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Autore: emotjon    11/05/2015    0 recensioni
Lui, tuono e tempesta.
Lei, emozione e disincanto.
Insieme, un accordo di corde e suoni, pelle e sensi. un melodia che vibra sulle corde del cuore.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Whitney Houston, I will always love you (Roxanne)
- Ariana Grande, Love me harder (Esme)
- Ludovico Einaudi, Indaco (Harry)
- Ne-Yo, Let me love you (Zayn)
 


 
 
6. Tesa come una corda di violino.


 
 
I capelli della ragazza sembravano brillare, sotto i raggi del sole. La luce vi si rifrangeva contro ed essi divenivano parte di essa, luce pura, emanando uno strano bagliore rosso e oro che quasi accecava chi la guardasse; allo stesso tempo però era talmente affascinante e tanto bella da non riuscire a staccarle gli occhi di dosso. E anche quando finalmente riuscivano a smettere di guardarla, quegli occhi sembravano poi trovarsi improvvisamente al buio. E tornavano su di lei e su quella luce, come calamitati da essa, calamitati da lei senza alcuna speranza di riuscire a starle lontani.
Lei fischiettava soprappensiero, dividendo i capelli rossi in tre ciocche e iniziando ad acconciarli in una treccia a spina di pesce. Quasi senza stare a pensarci, muovendo le dita e le ciocche una di seguito all'altra come fosse la cosa più naturale della terra. Chiuse la treccia con un elastico colorato che teneva al polso e se la portò su una spalla, sistemando poi la frangia sulla fronte e puntando il proprio sguardo color terra tutt'attorno a sé, alla ricerca di una testa di capelli biondi tinti e di un paio di occhi che facevano invidia al cielo da quanto erano blu.
Cercava Niall, Roxanne.
Tirava una brezza fresca, quella mattina. La ragazza si era svegliata col telefono che vibrava sulla superficie del comodino ad avvertirla dell'arrivo di un messaggio; era quasi caduta dal letto, ed era quasi scoppiata a ridere di gioia al vedere il nome del biondo comparire tra le notifiche. Poi era saltata fuori dal letto ed era quasi inciampata nei suoi stessi piedi ed era corsa a vestirsi e truccarsi cantando, fregandosene altamente di rischiare di svegliare la propria compagna di stanza. Ed era uscita saltellando e fischiettando, allegra come non mai, felice di vedere Niall come se non si vedessero da anni - e non dalla sera prima, quando l'aveva riaccompagnata in camera e l'aveva lasciata con un bacio sulla fronte.
Roxanne avrebbe voluto uno di quei baci che si vedono solo nei film o di cui si legge solo nei libri. L'aveva guardato negli occhi quasi pregandolo di baciarla, ma le cose erano due. Anzi, tre. O Niall non se n'era accorto, o l'aveva ignorata, oppure non voleva baciarla - e l'ultima delle tre era l'opzione a cui la ragazza dai capelli rossi e gli occhi neri cercava di non pensare, era l'opzione che addirittura aveva cercato di eliminare dalla propria mente, anche se senza troppo successo. Roxanne sognava le sue labbra di giorno quanto di notte, ma Niall sembrava essere solo in grado di sorridere a parlare a macchinetta in sua presenza - il che sarebbe stata un'ottima scusa per tappargli la bocca, se solo ne avesse avuto il coraggio.
Tirava una brezza fresca e leggera che si divertiva a strapparle sottili fili rossi dalla treccia e li faceva svolazzare liberi intorno a lei, facendola sbuffare e sorridere allo stesso tempo, irritata e divertita insieme dai fili di luce riflessa che le vorticavano tutto intorno al viso. E Roxanne cercava Niall, ma di Niall non c'era traccia. E cercò di trattenere il piccolo broncio deluso che sembrava volerle comparire sulle labbra tinte di rosso quasi quanto lo erano i suoi capelli. Cercò di trattenersi dal mordersi il labbro e dallo sbuffare... cantando. A bassa voce, mentre si sedeva sulla prima panchina libera e tirava su le gambe per rannicchiare le ginocchia al petto, cantando la prima canzone che le venne in mente, la canzone che sperava di cantare alla persona giusta, un giorno.
Roxanne era una di quelle ragazze abituate a sognare ad occhi aperti, che credevano nelle favole, che vivevano di cliché romantici ben oltre il consentito e che aspettavano il principe azzurro che le venisse a salvare in sella ad un cavallo bianco. Roxanne amava forte, quando si innamorava finiva per donare ogni fibra di se stessa, pur sapendo di potersi perdere, di soffrire, di spezzarsi dentro. Roxanne amava anche i difetti degli altri e continuava ad amare anche quando chi amava se ne andava; quando amava, amava per sempre.
E I will always love you era decisamente adatta.
Il ragazzo dai capelli biondi non arrivava mai in ritardo. Odiava sia aspettare che far aspettare gli altri; odiava far aspettare Roxanne, sapeva quanto poteva irritarsi, anche se sentirla sbuffare e vederla storcere il naso era davvero adorabile. E aveva il fiatone, mentre entrava nel parco dove avrebbero dovuto vedersi più di un quarto d'ora prima e si sistemava la tracolla sulla spalla. Poteva sentire una piccola goccia di sudore colargli lungo il collo, mentre continuando a camminare fermava lo sguardo in qua e in là, alla ricerca dei capelli rossi della ragazza. Un briciolo di ansia gli riempì lo stomaco; non la trovava, iniziava a pensare di aver fatto troppo tardi, o addirittura che lei gli avesse dato buca.
Poi però la vide.
A qualche metro di distanza, seduta su una panchina leggermente umida di rugiada, rannicchiataci sopra e con lo sguardo scuro perso nel prato davanti a sé, impegnato ad osservare due bambine bionde che si rincorrevano. Niall la osservò qualche secondo; registrò il modo in cui le sue mani abbracciavano le ginocchia, il leggero movimento che facevano i suoi capelli rossi nel vento o il suono lievissimo prodotto dalle sue labbra rosse, che gli arrivava addosso e gli finiva nelle orecchie come glielo stesse sussurrando alla distanza di un bacio. Registrò la sua voce e il suo respiro regolare e il modo in cui quei jeans le fasciavano le gambe.
Gli venne da sorridere al vederla baciata dal sole, al vedere quel sorriso che tanto adorava incresparle le labbra, al sentirla cantare. Niall amava la sua voce, o il modo spontaneo in cui le veniva da sorridere serena quando cantava o il modo in cui muoveva le labbra e arricciava leggermente il naso articolando ogni parola. Il suo modo di cantare lo rilassava, lo faceva sorridere, sembrava gli rendesse più semplice respirare.
Roxanne lo sentì arrivare, prima di vederlo. Ne sentì il respiro appena affannato, che in qualche modo riusciva a sovrastare senza fatica il rumore del vento e degli steli mossi da esso, arrivandole addosso come se i metri di distanza fossero in realtà solo centimetri. Ne sentì il fruscio della stoffa dei jeans mentre muoveva un passo dietro l'altro verso di lei, facendo crepitare i fili d'erba umidi della rugiada mattutina sotto le suole delle scarpe da ginnastica consumate - e in quel momento umide anch'esse, come l'erba e la panchina su cui Roxanne era seduta. Ne sentì l'odore portato dal vento e avvertì la panchina scricchiolare accanto a sé sotto al suo peso.
