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Autore: Virgyl Item    10/05/2015    5 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                      NOVEMBER

                              ***
Canzone: Mirrors -Justin Timberlake.

CAPITOLO TERZO.

"Allora. Come ti è sembrato questo primo giorno alla Redflame, Gerard?".
"Uno schifo".
"Non essere prevenuto. Hai incontrato nuovi amici?".
"No".
"Insieme a chi hai pranzato?".
"Bob e qualcun'altro".
"Chi è Bob?".
"Il mio compagno di banco".
"Allora puoi ritenerlo tuo amico".
"No".
"Smettila di negarlo".
"E lei la smetta di farmi il suo fottuto interrogatorio ogni volta".
Patter sbuffa, gettando su un angolo della scrivania un pezzo di plastica verde che conteneva una disgustosa caramella alla menta.
"Se non parli non posso aiutarti", continua a cantilenarmi muovendo ritmicamente il collo, e dando l'idea di essere affetto dal morbo di Parkinson.
"Nessuno le ha chiesto di aiutarmi", controbatto sbadigliando.
Dopo la vicenda del bagno mia mamma ha deciso di farmi davvero continuare le sedute con lo psicologo.
Non riesco a capire se lo faccia per punizione di una qualche cosa o per puro odio nei miei confronti.
"Cosa c'era dietro la porta?", sputa dopo un po' Patter, facendomi sobbalzare.
Mi alzo immediatamente dalla poltrona nera, puntandogli un dito contro.
"Questo non le riguarda!", sto quasi urlando.
"Parlane con me, Gerard, ti sentirai meglio!", cerca di convincermi.
Si alza anche lui, venendomi incontro.
"Mi sentirei meglio se tutto questo non fosse successo", ringhio, indietreggiando di qualche passo.
Il Dottore si sfila gli occhiali da vista, massaggiandosi con cura gli occhi stanchi.
Poi si passa una mano sui corti capelli corvini, e sospira pesantemente.
"Qualcuno di tormenta, Gerard?", chiede spazientito improvvisando una specie di sorriso triste.
Scuoto la testa.
"I professori non ti piacciono?", insiste.
"Niente. Che. La riguarda.", ripeto scandendo al meglio le parole.
"Di cosa vuoi parlare, allora?", dice risedendosi dietro la scrivania, e afferrando un quaderno. 
La sua voce è nauseante.
"Voglio parlare del fatto che io non ho bisogno di un FOTTUTO PSICOLOGO!", gli strillo in faccia, chinandomi sul bordo del tavolo di legno.
Lui mi guarda dal basso con un espressione tranquilla.
Poi comincia a muovere delicatamente la testa da destra verso sinistra in segno di negazione.
Lo osservo sospettoso.
"Che tipo è Bob?", domanda con voce pacata.
Grugnisco rumorosamente.
Sto perdendo la pazienza.
La sto perdendo.
Davvero.
Focalizzo il mio sguardo arcigno su Patter, che peró non sembra esserne troppo turbato.
Inizia a fissarmi anche lui.
Si schiarisce la voce.
Stringo i denti.
Stringo anche i pugni.
Patter tossisce.
Rimango impassibile.
Respiro.
Momento di tensione.
"E cosa mi dici della tua classe?".
 E mi getto sulla sua scrivania, facendo cadere tutte le sue inuili scartoffie da strizzacervelli.
L'uomo si alza scattante, cercando inutilmente di fermarmi.
"Gerard! Calmati!", urla, con un'espressione allibita in viso, mentre io scaravento sul pavimento un saggio sulla Pedagogia, strappandone alcune pagine.
Terribile.
Senza darmi il tempo di reagire, lo vedo avvicinarsi, e afferrarmi con fermezza entrambe le spalle.
"Mi lasci andare!", urlo.
Ma lui non sembra cedere.
"Gerard, devi ascoltarmi! Parlane con me, risolveremo tutto!".
Grugnisco, cercando di liberarmi dalla sua presa.
"Io posso aiutarti. E Dio ci accompagnerà in questo percorso!", insiste.
Sgrano gli occhi.
Spalanco la bocca.
Stringo le dita della mano destra fino a graffiarmi la pelle.
Un balzo e un rumore sordo, Patter si ritrova in terra agonizzante con il sangue che scorre copiosamente da una narice.

