annunciavano la nostra imminente e già nota partenza, salutavo con grande rammarico Luca, Alberto e Matteo, zia Arianna e zio Paolo, i cugini Marco e Alessia un po’ di meno e, ovviamente, l'orto di cui tanto avevo avuto cura.
Intrappolato dentro la nostra Peugeot, carica di bagagli a non finire, cercavo di ritagliarmi un angolino per voltarmi indietro e salutare il capannello di persone che, senza sventolare fazzoletti carichi di lacrime e moccolo, si era solennemente riunito per darci il proprio arrivederci al prossimo anno –mi consolava il fatto che, almeno, avremo rivisto gli zii a Natale- intristendomi nel vedere i miei amici che, puntualmente, già mi mancavano.
Non appena giungeva Pasqua, dopo gli auguri per telefono che Luca, Alberto, Matteo ed io ci scambiavamo, cominciavo a contare le settimane che ci separavano, trovandole infinitamente lunghe e noiose.
Adesso, a distanza di quasi venticinque anni, noi quattro ci vediamo più raramente, ma sappiamo che, se uno ha bisogno, gli altri sono pronti ad andare in suo aiuto, partendo anche subito e lasciando tutto il resto, perché la vera amicizia è anche questo.



Lo scorso autunno, all'incirca sei mesi fa, abbiamo portato i ragazzi del "Centre" in campagna, a una ventina di chilometri da Versailles.
Erano tutti eccitati, i bambini di sei anni e gli Orsetti lavatori in particolare: moltissimi di loro, infatti, non aveva mai messo piede fuori città, quindi quella era l'occasione perfetta per approfittarne -soprattutto per i nuovi arrivati- e conoscere il mondo al di fuori delle quattro mura dello stabile che adesso era diventata la loro casa.
Madame Betancourt, la direttrice dell’ “Arcenciel”, aveva prenotato personalmente l'autobus, insistendo per aggregarsi al gruppo, cosa che non faceva praticamente mai, ma la destinazione della scampagnata le ricordava la sua infanzia, un po’ come la ricordava a me.
Ogni anno, alle porte dell'autunno, quando
il vento è una brezza gentile e timida, e le foglie sono ancora attaccate ai rami degli alberi, non del tutto intirizzite e indebolite dal freddo pungente dei mesi che ci attendono, è consuetudine del nostro "Centre" portare i ragazzi alla scoperta di un luogo particolare, cercando di accontentare sia i più grandi che i più piccoli e, soprattutto, optando per un posto all'aperto, in modo da non imprigionarli sempre in spazi chiusi.     
Da tre anni a questa parte, da quando cioè ho preso servizio all' "Arcenciel", oltre alla scampagnata
a cui ho già accennato, abbiamo portato i bambini al parco acquatico e alla riserva di fauna selvatica di Parigi.
La gita autunnale ha una sorta di significato propiziatorio, oserei dire quasi apotropaico, in quanto noi insegnanti ci auguriamo che anche l'anno scolastico che sta per cominciare sia ricco di occasioni favorevoli per la crescita di bambini e adulti, oltre alla speranza mai accantonata di trovare una casa definitiva per i nostri giovani ospiti del centro.
E le nostre buone intenzioni sembrano venire ripagate, anche se non con i numeri che vorremmo: in questi tre anni, infatti, ho visto ricongiungersi alle loro famiglie o trovarne di nuove, venticinque ospiti, solo un quinto del totale, è vero, però è già una piccola vittoria, che ci lascia ben sperare per il loro futuro.
Ritornando alla gita autunnale, quella mattina alle sette, eravamo in fila indiana davanti all'entrata del “Centre”, in attesa dell'arrivo del super pullmino, come i più piccoli chiamavano il mezzo che ci avrebbe condotti a destinazione.
Non faceva freddo, però il cielo era disseminato da nubi all'apparenza innocue -almeno era quello che volevamo credere- quindi controllammo che ciascun partecipante avesse nello zaino un ombrello, oggetto che, per fortuna, i ragazzi più grandi avevano ricordato ai più piccoli di portarsi appresso.
Madame Betancourt era vestita con una tuta color blu elettrico che metteva in risalto il seno florido e i fianchi generosi che, con i soliti tailleurs, riusciva a mascherare assai bene.
Era eccitata quanto i bambini, forse addirittura di più.
Liliane ed io ci guardavamo di sottecchi, reprimendo a stento una risata.
Prendemmo posto uno di fianco all’altra, in seconda fila, dietro la direttrice, già in pole position con il naso appiccicato al finestrino e un sorriso gongolante sulle labbra spalmate di rossetto color fragola.