Smise di canticchiare mordendosi il labbro con un mezzo sorriso impossibile da fermare, prima di posare naturalmente il capo sulla sua spalla e guardarlo dal basso mentre si chinava su di lei per lasciarle un tenero bacio tra i capelli - che a quel punto erano quasi tutti sfuggiti alla freccia. «Ciao...», lo salutò la rossa in un sussurro, dimenticandosi improvvisamente del suo ritardo e concentrandosi sulle sue labbra lucide dal leggero strato di saliva che vi aveva depositato passandoci fin troppo lentamente la lingua sopra, come se quel movimento potesse far passare il nervosismo e lo rendesse improvvisamente sicuro di sé. Roxanne era concentrata sulle sue labbra, come sempre ma più del solito, perché Niall le stava tanto vicino da riuscire a malapena a respirare, tanto da sussurrare a stento un "ciao" e lottare con tutta se stessa per non arrossire, anche se senza troppo successo.
«Ciao, àlainn ["bellissima", nda]...». Il chitarrista le sorrise contro la tempia, mormorando quelle due parole e mandandole un brivido lungo la schiena mentre lei cercava di capire cosa volesse dire quella parola detta in quella lingua che non conosceva. Gli porse la mano, che lui stava cercando con lo sguardo e alla quale intrecciò automaticamente le proprie dita rovinate dalle corde della chitarra. Quella stretta contro le dita le fece dimenticare come si respirava - le fece risucchiare un mezzo respiro, che lo fece ridere, mentre con un altro bacio sulla testa stringeva la presa su di lei.
Roxanne era investita dal suo odore, dal colore delle sue iridi e dal suono della sua voce.
Investita da lui come da un treno in corsa.
Prese un respiro profondo, mentre il biondo prendeva a giocare con le sue dita, senza riuscire a comporre nessun pensiero coerente, senza poter parlare, senza riuscire a muoversi. Rilasciò il respiro stringendo la presa sulla stoffa della borsa che aveva di fianco, dall'altro lato rispetto al ragazzo. «Perché il parco?», gli chiese, allontanandosi quanto bastava per guardarlo negli occhi e vederli illuminarsi mentre non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Quella in fondo era una bella domanda, che lo fece sorridere e di riflesso fece ridacchiare lei scuotendo la testa.
«Perché mi piacciono i tuoi capelli alla luce del sole, Rox...». Perché amo il modo in cui il sole vi intreccia i propri raggi e amo come si muovono col vento; perché col sole si intravedono le lentiggini che ti ricoprono la punta del naso e la tua pelle sembra fatta di porcellana; perché alla luce del sole i tuoi occhi sono meno indecifrabili e io mi venderei l'anima al diavolo per potermi immergere in essi e capirne anche solo la minima parte. Perché la luce del sole ti rende più bella di quanto tu già non sia; perché sei uno spettacolo, ai miei occhi.
Niall avrebbe voluto avere un po' di coraggio in più e pronunciarle quelle parole, non solo pensarle. Avrebbe voluto potergliele sussurrare nell'orecchio senza balbettare e senza che gli sudassero le mani. Avrebbe voluto essere capace di prenderle il viso tra le mani e baciarle pianissimo le guance arrossate dal complimento che le aveva appena fatto. Avrebbe voluto fare ed essere tante cose, Niall, ma con lei diventava così piccolo che quasi scompariva.
Anche Roxanne avrebbe voluto essere tante cose, ma in fin dei conti era solo una ragazzina che ancora credeva al principe azzurro e passava pomeriggi interi a piangere sulla propria copia rovinata di Ragione e sentimento - e inutile dire che anche lei, con Niall, diventata talmente piccola e fragile da poter scomparire nel tempo che avrebbe impiegato a battere le ciglia. A Roxanne i capelli di Niall piacevano sempre, e le piacevano i suoi occhi blu e amava quando lo vedeva sorridere perché era talmente adorabile che l'avrebbe riempito di baci fino a non avere più sorrisi da stampargli addosso.
Arrossì ancora più forte, mentre ci pensava.
Ma ogni pensiero coerente venne spazzato via da una folata di vento più forte delle altre. Ogni pensiero venne cancellato da quella ciocca di capelli rossi che le faceva capolino davanti al viso sventolando come una bandiera sulla propria asta. Qualsiasi cosa avrebbe potuto pensare venne fatta sparire dalle dita di Niall così vicine alla pelle del suo zigomo, da quelle dita che catturarono la ciocca dispersa e giocarono con essa. Tutto venne spazzato via dal viso del biondo improvvisamente tanto vicino da non vedere altro.
Tutto scomparve, quando Niall posò le labbra sulle sue, senza pensarci troppo. L'aveva fatto abbastanza, aveva pensato, e non aveva concluso nulla. Ora aveva le labbra di Roxanne contro le proprie e poteva sentire il sapore del rossetto e quello del caffè, poteva sentire il suo respiro mischiarsi al proprio e le sue dita tra i capelli. E sentiva lei, Niall. Non sentiva nient'altro che non fosse lei. Sentiva l'attrito delle loro labbra finalmente unite e sentiva le unghie della rossa graffiargli il collo; la sentì alzarsi dalla panchina senza smettere di baciarlo e di sorridere e la sentì sedersi a cavalcioni su di lui; la sentì boccheggiare mentre le dita gli scivolano sotto il leggero maglioncino che indossava, a contatto diretto con la pelle dei suoi fianchi.
La sentì staccarsi con uno schiocco.
E si sentì bene, Niall, al vederla leccarsi le labbra per risentire il proprio sapore. Si sentì bene, quando posando la fronte su quella di lei vide i suoi occhi scuri brillare e respirò ancora la sua stessa aria, il suo stesso ossigeno. Si sentì bene, quando Roxanne gli diede un bacio sulla punta del naso e gli venne da ridere perché lei stava sorridendo ed era contagioso come la varicella, il suo sorriso.
«Sai di patatine fritte...», mormorò la rossa, ancora praticamente contro le labbra del ragazzo. Trattenne a stento una risata, ma bastava il sorriso che si poteva vedere nelle sue iridi a dimostrare quanto fosse felice in quel momento. E fece appena in tempo a prendere fiato, dopo quelle poche parole, che Niall aveva di nuovo le labbra incollate alle sue. Aveva di nuovo il suo sapore addosso, il suo odore nelle narici e il pensiero di doversi staccare per prendere fiato che quasi faceva male.
«Tu sai di me, Rox...».
Sussurro portato dal vento. Risate spontanee di un primo bacio desiderato da troppo.
E se Roxanne respirava a stento per la vicinanza con Niall, Esme avrebbe voluto dire lo stesso. Avrebbe voluto essere col violoncellista dai capelli scuri che le rubava il sonno e la ragione, avrebbe voluto respirare il suo odore anziché l'aria un po' viziata della sala di registrazione e avrebbe voluto sentire le sue dita sulla schiena, a tranquillizzarla. A volte le bastava solamente sentire la sua mano contro la propria e tutto il resto spariva... in quel momento, con le palpebre abbassate per cercare di concentrarsi e la base di una delle canzoni che avrebbe dovuto incidere nelle orecchie, avrebbe solo voluto sentire lui al proprio fianco.