Osservo la mia mano grondante del liquido rossastro, mordendomi un labbro per alleviare il dolore.
Non pensavo che dare un cazzotto potesse fare cosí male.
E invece sì, fa male.
Cazzo se fa male.
Ma soprattutto non pensavo di poter stendere un uomo con un solo gesto.
Le soluzioni sono due.
O sono un supereroe incapace di contenere la mia forza, o Patter è fatto di burro.
Ma ammetto che entrambe non mi convincono completamente.
Dedico un ultimo sguardo allo psicologo, impegnato a rialzarsi lentamente tamponandosi il naso, prima di lasciare la stanza deglutendo.
No, aspettate.
Ritorno indietro.
"Avanti, provi ad invocare il suo Dio. Magari viene a soccorrerla.", esclamo dietro ad un ghigno che trasmette una certa cattiveria.
Patter geme dal dolore, e io mi allontano correndo.

Il pavimento lucido dell'ospedale non agevola affatto i miei movimenti.
Sono costretto a farmi forza con le pareti che mi circondano, per evitare di scivolare in terra.
Riesco comunque a mantenere un passo veloce, e in men che non si dica mi ritrovo catapultato all'uscita del reparto Psichiatrico.
Mi accascio in un angolo, respirando affannosamente e cercando di ristabilizzare il battito cardiaco.
Correre negli ospedali dovrebbe diventare uno sport.
Con un mano mi scosto una ciocca di capelli dal viso, e senza un apparente motivo, sorrido.
Per la prima volta, sono uscito dallo studio di Patter prima che la seduta fosse finita.
Probabilmente mia madre mi segregherà in casa legato ed imbavagliato, ma credetemi, ne è valsa la pena.
No, non mi sento un ribelle.
Mi sento un ragazzo di sedici anni.
Nient'altro.

E sono pronto per alzarmi da quest'enorme fosso che mi ancora alla piccolezza di un mondo troppo semplice.

Mi sollevo lentamente, stirandomi un po'le gambe, e sbadigliando sonoramente -senza chiaramente preoccuparmi di coprirmi la bocca.
A cosa servirebbe coprirsi?
Tutti sbadigliano. 
Tutti sanno come funziona.
Nessuno dovrebbe scandalizzarsi per uno sbadiglio.
Sghignazzo e riprendo a camminare.

Ogni passo segna per me come un piccolo tassello di un gioco.
Un tassello in piú, un pensiero in meno.
E come in ogni gioco occorrono i dadi.
Dadi che non posso purtroppo controllare.
Cubi numerati che dominano il caso, che scelgono ció che più è giusto per noi.
Perché infondo la vita è un po' tutta così, in caduta libera.
Respiro un'altra volta, e ricomincio a correre.
 


Sto per voltare l'angolo, quando il mio sguardo cade su una porta di fronte a me.
"DR. IVAN COOPER", è inciso sulla targhetta di bronzo.
Deglutisco appena.
Ho un ricordo ben nitido di quel dottore e delle sue idee maniacali.
Ma soprattutto di quello che ne seguì dopo.
Odio quella persona.
La odio.
La odio.
Molto.
Ma nonostante questo disprezzo, ho qualcosa, dentro di me, come un presentimento, che quasi mi spinge ad aprire quella maledetta porta.
Devo controllarmi.
Socchiudo le palpebre.
E provo a superare questo insignificante ostacolo che mi si è posto davanti agli occhi.

Ma basta un attimo.
Un passo.
Un sospiro interrotto.
Un battito perso.
E mi ritrovo a spingere quella fottuta maniglia.