Le altre quattro colleghe – Mireille, Gabrielle, Juliette e Nicole- si sedettero in fondo, tenendo così sotto controllo la situazione e gli eventuali litigi dei ragazzi.
Dopo aver sistemato
sul sedile il giubbotto e la macchina fotografica con cui avremo immortalato quella memorabile giornata ( le foto sarebbero andate ad aggiungersi a quelle delle bacheche appese nel corridoio d’entrata del “Centre”), mi alzai per assicurarmi che ci fossimo tutti.
Cominciai a contare i bambini una prima volta poi, per sicurezza, anche una seconda e, certo che nessuno mancasse all’appello, ritornai indietro, sedendomi composto al mio posto.
Avevamo già fatto fin troppe raccomandazione ai ragazzi, fornendoli anche del solito cartellino di riconoscimento con il loro nome e il numero dell’ “Arcenciel” che appuntavamo ad ogni gita fuori porta sulla maglietta, nell’infausta evenienza che qualcuno si perdesse, quindi mi limitai a riservare un’occhiata eloquente ai più scalmanati.  
L’autista del pullman, un uomo sulla cinquantina, dal viso rubicondo e le braccia all’apparenza burrose come madleines, si girò nella nostra direzione, domandandoci se potevamo partire.
Liliane ed io annuimmo con un sorriso, mentre la direttrice s’intrometteva per sapere quanto tempo ci avremmo impiegato, com’era la strada “perché sa, io soffro un po’ di chinetosi, quindi la prego di affrontare le curve con dolcezza, di non correre e di non fermarci per soste inutili!”, ricompensando il povero malcapitato con un’ appena accennata pacca sulla soffice spalla.
“Dici che riusciremo a sopportarla tutto il giorno?!” attirò la mia attenzione Liliane, chiamandomi con una gomitata e lanciando un’occhiata divertita verso Madame Betancourt.
“Dobbiamo …  “ le risposi con fare affranto, sospirando teatralmente  “dai, consolati con il pensiero che vedremo un mucchio di piante, fiori e animali interessantissimi! Il tempo passerà talmente velocemente che non ci accorgeremo della sua presenza!”
“Con un po’ di fortuna potremo anche ripartire senza di lei. M’ingegnerò a trovare un modo per lasciarla alla fattoria!”.
Sorridemmo divertiti e, qualche attimo dopo, il pullman si mise in moto.


Chloe era arrivata al “Centre” circa un mese prima della nostra gita autunnale.
Ha otto anni, quindi, grazie alle regole interne della direttrice, l’ho accolta sotto la mia ala protettiva, diventando a tutti gli effetti uno dei membri degli Orsetti lavatori.
E’ una bambina estremamente solare ed espansiva, desiderosa della compagnia dei suoi coetanei e di noi adulti.
Prima di entrare a far parte della nostra famiglia allargata, viveva in una sorta di campo nomadi, alla periferia di Parigi, in una sottospecie di baracca insieme ai genitori e ai sei fratelli.
Non era mai andata a scuola: non sapeva contare, leggere e neppure scrivere il suo nome.
Quando la solita assistente sociale è venuta a portarcela, ci comunicò che era appena stata letteralmente disinfestata dalla scabbia e dalle zecche, e che perciò sarebbe stato meglio farla ricontrollare da un pediatra la settimana successiva.
Nel campo in cui abitava, infatti, le basilari condizioni igieniche erano lontane anni luce, addirittura proprie di un altro pianeta: Chloe non sapeva cosa fosse una doccia o una vasca, l’unica acqua che conosceva era quella di una sorta di pozzo rudimentale che i capi della tribù nomade avevano costruito per cuocere il cibo che riuscivano a racimolare e per lavare quei pochi indumenti che possedevano.
Trascorreva parte dei pomeriggi aiutando la madre a badare ai tre fratelli più piccoli, mentre al mattino, insieme a quelli più grandi, si recava a piedi –percorrendo una decina di chilometri al giorno- nella Parigi bene, sistemandosi al di fuori dei supermercati e dei mercati rionali, a chiedere l’elemosina ai clienti.
Quando i negozi chiudevano e le bancarelle venivano smantellate, Chloe approfittava della desertificazione di quei luoghi per raggiungere i cassonetti dell’immondizia, rovistare alla ricerca degli scarti di cibo - magari scaduto quel giorno stesso- e di vestiti non conformati alle perfezionistiche richieste della società, caricarsi del suo più o meno misero bottino e fare marcia indietro per ritornare a casa, insieme ai tre fratelli che nel frattempo l’avevano raggiunta.