Era troppo distratta per poter incidere, troppo distratta dal pensiero delle sue labbra contro le proprie o delle sue mani contro la propria pelle. Distratta dal suono che facevano le loro labbra quando si baciavano. Distratta da lui, sempre. Quel giorno più del solito. Quel giorno aveva fatto fatica ad alzarmi dal letto, a salutarlo in corridoio, a chiudersi in sala. Faticava a pensare ad altro che non fosse lui. Faticava a cantare, quando di solito era la cosa più naturale che avesse.
Distratta da una suite per violoncello che continuava a risuonarle nella mente, a darle fastidio tra un pensiero e l'altro, che continuava a vorticarle nella scatola cranica tanto da farle girare la testa. Distratta dal modo in cui lui la suonava, dal modo in cui l'archetto - anche se sfiorava le corde - sembrava sfiorare lei. Distratta dai capelli che gli sfuggivano al codino, da quegli occhi che brillavano e sembravano sprigionare musica. Distratta dai muscoli delle sue braccia che si tendevano ad ogni movimento.
E sentiva come un peso nello stomaco. Che non se ne andava, non c'era verso.
«Vuoi fare una pausa, Es?».
Persino la voce del tecnico del suono le arrivò come distorta, distante anni luce. Come fosse su una frequenza diversa dal resto del mondo e non riuscisse a capire cosa stesse accadendo all'infuori di sé. Sentiva la confusione dentro di sé, sentiva di essere distratta e sentiva la mancanza di Zayn - tanto da far fatica a respirare o anche solo a capire dove si trovasse. Sentiva se stessa e i propri pensieri che urlavano il nome del ragazzo dal quale non riusciva a staccarsi. Sentiva un vuoto al centro del petto. Sentiva la propria voce, forse, ma era lontana, come non la sentisse davvero propria, come appartenesse a qualcun altro.
Ma quando in realtà avrebbe voluto sedersi e prendere fiato, o magari chiamare Zayn solo per sentire la sua voce nelle orecchie per dieci secondi, la ragazza dai corti capelli ricci scosse la testa con l'ombra di un sorriso sulle labbra. Sollevò le palpebre e mise a fuoco il microfono davanti a sé, la pareti insonorizzate e la vetrata che la separava dal tecnico. Provò a prendere un respiro, mentre dentro di sé il pensiero delle labbra del moro schiuse contro la propria pelle la faceva letteralmente andare a fuoco.
Quando avrebbe davvero voluto cercare di riprendere il filo dei propri pensieri, fece invece l'unica cosa che sembrava in grado di fare. Anche quando si distraeva. Anche quando aveva un pensiero fisso. Esme riusciva sempre ad incanalare quel che provava nel canto. Qualsiasi cosa stesse provando, c'era sempre una canzone che le faceva sfogare tutto nel microfono.
In quel caso, era puro desiderio.
«Mandami Love me harder, John».
Prese un respiro profondo, al sentire le prime note risuonarle nelle orecchie attraverso le cuffie. Prese un respiro più profondo. Ma, mentre chiunque altro avrebbe fatto di tutto per scacciare i pensieri, Esme con quel respiro e con quella canzone sembrava intenzionata a fare tutto il contrario; mentre chiunque altro avrebbe voluto smettere di pensarci, Esme voleva che il pensiero di Zayn - di ogni briciola di lui - la permeasse da capo a piedi, voleva che lui e i suoi occhi e il suo sorriso riempissero ogni fessura provocata dall'assurda mancanza che ne sentiva.
Riempiendosi di lui e di quella mancanza e dello spettro delle sue labbra contro le proprie, avrebbe cantato alla perfezione la propria confusione, la frustrazione. Riempiendosene se ne sarebbe liberata, anche se detto in quel modo sembrava solo il peggiore dei controsensi. Respirando quella mancanza a pieni polmoni avrebbe potuto cantare tutto quel desiderio che le corrodeva lo stomaco, l'avrebbe fatto scivolare via e avrebbe respirato libera - magari avrebbe rubato l'ossigeno a Zayn, baciandolo, era proprio quello che sperava.
E quella canzone, anche se non era esattamente il suo genere, la estraniava dal resto del mondo. Esme chiudeva gli occhi e a quel punto esisteva solo la musica. Chiudeva gli occhi e compariva il volto di Zayn e quelle parole appena sussurrate sembravano fatte apposta per arrivare a lui - attraversando cuori spezzati e pareti insonorizzate come se nulla fosse. Stringeva il microfono e la confusione sembrava sparire all'improvviso, così com'era arrivata. E giocava coi ricci soprappensiero, quasi senza accorgersi di star cantando meglio di quanto non fosse riuscita a fare tutta la giornata.
Perse un respiro, proprio come diceva la canzone, immaginando che fosse lui a rubarglielo e a farlo proprio. Lo risucchiò nei polmoni facendo finta che lui la stesse sfiorando, immaginando come sarebbe stato cantarla a lui, vedere la sua espressione e magari il suo sorriso, osservarlo leccarsi le labbra mentre muoveva appena i fianchi e sussurrava, più che cantare a voce piena. Prese un respiro e si ritrovò a trattenere una risata divertita, a quei pensieri di cui si stava davvero riempiendo, senza riuscire né provare a fermarli.
Si morse il labbro proprio come diceva la canzone, sorridendo. Sperando forse che qualcuno la vedesse. Sperando di dimostrare che stava riuscendo a scacciare i demoni e sorridere e cantare come sempre nonostante le tonnellate di pensieri che le riempievano la mente. Si morse il labbro, ma non sentì la porta aprirsi dietro di sé, né sentì l'aria muoversi intorno a lei portando un nuovo odore alle proprie narici, un odore di cui non sarebbe mai più riuscita a fare a meno. Quell'odore che apparteneva proprio alla persona per cui quasi senza volerlo stava cantando, quella persona che in pochissimo tempo le aveva strappato il cuore dal petto e ora lo teneva tra le mani come fosse la più preziosa delle reliquie.
Non se ne accorse o fece finta di non farlo. E continuò a cantare.
Perché cantava e tutto spariva. Rimaneva sola in quella sala.
Sola con Zayn. Forse solo metaforicamente, o forse davvero.
«'Cause if you want to keep me, you gotta, gotta, gotta, gotta, got to love me harder...».
«I'mma love you harder», si sentì mormorare nell'orecchio libero dalle cuffie. E le parole successive le si bloccarono in gola, mentre la base continuava a suonare ma lei sembrava non sentirla. Riusciva a sentire il respiro di Zayn contro l'orecchio, e quelle parole che aveva appena sussurrato, che le vorticavano in mente come impazzite, come non credesse di averle davvero sentite. Riusciva a sentire le sue mani improvvisamente sui fianchi, sotto la maglietta, direttamente a contatto con la pelle - dove sembravano nate per stare, più Esme ci pensava più se ne convinceva. «Ciao, micetta», aggiunse pianissimo, soffiandoglielo contro il collo prima di posarvici un bacio umido che le fece venire la pelle d'oca.