"Prego, ha fissato un appuntamento?", è una voce femminile ad accogliermi nello studio.
Mi guardo furtivamente intorno.
La stanza è occupata da una giovane ragazza.
Ha dei lunghi capelli castani, e due occhi verdi smeraldo.
Non riesco a vedere di piú, nel buio della stanza.
"Dov'è Cooper?", chiedo insospettito.
"Oh, capisco. Mio padre è dovuto andare urgentemente nel reparto terapia intensiva. Puó aspettare qui, se le va.", mi spiega la ragazza, che ho appena scoperto essere la figlia del dottore.
Peró, non me lo aspettavo.
"Voglio Cooper", ripeto.
Lei si alza, e mi si avvicina elegantemente.
"Le ho già detto che non è possibile vederlo, adesso", insiste.
Un faretto posto all'entrata provvede ad illuminarla, mostrando il suo giovane viso leggermente truccato.
Devo ammettere che è molto affascinante.
"Sa quando posso trovarlo?", chiedo allora, facendo riferimento a Cooper, e iniziando a fissare la punta delle mie scarpe.
Da quando sono cosí interessato ad uno psicologo?
"Immagino che fra poco dovrebbe rientrare", spiega.
Annuisco in silenzio.
Poi alzo lo sguardo, e mi imbatto nei suoi occhi chiari.
Lentamente, con gentilezza, mi focalizzo su quelli che dovrebbero essere i nostri specchi dell'anima.
Dopotutto è questo il pregio di essere come me.
Riesco ad affrontare i riflessi delle persone.

Ma il riflesso di questa donna sembra essere così...malinconico.
Vedo qualcosa brillare, qualcosa di molto acceso.
Qualcosa che luccica accompagnato da una piacevole musica, una colonna sonora di cinguettii e fishi ventosi.
Un'immagine che trasmette serenità, calma.
Infanzia.
E poi, il buio.
Un'esplosione di oscurità improvvisa.
Un ritorno alla realtà.
E un rumore assordante, irriconoscibile, interrotto da parole incomprensibili.
Infine, delle urla.
Immense, strazianti urla.
Urla umane.
Di quelle che ti spaventano.
Il rumore, il buio, le urla, si assimilano infittendosi sempre di piú.
Dolore.
Debolezza.
Tristezza.
Inerzia.
Decadenza.
Oblio.

E ad un tratto, ogni cosa si scaglia violentemente contro di me.

"No!", strillo, scuotendo la testa.
Indietreggio di qualche passo, ansimante, senza curarmi dello sguardo preoccupato formatosi sul viso della giovane.
"Tutto bene?", chiede preoccupata.
Annuisco energicamente.
Non voglio che sappia nulla su ció che ho visto.
Né lei, né nessun altro.
È un male che ci giochiamo io e la mia fottuta mente.
"Tutto bene, soltanto mal di testa", mento, ritornando alla posizione iniziale.
Lei deglutisce, per poi improvvisare un sorriso.
Non provare a mascherare il tuo sttrazio.

"Mi chiamo Jennifer", lentamente, una sottile e pallida mano si tende verso di me.
Senza esitare, la stringo.
"Gerard", dico.
Accidenti, quante volte mi sono presentato nel giro di così pochi giorni?
"Sei un paziente di mio padre?", indaga Jennifer.
Mi affretto a scuotere il capo.
"Assolutamente no", farfuglio in difesa.
E lei sorride di nuovo.
Sempre piú falsa.
"Allora, Gerard, quanti anni hai?", esclama.
"Cosa?", domando irritato.
Per quale motivo tutti vogliono sapere la mia età? L'etá è una cosa PERSONALE.
"Quanti anni hai?", ripete.
"Non le deve importare", ringhio sghignazzando.
"Va bene. Io ne ho ventisette", sussurra lei avvicinandosi a me.
Faccio spallucce, ed entro definitivamente nello studio.
Di fronte a me si materializzano una scrivania in legno e un'enorme libreria di ferro battuto.
Le pareti che ci circondano sono state dipinte seguendo diverse fantasie, alcune tendenti a quadri orientali, o roba simile.
Il soffitto sembra inesistente, scuro come la notte, trasparente come l'anima.
La flebile luce che illumina parzialmente la stanza deriva da una minuscola lampada a muro posta infondo.
Cose che soltanto uno come Cooper avrebbe potuto mettere in uno studio.