Un giorno, però, una donna, disturbata dalla presenza della bambina, ferma e sorridente al di fuori del supermercato del quartiere chic in cui la signora dal cuore grande abitava, si decise a informare la polizia della presenza che le turbava la spesa quotidiana.
Nonostante il motivo per nulla magnanimo che l’aveva spinta a telefonare alle forze dell’Ordine, per Chloe si rivelò una vera e propria fortuna, l’inizio di un futuro che, speriamo, sia felice e migliore del passato che ha vissuto fino a qualche mese fa.  
Occupandomi io dei bambini della sezione degli Orsetti lavatori, un paio di giorni dopo il suo arrivo al centro, affrontai con lei il solito colloquio che si riserva ai nuovi ospiti.
Pur sapendo in anticipo, dal resoconto fin troppo dettagliato e burocraticamente noioso degli assistenti sociali, la storia che l’aveva portata da noi, era prassi porle le domande di routine: quale fosse il suo nome, con chi avesse vissuto fino ad allora, se fosse mai stata picchiata, se frequentasse la scuola, come si trovava al campo, un medico l’aveva mai visitata?, era stata vaccinata? ( e a questo interrogativo, lei mi guardò sgranando gli occhi, chiedendomi delucidazioni sul significato di questo termine) eccetera eccetera.
“Sei capace a disegnare?” il nostro colloquio stava quasi volgendo al termine: per capire se mi stava tenendo all’oscuro di qualcosa, per paura o per semplice dimenticanza, l'ultimo passo sarebbe stato l’abituale disegno che chiedevo di eseguire a tutti i nuovi arrivati, dopo averli sottoposti al test di Corman*, risultato per fortuna negativo.
La bambina abbassò lo sguardo e, corrugando la fronte, scosse il capo indecisa:
“Non molto. Però, se mi spieghi cosa devo fare, credo di poterci riuscire!”
“Va bene …”
Mi alzai dalla sedia della stanza in cui facevamo i colloqui con i ragazzi -ciascuna parete dipinta di un colore differente, il soffitto raffigurante le montagne, il sole, la luna e le stelle, il pavimento come uno scorcio di mare ricco di pesci e conchiglie-, per andare a racimolare su uno scaffale dietro di noi gli oggetti che mi sarebbero serviti per l’esperimento.
“Adesso, Chloe, ti chiedo un favore: dovresti disegnarmi la tua famiglia e la casa in cui abiti! Qui ci sono delle matite e dei pennarelli  “le spiegai, indicandole i mezzi che avrebbe utilizzato “mentre questo pezzo di carta si chiama foglio! Ti farò vedere come li devi usare. D’accordo?”
“Oh, ma io queste cose le ho già viste! Una volta, mio fratello Emeric, ha portato al campo delle scatole di … matite, giusto?! Le ha regalate a me e alle mie sorelle più piccole, però poi noi ci abbiamo fatto giocare anche gli altri nostri amici! Le abbiamo usate sul legno! E’ stato divertentissimo!”
Era entusiasta come non l’avevo ancora vista, batteva le mani come se avesse appena scartato un super regalo: tutti questi indizi mi facevano ben sperare, perché Chloe di certo non era una bambina che aveva sofferto, o meglio, non si era resa conto che la vita che le avevano imposto era sbagliata, non adatta a nessuno, figuriamoci a una bambina della sua età.
“Allora affare fatto!” ripresi “ se li hai già usati, è inutile che ti spieghi! Inizia quando vuoi, Chloe, io sarò fuori dalla porta ad aspettarti! Appena finisci, chiamami e commenteremo insieme il tuo disegno!”
Dopo averle spiegato cosa volesse dire commentare, feci come le avevo detto: uscii e attesi che mi desse il benestare per rientrare.
Non c’impiegò molto: devo dire che il disegno che aveva realizzato non poteva definirsi un capolavoro, ma assomigliava, seppure lontanamente, a uno dei dipinti a metà tra il Futurismo e il Surrealismo, un pot-pourri discretamente riuscito.
“Vediamo un po’ quello che hai fatto, Chloe!” le dissi, sistemandomi nuovamente sulla sedia di fronte a lei.
La invitai a prendere posto di fianco a me, così da creare un rapporto di parità, visto che mi aveva aperto la sua mente a ricordi tanto privati.
“Questi sono la mamma e il papà … “ cominciò, indicandomi una serie di righe verticali e di cerchi, tutti coloratissimi “ mentre loro sono i miei fratelli e le mie sorelle! Emeric è il più grande, ha sedici anni, mentre Zahra ha tre anni, ed è la più piccola. Qui c’è la nostra casa” mi spiegò, mentre puntava il dito ossuto su una specie di rettangolo grigio e nero, con delle ruote di difficile interpretazione, spostando poi la mia attenzione su un ammasso di altre righe rosse e verdi.