La ragazza fece sfarfallare le ciglia fino a riaprire gli occhi, mentre un sorriso felice le compariva sulle labbra e i denti stringevano la presa sul piercing per impedirsi di scoppiare a ridere. Si sfilò le cuffie e lasciò andare il microfono - che aveva stretto più forte quando si era accorta del violoncellista dietro di lei, quando si era accorta del suo respiro e delle sue mani e del suo odore e di tutto quanto.
«Ciao, gattino...».
Quando però scivolò nel suo abbraccio e si voltò per guardarlo negli occhi, non riuscì più a trattenere la risata che gli stava montando dentro da secondi interi, interminabili. E rise, salendo in punta di piedi e intrecciando le dita dietro il collo del moro. Gli rise nell'orecchio, contro la pelle, con gli occhi verdi che le brillavano sotto le luci al neon e il corpo tanto vicino a quello del ragazzo - tanto vicino da non sentire altro, da non vedere altro, da scomparire contro di lui. Gli lasciò un bacio sulla mascella, uno più in basso, e così via. Fino ad arrivare alle labbra e bloccargli un sorriso dentro pur di respirarlo.
«Non riuscivo a suonare, mi sei mancata troppo», le confessò il moro passandosi una mano tra i capelli sciolti, ancora tanto vicino a lei da continuare a sfiorarle le labbra mentre parlava. Ed era vero, era stato troppo distratto per riuscire a suonare. Troppo confuso da pensieri su pensieri che riguardavano lei per riuscire a ricordare le note e renderle musica, magia. «Volevo rapirti e saltare le lezioni del pomeriggio, ma...».
«Mi salvi la vita, grazie», lo interruppe Esme con un altro bacio.
Prima che però potessero davvero scappare da lì, alla ragazza venne in mente una cosa. Zayn aveva cantato. Erano solo quattro parole, ma le aveva cantate. Eccome, se l'aveva fatto. Era stato un sussurro, ma era stato musica, alle orecchie della cantante. L'aveva sorpresa, perché non credeva che lui sapesse cantare; l'aveva sorpresa, e non se ne sarebbe andata fino a che non l'avesse sentito cantare davvero - anche se la sola idea di andare via, soprattutto se con lui, la allettava ben oltre il lecito.
«Che stai...?».
Non lo fece nemmeno finire, gli sistemò semplicemente le cuffie e lo tirò per la camicia fino a farlo finire di fronte al microfono. Lo fece scoppiare a ridere, mentre lei si mordeva il labbro e si sedeva su uno sgabello di fronte a lui, con le gambe accavallate e le mani intrecciate in grembo; e con un sorriso strano sulle labbra, tanto che Zayn non riusciva a capire cosa volesse da lui - oltre alle cose più ovvie.
«Sai cantare e non me l'hai detto, stronzo!», esclamò puntandogli un dito contro mentre lottava con ogni fibra di sé per non ridere - ancora. Il ragazzo sollevò le mani come ad arrendersi, prima di ridacchiare e sollevare lo sguardo al soffitto. Esme era quasi sconcertata dal fatto che lui non le avesse nemmeno lontanamente accennato di saper cantare - o anche solo di essere intonato. Era già incredibile quando suonava... se sapeva anche cantare, magari solo un decimo di come suonava, sarebbe davvero potuto diventare l'uomo della sua vita nel tempo che le ci voleva per sbattere le palpebre. E no, non solo metaforicamente. Lei era il tipo di ragazza che nonostante tutto si affezionava; e lui era così - così - che era quasi impossibile non affezionarcisi. «Cantami qualcosa, dai...». Quasi lo supplicò, passandosi la lingua sulle labbra e guardandolo dritto negli occhi scuri.
Zayn sapeva cantare, era vero. Non era niente di che, cantava sotto la doccia e niente di più. Ascoltava molto musica, ed era un punto a suo favore, ma non se la sentiva di dire in giro di saper cantare quando magari non era vero. Non era proprio il caso, in effetti. Non avrebbero capito - faticavano già a capire il suo amore incondizionato per il violoncello, figurarsi le facce di chi avesse scoperto che per caso sapeva anche cantare e che gli piaceva, anche. Pensava solamente di avere una voce gradevole, Zayn. Di essere intonato. Niente di più e niente di meno.
Ma Esme... lei non aveva giudicato né il violoncello - classico o elettrico che fosse - né la sua pelle tatuata. Lei non giudicava la sua passione quasi innata per la musica. Non aveva detto una parola riguardo al piercing che gli ornava il sopracciglio o riguardo i suoi capelli lunghi. E non aveva detto niente perché semplicemente non le importava, come non aveva giudicato perché semplicemente non era il tipo di persona da giudicare. In più, lei trovava meravigliosa ogni minima particella di lui, dai capelli troppo lunghi ai jeans strappati al violoncello elettrico.
Esme non poteva giudicarlo, era come se gliel'avesse promesso la prima volta che si erano guardati.
E anche se Zayn era riluttante - a dir poco - a far sentire la propria voce... chiuse gli occhi, proprio come faceva sempre la ragazza che in quel momento gli stava seduta di fronte. Abbassò le palpebre e prese un respiro profondo. Immaginò di essere sotto la doccia, prima di schiudere le labbra e iniziare a cantare. Pianissimo, quasi come avesse paura di farsi sentire. Poi, a mano a mano che le parole e le sensazioni scivolavano via dalle sue labbra, la sua voce divenne più sicura, forte, intensa.
La ragazza dai capelli ricci schiuse piano le labbra. E non riuscì a richiuderle. Né riuscì a dire nulla di sensato. Solo un'esclamazione poco comprensibile, che fece arrossire leggermente il moro, senza che però smettesse di cantare. Lei lo osservava incantata, sentendo quelle parole entrarle dentro, fin sotto la pelle. E non c'era possibilità che le scivolassero di dosso, non senza lasciarle un segno indelebile sul cuore e dietro la palpebre. Quella voce le sarebbe rimasta impressa a vita... e quelle parole, quelle non le avrebbe mai scordate.
«Girl let me love you, and I will love you, until you learn to love yourself...».
Lascia che ti ami e ti amerò fino a che non imparerai ad amare te stessa.
Quelle erano le parole più belle che le avessero mai regalato. Erano le più significative. Erano una promessa, sussurrata come se Zayn avesse desiderato che la sentisse solo lei. Le brillavano gli occhi di lacrime trattenute, le tremavano le mani dalla voglia di stringerlo in un semplicissimo abbraccio e aveva bloccate in gola due parole che non diceva da quanto Louis se n'era andato e le aveva sussurrate alla segreteria telefonica del castano. Anche se era presto e Zayn lo conosceva appena, quel "ti amo" le rimase sospeso sulla punta della lingua, sostituito dall'inizio di un singhiozzo che immediatamente fermò il ragazzo, gli fece riaprire gli occhi appena in tempo per vederla scendere dallo sgabello con un saltello scoordinato e avvicinarglisi - mentre una lacrima impavida le scivolava giù per la guancia.
Non disse nulla. Le bastò abbracciarlo.
E lui come lei non disse nulla. Gli bastò stringerla e lasciarle il fantasma di un sorriso a fior di pelle, prima di baciarle la guancia sulla scia della lacrima e poi passare alle labbra, facendole sentire il gusto salato dell'emozione insieme al proprio sapore - quel solito miscuglio di sigarette e musica di cui Esme si sarebbe nutrita per il resto dei propri giorni, se fosse stato anche solo lontanamente possibile.