"Vuoi sapere qualcosa in particolare da mio padre?", chiede poi ad un tratto Jennifer, facendomi voltare verso il suo viso pallido.
"No. Solo un saluto", rispondo annuendo.
Lei si esibisce in un timido sorriso, sfilando dalla tasca dei jeans un telefono, e scrivendo qualcosa a qualcuno.
Ne approfitto per sbadigliare, e dondolare sui talloni.
Cooper si sta facendo attendere da troppo tempo.
Sono stanco.
Basta.
Me ne vado.
Conto fino a dieci e scappo via.
Mi schiarisco la voce, poi inizio mentalmente a contare.
UNO.
DUE...TRE.
QUATTRO.
CINQ-
Come se mi avesse ascoltato, la porta si spalanca, consentendo l'accesso ad un uomo alto e robusto, che ahimé, conosco bene.
"Jennifer?", esclama interrogativo Cooper, senza staccare peró gli occhi da me, che tranquillo me ne sto in equilibrio fra una poltrona e il bordo della scrivania.
"Papà! Questo ragazzo ti cercava", spiega la ragazza, provvedendo immediatamente a riporre il cellulare.
L'uomo annuisce, e le fa segno di uscire.
Quando Jennifer abbandona la stanza, una leggera onda fredda si infrange sul mio cuore.

"Chi si rivede", ridacchia compiaciuto Cooper, non appena si assicura che la figlia se n'è andata.
"Già", scandisco, grattandomi nervosamente il collo.
È un punto molto strano, nel mio corpo.
Quando sono in ansia, per qualunque cosa, le mie dita si avvinghiano alla parte sinistra del mio collo, e lo assalgono ferocemente.
Non riesco a controllare nulla di tutto ciò.
E questo mi preoccupa.
"Come va?", chiede il dottore, prendendo posto dietro il tavolo in legno, e indicandomi la poltrona di fronte per farmi accomodare.
Ubbidisco, sedendomi, e facendo spallucce in risposta alla sua domanda.
"E il tuo parente?", indaga poi, chinandosi leggermente in avanti, e facendo scorrere in basso gli occhiali da vista.
"Parente?", rispondo confuso.
"Bhè, mi hai detto che hai un parente nel reparto Psich-"
"Oh sì, ma certo, mio cugino", lo interrompo, non appena capisco a cosa di riferisce.
Mi ero completamente dimenticato della bugia che gli avevo raccontato per deviare i suoi sospetti.
Lui sa che il paziente è un mio parente, non io.
"Sta bene?", insiste Cooper.
"SÌ!", strillo io.
Basta parlarne.
Basta.
"Va bene. Ti serve qualcosa da me?".
"Ehm-no. Dove è stato fin ora? Sa che lasciare incustodito lo studio mentre va a divertirsi potrebbe portarle dei problemi?", invento.
Il dottore sghignazza divertito, per poi iniziare a parlare:
"Il mio studio era sotto osservazioni di  Jennifer, e no, non ero affatto andato a divertirmi".
Aspetta.
Jennifer.
Perché ha detto soltanto 'Jennifer' e non 'mia figlia Jennifer'? Insomma, non era detto che ci fossimo presentati.
Jennifer potrebbe essere chiunque.
Ha sicuramente dato per scontato il fatto che ci fossimo stretti le mani.
Il dottore si fida un po' troppo di me.
"Problemi?", domando disinteressato.
"Uhm-sì. Una persona a cui voglio bene sta male", spiega, lo sguardo impassibile.
Deglutisco appena.
"Davvero?", insisto.
Lui annuisce, lasciando a me l'onore di immaginare cosa sia successo.
"Quanto male?", esclamo dopo pochi secondi.
Cooper solleva entrambe le spalle, per poi aggiungere,
"Molto".
Deglutisco di nuovo.
La mia mano va a strusciarsi freneticamente sul tessuto dei miei jeans, scaldandoli, e dando l'idea di un principio di incendio sulla mia gamba.
"C'è qualcosa che non va?", indaga Cooper guardandomi con fare sospetto.
"È malata, questa persona?", lo ignoro peró io, intromettendomi in fatti che non mi dovrebbero riguardare.
"Sì.", decreta seccamente il dottore.
"Nessuno ha mai fatto del male a questa persona?", puntualizzo, lasciando da parte ogni forma di educazione.
Cooper si schiarisce la voce, per poi aggiungere,
"Non mi sembra il caso di-",
"Mi risponda", insisto, senza smettere di muovere la mano, e portando l'altra dritta al collo.
"Sì. Le hanno fatto del male", dice, abbassando per la prima volta lo sguardo.
"Fisico?", oramai la Privacy non mi spaventa più.
"Basta", chiarisce secco lui.
"Le ho detto di rispondermi".
"No"
"Mi risponda, subito"
Silenzio.
"Lo faccia!", alzo notevolmente il volume del mio tono.
"Fisico, morale, ogni tipo di male. Ma adesso, ti prego, smettila!", urla irritato, alzandosi con uno scatto dalla sedia girevole, facendo leva, e spostandola così alle sue spalle.
Indietreggio di qualche passo.
"È riuscito a salvarla?", la mia voce è diventata un sottile e acuto lamento, e i miei occhi sono spalancati.
Cooper si ricompone al posto inziale, sistemando fogli casuali con l'aiuto delle mani tremanti.
Stavolta non risponde.
E anche io me ne sto zitto.