"E questo, invece? Che cos'è?" domandai, cercando di decifrare numerose striscie d'ocra, macchiate da puntini neri e grigi.
“In questo pezzo di campo, la moglie del signor Radinzkij, il capo tribù, ha messo dei fiori bellissimi e che profumano tanto! Quando mi sveglio, esco fuori per vederli, perché mi piacciono moltissimo!”
“Vicino al campo ci sono delle altre case?” continuai interessato.
Chloe scosse la testa, spiegandomi solennemente:
“No, ci siamo solo noi lì. Dopo che il campo finisce, c’è la campagna, è tutta gialla, però la mamma non vuole che ci vado, perché ha paura che mi perdo e non torno più. E’ più grande di dove viviamo noi, qualche volta ci sono anche degli uccelli che vengono e urlano, forse hanno fame …” concluse rattristita.
“E tu, invece, riuscivi a mangiare ogni giorno al campo? La mamma cosa ti preparava?”
Lei ci pensò su per qualche secondo poi, scrollando le spalle, mi rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo:
“Eravamo io e i miei fratelli più grandi a portare la roba da cucinare! La mamma deve badare a Zahra e alle altre sorelle più piccole, non ha tempo per queste cose! E poi, al campo, ci dividiamo le cose da mangiare, tutto è di tutti: se a qualcuno manca qualche cosa, va da chi ce l’ha e se la fa dare! Ma perché mi fai queste domande, Philippe? Qui al centro non si fa così?”.
In quel momento l’avrei voluta abbracciare, sul serio: l’innocenza e la gioia di Chloe nel raccontare le abitudini in cui era cresciuta, mi lasciavano senza parole.
Non si poteva definire una bambina come gli altri ospiti, sia fisicamente che caratterialmente: di corporatura era terribilmente magra ed ossuta, con quei capelli scuri, lunghi e sottili come spaghetti, gli occhi neri troppo grandi in quel viso dai riflessi olivastri.
Mi aveva subito conquistato con il suo meraviglioso sorriso, la bocca carnosa per una signorina della sua età, i denti irregolari e dallo smalto un po’ sbiadito, un neo dai contorni irregolari sul sopracciglio sinistro.
“Beh, qui non funziona proprio così, Chloe” le spiegai sorridendo, sebbene mi sentissi invadere da una certa dose di imbarazzo “ la vita al centro non è come quella che conducevi al campo. Però non sarà peggiore, te lo prometto” continuai, appoggiandomi la destra  cuore.
“Perché hai fatto così? Cosa vuol dire?” domandò incuriosita, ripetendo il gesto che avevo appena compiuto.
“Si porta la mano qui, in questo punto, quando ci s’impegna a fare qualcosa per una persona, nello stesso modo in cui ti ho promesso che qui starai bene, che non ti mancherà nulla …”
“Ma a me manca già qualcosa, Philippe. Io voglio tornare a casa, dalla mamma, dai miei fratelli, dal papà. Tu mi porterai da loro?”
Rimasi spiazzato dalla richiesta che mi aveva formulato: il centro non è sicuramente un albergo, però si preoccupa di accogliere bambini e ragazzi in difficoltà, molti dei quali sono costretti a vivere all’ “Arcenciel” per chissà quanto tempo, mentre altri – pochi in effetti- vengono da noi solo di pomeriggio, dopo le lezioni scolastiche, perché a casa non hanno nessuno fino a tarda sera, così li aiutiamo a fare i compiti e, spesso, offriamo loro anche la cena.
Quando l’assistente sociale aveva portato Chloe e, insieme a Madame Berancourt, avevamo discusso su come comportarci nei confronti della nuova arrivata, eravamo tutti d’accordo che la bambina sarebbe appartenuta alla prima “categoria”, dal momento che i suoi genitori avevano momentaneamente perso la patria potestà su di lei e i fratelli, fintanto che non avessero trovato un impiego a tempo indeterminato.
Questo, ovviamente, Chloe non lo sapeva, però dal colloquio che potevo dichiarare concluso, non era emerso nessun particolare agghiacciante sulla condotta che impiegavano il padre e la madre nei confronti della prole: non c’erano segni di violenza sul corpo della piccola, le condizioni di salute erano discrete -se non si contavano la scabbia e le zecche da cui era stata disinfestata, certo-, avrebbe recuperato peso e altezza con una corretta e regolare alimentazione, così come il problema della mancata frequentazione scolastica sarebbe stato fin dal giorno successivo prontamente supplito; forse, se avessi chiesto un appuntamento con l’assistente sociale e la polizia che aveva riaccompagnato Chloe dal supermercato al campo, sarei riuscito ad ottenere almeno un incontro a settimana tra la bambina e la sua famiglia.