Le mani del moro le finirono tra i capelli, a giocare coi suoi boccoli facendola sorridere. Non riusciva a smettere e lui con lei. Sorrideva anche quando le mormorò in un orecchio di scappare con lui; e lei sorrideva di rimando, quando gli sfilò le cuffie sfiorandogli di nuovo le labbra.
Il nervosismo era sparito. Completamente.
Iris invece era nervosa, e stanca. E tesa. Tesa come una corda di violino.
Non aveva avuto né il tempo né la voglia di lisciare i capelli, quella mattina; erano un po' mossi e ancora un po' schiacciati sulla nuca per via del cuscino, e li aveva pettinati solo passandoci le dita in mezzo, ma immaginando che altre mani ne districassero i nodi, che altre dita ci si perdessero in mezzo, tra un filo d'oro e l'altro. Non aveva nemmeno avuto la pazienza di truccarsi, quella mattina; niente linea di eyeliner, niente mascara, niente rossetto rosso che le faceva brillare gli occhi celesti.
Iris aveva a malapena avuto la forza di lavarsi il viso con acqua bollente e sistemarsi gli occhiali da vista sul naso. Non si era lisciata i capelli né si era truccata e si era vestita con le prima cose che aveva trovato nella cassettiera; tutto questo per non avere il tempo di lasciar vagare i pensieri verso il motivo delle sue lacrime, per non mettersi a pensare ad Harry e alla sua espressione ferita e distrutta quando gli aveva sussurrato che lui per lei era solo un ricordo.
Da quel che Iris ricordava, Harry riusciva sempre a capire quando mentiva.
Forse ricordava male. O forse non erano più gli stessi ragazzi di una volta.
Aveva fatto scivolare un paio di leggings neri lungo le gambe, quindi, cercando disperatamente di non pensare né immaginare come sarebbe stato sentire di nuovo le dita affusolate del pianista contro la pelle, a sfiorarle le cosce per tutta la loro lunghezza, scendendo lungo i polpacci e tornando verso l'alto solo quando l'avesse sentita bisbigliare una preghiera. Aveva indossato un maglioncino leggero, cercando di non notare come quel verde pallido non avesse nulla a che fare col verde prato delle iridi che mai avrebbe smesso di amare.
Aveva semplicemente provato a spegnere i pensieri, Iris.
Ma quei pensieri arrivavano di soppiatto e all'improvviso, sconvolgendola ogni volta e facendole mancare un respiro. Quei pensieri le rendevano gli occhi celesti più grandi e lucidi, quasi liquidi e lisci come la superficie di una piscina. Quei pensieri le facevano venir voglia di piangere e desiderare di sparire. Le facevano tremare i polsi e le gambe e i pensieri, come quando doveva cantare e aspettava il momento perfetto per attaccare.
Ma né non avere tempo per pensare né girovagare per l'accademia apparentemente senza meta, l'avevano tenuta lontana da Harry; in realtà, ormai l'aveva capito, nulla sembrava riuscire a tenerla lontana da lui, dalle sue mani grandi, dai suoi capelli ormai troppo poco ricci o dai suoi occhi troppo verdi. Lei era solo una piccola calamita indifesa, lui un enorme pezzo di metallo che la attirava a sé sperando di non doverla lasciare mai più.
Iris aveva camminato tanto.
E quella saletta per le prove sembrava vuota.
Sembrava. Era immersa nel buio, con le persiane abbassate per impedire alla luce del sole di penetrare e illuminare lo spazio; un velo di polvere sembrava ricoprire qualsiasi cosa riempisse la stanza, dalle sedie al pavimento al pianoforte - l'aria stessa era colma di vecchia polvere stantia, quasi quanto bastava da non riuscire a respirare correttamente. Ed era immersa nel silenzio, quella sala prove. Un silenzio rotto dalle suole delle scarpe della bionda sul vecchio parquet che scricchiolava un po' sotto al suo peso. Un silenzio quasi opprimente e un buio quasi pesto - le due caratteristiche che spinsero la giovane cantante ad entrare senza timore e camminare piano nella polvere.
Quando si accorse del neon accesosi sfarfallando sul pianoforte, però, era troppo tardi per fare marcia indietro e scappare. Era troppo tardi per svanire o correre via. Lei era pur sempre una calamita, attratta da quel pianoforte e da quella luce soffusa, attratta dal pianista che prese posto sullo sgabello e attratta dal leggero sospiro che gli lasciò le labbra, lieve come un soffio di vento ma abbastanza da non sentire altro, per Iris. E lui era pur sempre un enorme pezzo di metallo che sembrava essere fatto apposta per attrarla, per giocare con lei come il gatto fa col topo.
Era troppo tardi per andarsene, quando vide le dita affusolate di Harry posarsi sui tasti d'avorio, accarezzandoli come stesse sfiorando una donna, premendoli con la solita delicatezza di sempre e facendo nascere gli stessi suoni e le stesse note che suonava dopo aver fatto l'amore con Iris tutta la notte, quelle che la facevano addormentare tra le lenzuola che sapevano di loro con un sorriso immenso sulle labbra rese gonfie dai loro morsi e dai loro baci.
Le spuntò lo stesso sorriso di un tempo, come non fosse mai accaduto nulla. Come non si fossero mai staccati l'uno dall'altra. Come non avessero mai urlato disperati nelle notti senza stelle e come non avessero mai pianto in lenzuola che non sapevano di nulla se non di detersivo ma che non ricordavano niente di quel che loro avevano avuto, amato, distrutto. Le spuntò lo stesso sorriso che Harry amava da sempre e del quale non era mai riuscito a fare a meno. Le spuntò sulle labbra un sorriso impossibile da fermare e capace di illuminare anche la stanza più immersa nel buio.
Quel sorriso però rimase un suo segreto.
Harry non se ne accorse. Harry non la vide.
Lui era troppo impegnato a suonare. Con le palpebre abbassate e i capelli sciolti. Con un velo di malinconia a corrodere il mezzo sorriso che gli increspava le labbra - e che non era abbastanza da fargli comparire le fossette sulle guance. Col capo abbassato e lo sguardo nascosto, e con quelle dita che scorrevano veloci sui tasti nel modo più naturale del mondo, a rincorrere i ricordi per farli di nuovo propri e a rincorrere vecchie melodie che però alle sue orecchie suonavano nella stessa maniera di sempre.
Era troppo impegnato a ricordare, Harry, per accorgersi di lei. Ricordava la prima volta che le aveva suonato proprio quella melodia e ricordava le lacrime che erano affiorate alla superficie degli occhi celesti della bionda. Ricordava ogni volta che l'aveva suonata e ogni volta che Iris l'aveva ascoltata, rabbrividendo e sorridendo insieme. E ricordava la volta che l'aveva suonata dopo essere scappato da lei, quando le lacrime gli avevano offuscato la vista ma aveva continuato a suonare fino in fondo e senza nemmeno guardare lo spartito.
Era troppo impegnato a cercare di smettere di pensare a lei, Harry.