"Salvare le persone è un male?", domanda poi dopo un po', recuperando tutta la calma persa poco fa.
Stringo con forza i denti e le palpebre.
"Un grande male", rispondo poi, riaprendo gli occhi iniettati di sangue.
"Perché?", indaga Cooper, dedicandomi un triste sguardo.
Io peró distolgo il mio, folcalizzandolo su un oggetto abbastanza lontano da me, che sembra possedere la forma di un vaso.
"Hm?", insiste il dottore, attendendo una risposta valida che possa giustificare la mia terribile reazione.
Inizio a mordicchiarmi l'interno del labbro inferiore, e tramutando la mia espressione arcigna in un vero specchio di terrore.
"Io...", provo a spiegare, interrompendomi immediatamente per colpa di un enorme nodo in gola.
Ho paura di parlare, di dire ogni cosa.
Chiudo nuovamente gli occhi, muovendo ritimicamente una gamba, poggiando i gomiti sui braccioli della sedia, e incrociando le dita delle mani in un tocco caldo e sudato.
Il mio cuore sembra chiedere disperatamente aiuto, sembra voler sfondare il petto da un momento all'altro.
E improvvisamente, il freddo. 
Un freddo invernale, accompagnato da un' inquietante musica sognante e leggera.
Ed ecco che tutto si avvicina lentamente.
Serenamente.
La musica che mi pervade i timpani, i brividi che si impossessano della mia pelle diafana.
Sento che sta arrivando la fine.
La fine di un qualcosa mai iniziato.
Mi preparo ad un implosione di sensazioni che il mio fisico adolescente non sarà in grado di gestire.

"E va bene. Risponderó io per te.
Sai cosa voglio dirti? Che aiutare è l'atto più bello che un uomo possa compiere. Un aiuto è una porta chiusa perennemente a chiave, il cui lucchetto puó essere aperto soltanto da chi lo vuole davvero.
E se anche tu provassi ad aprirla, una porta, ti sentiresti molto bene, ragazzo", dice cauto  un Cooper soddisfatto, accomodandosi meglio sulla poltrona scura che lo sorregge.
E io, invece, scatto in piedi.
Gli occhi sono spalancati, le pupille ridotte a due punti neri.
"NO! No, dannazione, no! Smettetela di ripetermelo! Le porte devono restare chiuse! E anche quella, sì. Non doveva essere aperta... No!", urlo, con tutta la forza che riesco a raccimolare.
"Ragazzo, guardami. Spiegami cosa succede", Cooper si avvicina preoccupato a me, guardandomi con uno sguardo terrorizzato e al tempostesso incuriosito, che immediatamente ricambio.
"Avanti, parla", mi incita, chinandosi, e poggiando le mani sulle mie spalle.

Ma le mie ginocchia cedono, e con un rumoroso tonfo atterro dolorosamente sul pavimento.
Bastano altri pochi secondi, che i miei occhi esplodono in miliardi di bollenti e interminabili lacrime.
E non faccio nulla per impedirlo.