Mi venne in mente che anche i fratelli e le sorelle erano stati sparpagliati nei vari centri d’accoglienza limitrofi, i tre più grandi a Parigi e i tre più piccoli affidati a una coppia senza figli del campo, il cui marito lavorava e si era impegnato a sottoporsi a periodici controlli settimanali per verificare lo stato di salute fisico e mentale dei piccoli, ma neppure questo potevo dirle.
“Devo chiedere a quella signora che ti ha portato qui da noi, l’altro giorno. Se lei mi dirà di sì, allora potrai vederli! Però, purtroppo, non puoi vivere con loro, non ancora, Chloe. Prima i tuoi genitori devono trovare un lavoro e devono promettere che ti manderanno a scuola, perché sono due cose molto importanti: tutti i bambini devono mangiare e studiare, altrimenti non potranno crescere forti e sani. Capisci quello che voglio dire? Lo so che non è bello stare lontano da chi ti vuole bene, però tu sei più importante della vita al campo. E poi, devi pensare che non sarà per sempre ... ”
Le sfiorai con delicatezza una mano, cercando di sorriderle per farle capire che quel discorso complicato era solo per il suo bene.
“Non m’importa se dovrò stare qui con voi, l’importante è poter vedere la mamma e tutti gli altri. Anche solo per un po’, però io voglio vederli, perché mi mancano tanto …”
Chloe cominciò a singhiozzare e poi a piangere: mi sentivo uno stupido, un imbecille, perché il mio ultimo desiderio era quello di ridurla in quello stato, di farla stare male.
“Ti prego, non fare così” alzandomi dalla sedia, mi inginocchiai e l’abbracciai, cercando di consolarla:
“Ricordati quello che ti ho promesso, Chloe: qui vivrai bene, ci occuperemo di te come facciamo con gli altri bambini. Anzi, prometto che ti porterò dai tuoi genitori e dai tuoi fratelli, il prima possibile …”
Lei ricambiò la mia stretta affettuosa e, staccandosi lentamente, si asciugò gli occhi innacquati con il dorso delle mani.
“Va bene …” annuì  “credo alla tua promessa, Philippe”

La gita autunnale di sei mesi fa, indimenticabile nonostante la pioggia e le curve che destabilizzarono Madame Betancourt, mi ha riportato alla memoria l’incontro con la piccola Chloe, forse per il disegno della campagna che aveva realizzato, una campagna immensa e "gialla”, come l’aveva definita, con stormi di uccelli che gracchiavano, forse alla ricerca di cibo come lo era lei, quando viveva nel campo e chiedeva l’elemosina alle uscite dei supermercati e agli ingressi dei mercati rionali.
A me, in quanto Philippe uomo e non psicologo, invece, quella splendida giornata mi ha ricordato la mia infanzia a Rouge, allegra e spensierata, le ore trascorse nel bosco e i picnic a mangiare le baguette ripiene di maionese, pomodori, lattuga e tonno, insieme a Luca, Alberto e Matteo.
I ricordi sono la cosa più preziosa che abbiamo: cerchiamo di custodirli gelosamente, al riparo dagli estranei e dall’oblio del tempo che potrebbero danneggiarli irrimediabilmente.
Però sono anche la cosa più fragilmente emotiva che possediamo, pericolosi quanto preziosi, ci fanno paura e ci intristiscono, rimanendo lì, indelebili per sempre, piccoli o grandi che siano, timidi o ingombranti che si rivelino, perché i ricordi sono parte della nostra esistenza, sono semplicemente noi stessi.
E, per questo, non possiamo cancellarli.
 


NOTA DELL'AUTRICE:

Il test di Corman o Disegno della famiglia, è stato presentato per la prima volta alla fine degli anni Sessanta.
Viene sottoposto in psicologia ai bambini dai 5 ai 15 anni per capire, in base alle forme, agli spazi e ai colori utilizzati, le reali dinamiche famigliari in caso di rapporti conflittuali, quali ad esempio separazioni e divorzi, evidenziando le eventuali problematiche che potrebbero danneggiare la loro psiche e crescita emotiva.
Nel capitolo e in questa nota, ho molto semplificato il tutto, però spero di avervi incuriosito a tale proposito!
Grazie come sempre a chi legge e a chi commenta!
Spero che questi flashback che caratterizzano il racconto vi piacciano!
A presto e scusate per la lunghezza del capitolo!
   
 
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