Ed era troppo impegnata ad ascoltare, Iris. Per quanto avrebbe voluto scappare e più semplicemente far finta di non essere lì, smettere di ascoltare quella serie di note o di guardare le sue dita muoversi sui tasti, era impossibile. Quella musica le si era appena infiltrata sotto la pelle come succedeva ogni volta che la risentiva; quella musica le aveva appena illuminato gli occhi e il sorriso e la vita intera; quella musica le aveva appena fatto tornare in mente com'era stato avere Harry, com'era baciarlo appena svegli o com'era addormentarsi abbracciati o com'era stato tirarlo su quando toccava il fondo. Era troppo concentrata su di lui e su un ricordo in particolare, Iris. Sul momento in cui lui non era riuscito a suonare e lei gli aveva stretto una mano e baciato il collo, spazzando via tutto e lasciando solo la musica, con loro.
Però, per quanto ci stesse provando e per quanto si stesse sforzando di non piangere, tutto quello che le sue orecchie avevano appena udito e che i suoi occhi avevano appena osservato nei minimi particolari, era troppo. Troppo da sopportare, troppo per non sciogliersi, troppo per tenere le lacrime al proprio posto come nulla fosse.
E le sfuggì un singhiozzo, prontamente messo al riparo da una mano che le tremava come una foglia secca appesa ancora al proprio ramo quasi per scherzo. Pregò che non la sentisse. Pregò di non aver fatto troppo rumore. Pregò che quell'emozione tornasse indietro, riassorbita dal respiro successivo.
Si rese conto, però, di non aver pregato abbastanza forte.
Gli occhi di Harry furono sul suo viso struccato in tempo per vedere una lacrima solitaria lasciare la propria scia sulla sua pelle e nel suo cuore. In tempo per vedere i suoi occhi blu oceano riempirsi di altre lacrime, tutte quelle che in quel periodo aveva cercato di trattenere tra le ciglia bionde e tutte quelle che aveva pregato di non piangere. In quel momento lui la stava guardando come forse non aveva mai fatto, leggendole dentro e capendo solo con quello sguardo e grazie a quelle lacrime silenziose quanto lei gli avesse mentito, quando gli aveva detto che per lei lui fosse solo un ricordo.
Harry era il suo tutto, e onestamente alla bionda sembrava quasi strano che non se ne fosse accorto prima. Forse aveva fatto finta di non accorgersene o aveva fatto finta di nulla. Forse aveva solo mentito a se stesso. Forse aveva visto quella bugia dal primo momento, ma non aveva voluto farci i conti.
Quelle lacrime su quelle guance fecero male. Gli immobilizzarono il cuore come se qualcuno glielo stesse stringendo in una morsa, prosciugandoglielo di ogni goccia di sangue e di ogni sentimento, lasciandolo a fare i conti col proprio dolore e il senso di colpa per essersene andato. Quelle lacrime su quelle guance però riuscirono a farlo muovere... lei era ancora immobile a guardarlo, con le lacrime che ormai scorrevano libere e senza freni. E lui, lui riuscì ad alzarsi dallo sgabello e a muovere qualche passo in avanti, verso di lei.
Il musicista dai capelli ricci però venne fermato dal suono della voce della bionda, ancor prima di riuscire a schiudere le labbra e comporre anche solo un pensiero coerente. Venne fermato dalla sua mano passata nervosamente tra i capelli e dalla sua lingua passata sulle labbra prima di parlare, prima di dire tutto quello che si era tenuta dentro da troppo tempo, abbastanza da non riuscire più a sopportare il dolore.
«Mi manchi così tanto che non respiro, Harry...».
Il ragazzo schiuse le labbra in cerca d'aria, colpito all'improvviso da quelle parole dette tanto inaspettatamente da far male. Risucchiò un respiro tra i denti, provando a dire qualcosa - qualsiasi cosa. Ma di nuovo Iris si lasciò andare ad un fiume di parole che lo colpì al petto come un uragano. Lo fece rimanere senza parole e senza fiato, mentre il suo cuore perdeva un battito e si passava una mano tra i capelli cercando di tenersi insieme per non crollare davanti a lei, con lei.
«Mi manca il suono della tua voce e mi mancano i tuoi occhi e passare le dita tra i tuoi capelli... e mi manca la tua pelle, mi mancano i tatuaggi, i baci sul collo, il solletico sui fianchi e la tua risata e le tue dita contro le mie qualsiasi cosa accada... e mi manca sentirti suonare e baciarti per svegliarti e dormire abbracciati». La ragazza fece una pausa, prendendo fiato e asciugandosi le guance dalle lacrime. Fece un altro paio di passi verso di lui, entrando nel fascio di luce sprigionato dal neon sopra le loro teste. Lasciò che vedesse i propri occhi velati di lacrime e il labbro inferiore che le tremava. Lasciò che vedesse il dolore che la prosciugava, prima di continuare. «Tu sei la mia canzone, Harry, lo sei sempre stato», aggiunse in un soffio, togliendosi un peso di dosso, quel peso che quasi l'aveva fatta soffocare.
Harry smise di respirare per un attimo che gli sembrò un'eternità.
E quando ritrovò la forza di respirare riuscì a mormorare solo una cosa. Solo il suo nome.
«Iris...».
«Mi manca la mia canzone, da morire...», lo interruppe ancora lei, sempre nel più lieve dei sussurri, quasi un sospiro involontario che portò quelle parole dalla bocca di lei alle orecchie di lui.
Abbassò le palpebre, dicendolo. Nascose i suoi occhi da quelli di Harry, non riuscendo a fare altro. Abbassò le palpebre, risollevandole solo quando sentì le sue mani chiuderlesi sulle guance, solo quando lo sentì tanto vicino da non capire più nulla. Avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto essere capace di respirare in sua presenza e avrebbe quasi voluto odiarlo per essere così, per renderla sempre così debole, nonostante il tempo che era passato.
Poi Harry la baciò, e lei quasi non se ne accorse.
Harry la baciò e basta, perché non c'era altro da dire, aveva appena detto tutto lei. Lui la baciò perché gli era mancata, la baciò perché voleva farlo, la baciò perché era solo stanco di stare lontano da lei e stanco di pensare alle conseguenze. La baciò perché le sue labbra erano troppo belle per non essere sfiorate. La baciò sapendo che lei voleva lo stesso, glielo poteva intravedere nelle iridi azzurre come il cielo sopra le nuvole di Londra.
Poi Iris si lasciò baciare, e lui pensò che non aspettava nient'altro.
Iris si lasciò baciare e basta. Non disse nulla per fermarlo. Non voleva fermarlo. Schiuse le labbra contro le sue senza pensarci, lasciò che si sfiorassero, lasciò che le mani del pianista finissero tra i propri capelli biondi, poi sul collo e poi direttamente sui fianchi. Si lasciò sollevare da terra, senza staccarsi da lui, giocando con la sua pelle, coi suoi capelli, giocando con lui.
E si lasciò posare con delicatezza - ma non troppa - sul pianoforte a coda che lui aveva smesso di suonare solo qualche minuto prima. Le mani di Harry scivolarono sotto al suo maglione, e lei glielo lasciò fare, come sempre. I suoi denti le morsero un labbro e le sue mani se la premettero contro facendola gemere appena, ma Iris gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa. Si sarebbe lasciata baciare fino a morirne, si lasciò baciare fino a sentire i polmoni bruciare per la mancanza d'aria, fino a non avere fiato per pensare, fino a doversi staccare per guardarlo negli occhi e accertarsi che quello non fosse un sogno.