Improvvisamente, mi ritrovo coinvolto in un abbrraccio potente e forzato, percependo delle mani accarezzarmi la nuca.
"Mi lasci!", urlo, liberandomi dalla stretta presa delle grosse braccia del dottore.
Lui ubbidisce, lasciandomi cadere nel vuoto di quest' apparente solitudine che mi assilla, isnsieme alla solita musica, diventata oramai troppo potente.
"Basta, basta, basta!", mi copro inutilmente le orecchie con entrambe le mani, strizzando le palpebre e scuotendo la testa.
"Fermate questa musica", imploro ansimante.
"Cerca di calmarti!", insiste Cooper scoprendomi la fronte con due dita.
Ma il ritmo nauseante della melodia esplode in un tono ancora maggiore, eclissandomi dalla vita reale, e rinchiudendomi in una bolla di dolore.
Sento lo stomaco fare un paio di capriole, e i polmoni gonfiarsi a tal punto da provocarmi fitte allucinanti al petto.
Il mio pianto liberatorio continua peró imperterrito, trascinandosi dietro questa musica che non esiste.
È un insieme di note senza nome, prodotte da stumenti inesistenti, che mi entrano dentro con violenza inaudita.
È terribile.
È terribile sentire una musica insesistente.

Ma un'improvviso colpo al cuore, mi fa capire di cosa si tratta.
Questa è la colonna sonora che accompagna la mia vita.
È la trama di una storia che sto seguendo da ormai tempo.
E accidenti, è troppo tardi per riscriverla.

In un attimo, tutto mi abbandona, e cado a terra come un corpo morto.
Ma sfortunatamente, sono vivo, sano, e dannatamente sveglio.

Una mano si tende verso di me, e in poco tempo mi ritrovo seduto di fronte ad un Cooper tutt'altro che tranquillo.
Lo vedo sospirare.
Poi, mi guarda.
"Cosa c'era là dietro?", chiede quasi comprensivo.
Finisco di asciugarmi le ultime lacrime con il polsino della felpa, che subito dopo faccio passare dalla punta del naso arrossato.
Anche io sono costretto a prendere un bel respiro, prima di rispondere.
"Un ragazzo. C'era un ragazzo.".
E questa volta, mi tuffo fra le braccia aperte del dottore.

***

"Sei pronto?".
Mi limito a scuotere la testa.
Cooper sbuffa irritato.
Sono minuti che ci troviamo davanti all'entrata di una stanza in cui non ho il coraggio di entrare.
"Hai paura?", domanda.
"No!", provvedo immediatamente a rispondere.
"E allora apria la porta e vai", mi incita, poggiandomi una mano sulla schiena, e spingendomi verso la maniglia dorata.
"Aspetta! Un attimo...", lo blocco io, rimediando uno sguardo stanco e annoiato da parte sua.
"E se non volesse?", insisto.
"Non volesse cosa?".
"Vedermi", spiego scoraggiato, abbassando lo sguardo.
"Smettila, ragazzo. Respira ed entra. Io ho una seduta, adesso, e sono costretto ad andarmene.", mi afferra per entrambe le spalle.
"Promettimi che lo farai.", conclude, prima di lanciarmi un ultimo sguardo fiducioso, ed allontanarsi attraverso il corridoio.
Lo seguo con gli occhi di chi attende un segnale, uno qualunque, fiché non lo vedo scomparire dietro l'angolo di una parete.
E capisco che adesso, tocca a me.
Stringi i pugni, Gerard.
La porta ti aspetta.

Entro nella stanza limitandomi a fare una leggera pressione sulla porta, già leggermente socchiusa.
Un ambiente freddo e silenzioso si materializza davanti a me, ai miei occhi rigidi, e ai miei capelli disordinati.
Ci sono due lettini, uno a destra e uno a sinistra, accompagnati lateralmente da due comodini gialli canarino.
Il giallo canarino riesce sempre a stonare, in qualunque situazione.
Ecco perché non mi vestirei mai di giallo canarino.
Stonerei troppo nella melodia che accompagna la mia vita di tutti giorni -anche se devo ammettere che non si è rilevata così piacevole-

Le mattonelle che calpesto sono bianche e lucide, raramente sporcate da orme scure di scarpe decisamente piú grandi delle mie.
Infondo alla parete, una grande finestra delineata da un'orribile cornice stile Liberty fa capolino dietro da uno dei due lettini -lettini che rendono il posto ancora piú triste e deprimente.
Ed è lí che lo vedo.

Un rigonfiamento spunta dal lenzuolo che ricopre il materasso, e una chioma scura si nasconde dentro la morbidezza dell'enorme cuscino celeste.
Sembrerebbe un cadavere di una bestia appena uccisa, se non fosse per il fatto che respira e che no, gli animali non hanno le mani.
Infatti, cinque pallide dita fuoriescono dall'involucro di stoffa bianca, lasciandomi capire chi davvero si nasconde lì sotto.
Con fare indifferente, mi avvicino al lettino.
Il silenzio è talmente soffocante, che sono sicuro di riuscire a sentire ogni sigolo battito del mio cuore.
E perché no, anche di quella persona che se ne sta lì, beata, immersa in una nuvola di soffici lenzuola ospedaliere.
Avanzando, mi accorgo che l'ospite è steso in posizione fetale, con le ginocchia poggiate al petto e un braccio allontanato dal resto del corpo, penzoloni sul bordo.
Devo amettere che è una scena abbastanza inquietante.

Con un colpo di tosse, mi schiarisco la voce, rimediando un sussulto da parte del lettino.
"Scusa il disturbo", sussurro, chinandomi.
Cerco comunque di mantenere una certa distanza.
Mai fidarsi di un letto che respira.
Non ottengo nessuna risposta.
"Ciao", scandisco, deglutendo ed inspirando con alternanza.
Ancora silenzio.
Poi un piccolo movimento della sua mano.
E ancora silenzio.
"Ehi", esclamo, insistendo.
"Ehi tu", ripeto.
Mi sento un perfetto idiota.
Forse perché sto parlando con una specie di morto, o forse perché il giallo canarino delle pareti rende tutti un po' confusi.

La situazione si sta rivelando più grave di quanto immaginassi, e l'attesa di una qualunque risposta è diventata troppo lunga.

I palmi delle mie mani iniziano a sudare vistosamente, e sono costretto ad asciugarmele sul tessuto dei jeans, prima di prendere un respiro profondo e azzardare qualcosa di più.
Con due dita, mi allungo verso il lenzuolo, ne afferro un lembo, e senza pensarci troppo, lo tiro verso di me.

Ció che accade dopo è molto insolito.
La scura chioma iniziale si alza di scatto, trascinandosi con sé due braccia scoperte, e riportandosi indietro il suo prezioso lenzuolo.
Con la stessa velocità, mi alzo dal letto, indietreggiando anche di qualche passo.
"Vattene", esclama poi una voce roca e sottile.
"Io-", provo a spiegarmi meglio, deglutendo, ma venendo nuovamente interrotto dalla stessa voce:
"Va' via".
Mi guardo intorno con una certa esitazione.
Mi sento offeso.
"Perché?", chiedo di rimando.
Stavolta nessuno risponde.
Mi avvicino di nuovo al materasso.
"Insomma, mi vuoi rispondere?", insisto arrabbiato.
E il corpo che sembrava essere inanimato, scatta in avanti per la seconda volta.
Ma senza preoccuparsi dell'assenza del lenzuolo.

Velocemente mi ritiro indietro, sgranando leggermente gli occhi.
Un viso pallidissimo, e chiazzato da alcuni lvidi violacei, si fa spazio davanti a me, costringendomi a prendere qualche centimetro di distanza.
"Ti sembro in grado di rispondere?", esclama, stringendo le palpebre, e scostandosi un ciuffo di capelli corvini dall'occhio destro.
Involontariamente, lo imito, passandomi una mano dalla chioma nera che mi ricopre, e cercando si vederci più chiaro.
Lo osservo guardarmi con aria irritata e confusa.
Sebbene il gonfiore, posso facilmente intravedere due occhi chiari e spenti, privati di una luce troppo bella per poter essere stata reale.
Perché è ridotto così?
Ho paura di chiederglielo.
Ho paura di avventurarmi in foreste troppo pericolose per uno che come me ha già abbastanza problemi da risolvere.
E inoltre, sento che non c'è bisogno di parlare.
Così, mi limito a sedermi sul bordo del suo materasso.
"Che cazzo fai?", domanda il ragazzo disgustato.
Gli allungo una mano.
"Il mio nome è Gerard", sussurro, lasciando che la mia voce trasmetta un certo timore.
Poi chiudo gli occhi.
Nessun movimento.
Accidenti.
Non avrei dovuto.
Maledizione.
Va bene, adesso ritiro tutto e scappo da questo posto di mostri.
Faccio fuori i due psicologi e mi rifugio in un bosco.
Ma le mie fantasie ribelli vengono interrotte da una fredda sensazione al braccio.
"Frank", mormora il ragazzo, stringendomi delicatamente la mano.
Improvvisamente non percepisco più nessuna rabbia nel suo tono.
Apro gli occhi.
Il ragazzino accenna un flebile sorriso.
Un BEL sorriso.
Deglutisco appena, per poi fare lo stesso.
In pochi attimi, il nostro contatto si trasforma in qualcosa di strano.
Come poco fa è successo con Jennifer, i miei occhi si vanno a scontrare con i suoi, tristi e pieni di luci rinchiuse dentro un opaco schermo tendente al verde.
Così opaco, da diventare impenetrabile.
Per la prima volta, non riesco a superare lo specchio che mi divide dai pensieri di una persona.