Il ragazzo la osservò sfarfallare le ciglia con un sorriso. E gli venne da ridere, lì, fermo tra le sue gambe divaricate e con la donna che amava da sempre tra le braccia, che sorrideva come non la vedeva sorridere da troppo e con quegli occhi che le brillavano quasi come il riflesso del sole sul mare. La osservò, rendendosi conto davvero di quanto gli fosse mancata... di come i suoi capelli e il suo sorriso e le sue labbra o i suoi occhi gli fossero mancati.
«Ora respiri?», le chiese il ragazzo accarezzandole una guancia.
Lei scoppiò a ridere nascondendo il viso nell'incavo tra il suo collo e la sua spalla.
Eccome se respirava. Meglio di quanto non avesse mai fatto.
E c'era almeno un altro studente dell'accademia che respirava come mai aveva fatto in vita propria. Capelli neri come l'ebano e legati in un codino frettoloso, occhi color cioccolato, il petto nudo ornato di tatuaggi che di sollevava ed abbassava in fretta, rubando ossigeno ad un paio di labbra ormai gonfie che non sembravano in grado di staccarsi da lui e restituendoglielo in un sospiro nel bacio successivo.
Zayn non riusciva a smettere di baciare Esme. Non riusciva a staccarsi. Non voleva smettere di respirare con tanta serenità e sapeva che sarebbe successo, se lei si fosse allontanata da lui. Lo sguardo che però lei gli rivolse dopo essersi allontanata di qualche centimetro, gli fece cambiare idea. Le loro labbra si sfioravano ancora, i loro nasi anche, e le loro fronti si toccavano, posate l'una contro l'altra come a sorreggersi a vicenda; e i suoi occhi sembravano promettergli che non se ne sarebbe andata, che stava bene, che respirava davvero solo quando era con lui.
Il violoncellista decise di credere a quello sguardo, e a quella promessa detta senza il bisogno di parlare.
«Posso rimanere, stanotte?», gli chiese Esme in un soffio. Glielo chiese contro la bocca, senza avere il coraggio di allontanarsi ancora. Glielo chiese chiudendo gli occhi ma sentendolo sorridere. Glielo chiese pensando che le dicesse di no ma sperando in un sì. Era sicura che una volta uscita dalla sua stanza non sarebbe riuscita a chiudere occhio, sicura che se fossero stati distanti avrebbero passato la notte in bianco, a scambiarsi messaggi e a soffocare risate nel cuscino. Ma il suo odore era troppo intossicante per starne lontana, Esme se n'era appena resa conto - anche se probabilmente si era appena umiliata chiedendogli di restare e...
«Resta...», le mormorò Zayn di rimando, facendo sì che i suoi occhi verdi si aprissero all'improvviso, sgranati e sorpresi. Al ragazzo venne da ridere al vederla così... sconvolta. «Davvero, Esme, voglio che resti», aggiunse, strofinando piano il naso contro la sua guancia, facendola ridacchiare, prima che nascondesse il viso nella sua spalla, respirando il suo odore e lasciandovi un bacio - insieme ad un "grazie" appena sussurrato. Il ragazzo le depositò un bacio tra i capelli, accarezzandole la schiena coperta appena da una maglietta bianca che le aveva prestato per stare più comoda. «Sei stanca?».
La cantante soppresse a stento uno sbadiglio, sdraiandoglisi accanto e accoccolandosi contro di lui, annuendo appena. Stanca, sì. Accoccolata ad un ragazzo del quale quasi non conosceva l'esistenza fino a qualche settimana prima. Stretti in un letto singolo, con le lenzuola attorcigliate e che già sapevano di lei, oltre che di lui. Stanca, sì. Ma non voleva dormire. Avrebbe di gran lunga preferito osservare Zayn prendere sonno e poi guardarlo tutta la notte, immaginare cosa stesse sognando, svegliarlo la mattina dopo con un bacio sulle labbra.
«Non voglio dormire, Zay».
Il moro le pizzicò un fianco, facendola ridere - ed era talmente bella che sarebbe rimasto sveglio tutta la notte pur di sentirla ridere, ancora e ancora. Si chinò sulle sue labbra, mordendola, facendole perdere un battito e un respiro insieme; poi però la sentì distendere le labbra in un sorriso, si sentì tirare sopra di lei in modo tanto brusco da rischiare di far cadere entrambi a terra. «Cosa vuoi fare, allora?», le chiese malizioso, sollevando e abbassando entrambe le sopracciglia e senza riuscire a trattenere un sorriso sulle labbra, lasciandolo arrivare senza sforzo anche agli occhi. Le riprese il labbro tra i denti e lo succhiò piano, facendola irrigidire sotto di sé.
«Tu cosa vuoi fare?», mormorò la ragazza, cercando di restare al gioco senza scoppiare a ridere.
«Tenerti tra le braccia tutta la notte», disse lui, semplicemente, pizzicandole il naso con le labbra.
E lo fece. Esme si addormentò sdraiata su di lui, con la cascata di ricci neri sparpagliati sulla sua spalla, una mano stretta intorno a lui e la gambe nude intrecciate alle sue - coperte da un vecchio paio di pantaloni della tuta. Si addormentò sentendo le sue dita giocherellare coi propri ricci. Si addormentò cullata dal battito del suo cuore contro l'orecchio. Si addormentò stretta tra le sue braccia, e per la prima volta negli ultimi mesi riuscì a dormire serena, senza incubi né problemi. Zayn dal canto proprio fece come le aveva promesso... la tenne stretta. Chiuse gli occhi in pace, cullato dal suo respiro e rassicurato dal suo corpo premuto delicatamente contro il proprio.
La mora avrebbe voluto stare in quel modo con lui per sempre, se solo fosse stato possibile. Tenere le palpebre abbassate fino a dopo la fine del mondo. Finire insieme, finire con lui. Ma quel pensiero venne bruscamente interrotto dalla sveglia, che suonava come impazzita sul comodino di fianco al letto - dalla parte opposta rispetto a dove si trovava, fortunatamente, ma non abbastanza da non sentirla o da ignorarla. Si svegliò di soprassalto, trattenendo a stento un urlo - che le uscì come un grugnito soffocato - ma cadendo dal letto come un frutto maturo dall'albero, sul sedere e successivamente sulla schiena.
Quello era peggio che essere svegliata presto la mattina di sabato.
E la sveglia non voleva saperne di smettere di suonare.
Esme si passò una mano sugli occhi e poi tra i capelli, sbadigliando rumorosamente e cercando di sollevarsi a sedere per capire che ora fosse - oltre che per uccidere Zayn per aver puntato la sveglia senza nemmeno avvisarla. Si arrese quando l'apparecchio infernale smise finalmente di suonare, sentendo poi Zayn borbottare qualcosa a bassa voce, poco comprensibile da dove si trovava lei.
«Es...?».