E così, con un colpo secco, mi alzo dal letto.
Frank mi guarda stranito.
"T-tutto bene?", balbetta.
Il crattere duro di prima sembra averlo abbandonato definitivamente.
Annuisco energicamente.
"Devo andare", esclamo poi, iniziando ad allonatanarmi lentamente.
Il ragazzo perde anche l'ultimo spiraglio di felicità che il suo viso aveva assunto.
Lo vedo deglutire.
Mi fermo un attimo, prima di guardarlo.
"Mi dispiace", sussurro.
La sua espressione si fa sempre più confusa.
"Dovevo lasciare chiusa quella porta", esordisco tremando.
Lo noto irrigidirsi tutto ad un tratto.
"Scusa", concludo, prima di voltarmi completamente e correre fuori, nel corridoio, fino ad arrivare alla porta principale dell'ospedale.

Mi catapulto all'uscita, sforzandomi di arrivare al cortile di fronte, per poi accasciarmi stancamente sul prato.
Mi ritrovo a fissare il cielo puntellato da candide e leggere nuvole.
Anche io vorrei essere una nuvola, oggi.
E domani.
E domani ancora.
E il prossimo mese, il prossimo anno, secolo, millennio.
Vorrei volare nell'universo per sempre.
E lasciare cadere ogni pensiero al di sotto del mio corpo fluttuante.
Vorrei che i miei occhi non riuscissero a perforare le anime di chi mi circonda, vorrei essere un comune e superficiale ragazzo.
Vorrei non aver aperto quella porta, non aver visto Frank e non essere riuscito a guardarlo dentro, come succede sempre.
Non sono un ragazzo come tutti.
Io riesco a scavare nel cuore di ognuno.
Ma non stavolta.
E accidenti, sono spaventato da questo.
Frank è riuscito a farmi sembrare un ragazzo normale.
Un sedicenne senza virtù troppo particolari.
Per la prima volta, non mi sono sentito nessuno.
Semplicemente, io.

*~*~*~*~*~*~*~*~*~*

Buondì.
Dunque, so che sono passati un bel po' di giorni dall' ultima pubblicazione, e so anche di aver scritto un capitolo più corto dei precedenti e decisamente più noioso.
Ma, ahimé, ho passato un periodo abbastanza brutto, da cui devo ancora riprendermi del tutto.
Ho scritto questo terzo capitolo con un peso sulla coscienza che non sono riuscita a spostare.
E so che voi lettori ve ne accorgete leggendo, già.
Lasciando da parte depressioni e sciocchezze varie, vorrei esultare insieme a voi per l'arrivo di Frrrrrrrrannnkk.
*cori gloriosi e braccia verso il cielo*
Inoltre, spero che vi piaccia il modo con cui sto descrivendo la figura imponente e oscura di Cooper, l'ignoranza di Patter, e la perenne angoscia di Gerard -insieme a tutte le sue crisi-.
Detto questo, vi lascio poiché Francese non si studia da solo, purtroppo.
Au revoir,
Virgyl,
Ps: suggerimenti su canzoni che potrebbero essere adatte a questa storia? :p















 
   
 
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