«Sono sul pavimento», borbottò lei, ancora sconvolta per essere stata svegliata in quel modo per niente delicato, con uno sbadiglio bloccato in gola e la risata del moro improvvisamente nelle orecchie. Le scappò un mugugno, prima che potesse riaprire gli occhi e incontrare il suo viso e i suoi occhi scuri che la guardavano divertiti dall'alto, mentre lui se ne stava ancora comodo tra le lenzuola. «Ti faccio ridere, gattino?», gli chiese la ragazza inarcando un sopracciglio, cercando di non notare quanto fosse dannatamente perfetto appena sveglio, anche con la voce impastata e i capelli spettinati.
«Sei esilarante, micetta», ammise il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore per non riderle in faccia. Era bella anche appena sveglia, con uno sbadiglio dietro l'altro a schiuderle le labbra screpolate dal sonno e i ricci in disordine e schiacciati dietro la testa. Bella, e tanto, con la sua maglietta decisamente troppo grande per lei addosso, ma che la rendeva terribilmente sexy. Bella e divertita anche lei, per quanto stesse cercando di non farlo notare.
La vide mordersi un labbro, prima che finalmente le scappasse un sorriso. Un sorriso che inizialmente Zayn non capì e che gli fece comparire una piccola ruga tra le sopracciglia. Un sorriso non capito che però trovò la propria spiegazione qualche secondo dopo, quando Esme si sporse verso l'alto e afferrò l'orlo del lenzuolo in una mano, tirando più forte che poté. Forte abbastanza da cogliere di sorpresa il ragazzo, e abbastanza da farselo rotolare addosso con un gemito roco e sorpreso - insieme ad un'imprecazione che lei fece finta di non sentire.
Scoppiò a ridere, sentendoselo cadere addosso, gli rise nell'orecchio, accarezzandogli poi la nuca con le unghie, mentre lui si sollevava sulle braccia per guardarla. Finta rabbia negli occhi e divertimento mal represso sulle labbra, aveva. E lei rise ancora più forte, almeno finché non sentì le sue labbra posarsi velocemente sulle proprie, per poi staccarsene, allontanarsi e guardarla. E di nuovo giù, labbra contro la labbra; e di nuovo su, a leccarsi la bocca per assaporarla e a osservarla senza stancarsene.
Giù. Le braccia tese per non pesarle. Le labbra a sfiorare le sue per un istante.
Su. I muscoli sempre in tensione, le labbra stese in un mezzo sorriso, gli occhi che gli brillavano.
«Stai barando», mormorò Esme prendendo fiato tra un bacio e l'altro, benedicendolo e maledicendolo insieme, pregando che non smettesse ma anche che si staccasse presto, perché non riusciva quasi a respirare da quanto si sentiva indebolita in sua presenza. «Non stai giocando lealmente», mormorò ancora, ridacchiando, dopo un altro bacio. Zayn strofinò il naso contro il suo, ridendo appena, facendole comparire la pelle d'oca sulla nuca. «Non è giusto, Zay...», aggiunse infine, non riuscendo più a trattenersi dal ridere.
«Forse è solo un modo per non smettere di baciarti, piccola».
E mentre le guance della cantante riccia si tingevano di rosso, mentre il violoncellista le regalava l'ennesimo bacio sulle labbra, un ragazzo dai profondi occhi color nocciola faceva il suo ingresso nella caffetteria della Royal Academy of Music. Si guardò intorno un po' spaesato, non abituato allo sfarzo delle scuole private, dato che lui non ne aveva mai avuto la possibilità. Si passò una mano tra i capelli, sospirando, cercando di immaginare a chi avrebbe potuto chiedere perché lo aiutassero a trovare una persona in quel posto immenso.
Londra gli era mancata. Esme gli era mancata anche di più. E gli erano mancati i loro caffè amari, le felpe che le prestava perché non sentisse freddo e perfino le giornate passate insieme in orfanotrofio, quando erano solo due bambini. Lei era sempre stata la sua migliore amica, da che ne aveva memoria, fin da quando erano finiti in castigo insieme... lei per non aver voluto mettere un vestito, lui per aver difesa. Gli venne da sorridere, a quel pensiero. Non riuscì a fermarlo, perché era da lì che era iniziato tutto, era grazie a quel momento se non si erano più staccati l'uno dall'altra.
Non fosse stato per Louis non si sarebbero persi, mai.
Ma erano anni che non la vedeva né la sentiva, e in quel momento - con un bicchiere di caffè nero in mano e il cellulare che vibrava sul piano del tavolino a cui si era seduto - si sentì stupido. Non aveva senso ricomparire dal nulla dopo così tanto tempo. E non aveva senso cercarla in quel mare di studenti, non sapendo a chi chiedere né da che parte cominciare. Avrebbe potuto cercare una delle sue amiche, sperando che si ricordassero di lui, ma era come cercare un ago in un pagliaio. Finché...
«Due caffè, Marie... uno amaro e uno zuccherato, sì... due muffin al cioccolato e un sacchetto di caramelle alla menta, Esme ne è dipendente...». Il ragazzo scoppiò a ridere divertito con la ragazza della caffetteria, dopo averlo detto, e il castano si affrettò a raggiungerlo con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra. Non era stato poi così difficile trovare qualcuno che la conoscesse, doveva ammetterlo; era stato piuttosto fortunato.
Si schiarì la gola, avvicinandosi. E il ragazzo dai capelli neri lunghi e spettinati si voltò a guardarlo con il sorriso ancora stampato sulle labbra ma un sopracciglio leggermente inarcato. «Ho sentito per sbaglio quello che hai detto... sei un amico di Esme?», gli chiese, intimidito dalla sua figura e da quel sorriso, anche se lui era fisicamente più grosso di Zayn. Più grosso magari, ma anche più timido, da un certo punto di vista.
«Il suo ragazzo... e tu sei?».
Il moro non riuscì a trattenere la gelosia. Ne riempì quelle poche parole, facendo sorridere il ragazzo che lo aveva appena avvicinato. Serrò la mascella e tentò un respiro profondo, provando ad immaginare chi potesse essere quel ragazzo e cosa c'entrasse con lei, con i suoi capelli ricci e la sua bellissima voce. Si fermò dal pensare il peggio solo quando lo sentì ridacchiare, prima che gli porgesse una mano e «Liam, piacere... un vecchio amico di Es».
Vecchio amico.
Non era proprio la combinazione di parole che Zayn preferiva, ma Liam sembrava davvero solo un amico, uno di quelli con cui cresci e ti diverti e fai le peggio stronzate. Non sembrava il genere di ragazzo di cui lei si sarebbe potuta innamorare né il genere di persona capace di spezzarle il cuore. Fece un respiro profondo, quindi, prima di ridacchiare e stringergli la mano che gli stava tendendo. «Zayn, piacere... io, scusami se ho reagito così». Fece una pausa, sentendosi ridicolo per un istante. È solo che sono terribilmente geloso quando si tratta di lei. «Ci trovi stasera, se ti va... io suono con la mia migliore amica, è un bel posto e ci si diverte...».
Liam gli regalò un sorriso, prima di annuire contento.
Avrebbe rivisto la propria migliore amica dopo tre anni.
Sperava solo che lei non desiderasse di ucciderlo e che lo riconoscesse. Non chiedeva altro.
   
 
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