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Autore: Piperilla    12/05/2015    1 recensioni
Mai fermarsi alla superficie delle cose.
Questa è una verità più importante di quanto si possa credere: sotto l'aspetto ordinario, infatti, molte persone nascondono capacità fuori dal comune: quella che permette loro di governare i quattro Elementi fondamentali.
In un luogo sperduto vengono riunite queste persone speciali: separati contro la loro volontà da parenti e amici, segregati in quella che è più una prigione che una scuola, viene insegnato loro tutto sul loro potere e su come padroneggiarlo: gli anni si susseguono in una serie infinita di lezioni e addestramenti fino a quando, nelle mente dei prigionieri, non rimane più nulla delle loro vite precedenti. Fino a quando non diventano strumenti nella scalata al potere bramata dai quattro Maestri che dirigono quel luogo.
Ma proprio come la lava ardente, la ribellione si agita appena sotto la superficie.
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga degli Elementi'
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«Aspettate un momento!».
   Il richiamo di Sofia bloccò quanti già si avviavano ai dormitori. Tutti tornarono indietro, nella vastissima sala che fungeva da mensa: sedendosi su ogni superficie disponibile – tavoli, panche e sedie di legno di noce – e osservando le pareti color giallo ocra scuro su cui spiccavano i ritagli di cielo che facevano capolino dalle finestre, neri come il pavimento, aspettarono che parlasse.
   «Oggi è stata una giornata speciale, non è vero?» chiese lei, in piedi su un tavolo, alla folla che aveva di fronte. Sapeva che erano stanchi, ma aveva per loro un’ultima sorpresa.
   Un mormorio di assenso si levò dalla sala.
   «Per concludere una giornata come questa, ci vuole qualcosa di altrettanto speciale». Fece una pausa. Quello che stava per dire avrebbe fatto male a ognuno di loro, lei inclusa, e una piccola parte della sua coscienza non si decideva a lasciarle dire quella semplice frase. Poi prese fiato.
   «Vorrei che ci parlaste delle vostre famiglie, se qualcuno se la sente».
   Molti trattennero il respiro. La famiglia era qualcosa a cui tutti cercavano di non pensare: quelli che erano lì da poco, perché il distacco era ancora troppo doloroso; quelli che erano lì da anni, invece, perché scoprire che non riuscivano a ricordare i volti e le voci di genitori e fratelli era ancora più devastante.
   In molti guardarono Sofia con aperta ostilità. Lei se l’aspettava, ma le dispiacque lo stesso.
   «Allora? Nessuno? Eppure alcuni di voi sono qui da pochissimo tempo, dovreste ricordare bene i vostri genitori... fratelli, sorelle, la vita che conducevate...».
   Una mano le strattonò il braccio, interrompendola.
   Laurence la guardò con rabbia.
   «Non puoi comportarti così. Gli fai male! Girare il coltello nella piaga non servirà né a loro né a te!» le disse furioso ma a bassa voce.
   Con un altro strattone, lei si liberò il braccio e lo fissò come se potesse guardargli dentro, come era solito fare Gregory con lei.
   «Ti sembro crudele, amico mio? Ti sembra che io abbia mai usato trattamenti simili nei confronti di qualcuno in modo gratuito?» domandò con voce tagliente. L’uomo aggrottò ancora di più le sopracciglia.
   «Te l’ho visto fare un’infinità di volte, Sofia. Ma stavolta no, non lo puoi proprio fare» rispose con voce gelida.
   Intanto, gli altri Maestri erano sulle spine. Laurence e Sofia non avevano mai discusso, pur avendo entrambi due caratteri molto forti. Temevano un possibile scontro: sarebbe stato difficile, quasi impossibile fermarli.
  «Qui c’è una sola persona che sa cosa ho fatto, cosa ho sopportato pur di tentare di ritrovare la mia famiglia. E non sei tu. Non accetto una critica simile in questa situazione. Quindi spostati e lasciami parlare, Laurence» disse Sofia, apparentemente calma. In realtà, la mancanza di fiducia di Laurence l’aveva ferita: aveva sempre creduto di poter fare affidamento su di lui, in qualunque circostanza, e scoprire che per lui non era lo stesso l’aveva lasciata triste e amareggiata.
   Gli voltò le spalle senza aspettare una risposta e riprese a scrutare le persone che aveva di fronte.
   All’improvviso, Fernando sbottò.
   «Cosa vuoi che ti diciamo? Non li ricordiamo!» gridò con rabbia. «Non riusciamo a ricordare niente di loro e…» s’interruppe, non riuscendo a proseguire.
   «E vi sentite in colpa proprio perché non riuscite a ricordare. Per questo e perché avete paura che non li ritroverete mai più» concluse la ragazza. Poi li guardò di nuovo, uno a uno. «Quindi nessuno di voi ricorda i loro volti, le loro voci... le abitudini... nulla?».
   Un mare di teste davanti a lei si mosse in un unico cenno di diniego, con poche eccezioni.
   Senza aggiungere altro, Sofia scese dal tavolo con un balzo e uscì dalla porta che si trovava pochi metri dietro di lei. Riapparve un minuto dopo, spingendo uno dei grandi carrelli che usavano per portare i pasti dalle cucine: entrambi i ripiani erano zeppi di scatole di cartone. Sembravano pesanti: la ragazza faceva una certa fatica a manovrare il carrello.
   Si fermò e aprì la prima scatola. Ne trasse una grande busta di cartoncino giallo e scrutò attentamente il nome che vi era scritto sopra. Prendendo un’altra decina di plichi iniziò a girare per i tavoli, consegnandoli ai destinatari.
   «Devo chiedervi di non aprirle fino a quando non avrò consegnato anche l’ultima busta» disse, osservando i primi ragazzi stringere la loro tra le mani con curiosità. Quelli assentirono silenziosamente, e lei riprese a distribuire il contenuto delle scatole.
   In quindici minuti finì di smistare le buste: Gregory fu l’unico a non riceverne una, e Laurence l’ultimo al quale Sofia si avvicinò.
   «Per ripagare la tua scarsa fiducia» gli disse gelida, mettendogli una busta più grande delle altre tra le mani. Poi trascinò il carrello e una sedia in un angolo, vicino a Gregory, e si rivolse alle persone in attesa.
   «Avanti, apritele pure» disse senza emozioni. Si voltò, infilando le mani nelle tasche: non aveva intenzione di guardare le loro espressioni nel momento in cui avrebbero visto il contenuto dei plichi.
   Un lungo silenzio si dilatò nella sala. Sembravano tutti impietriti: gli unici movimenti erano quelli delle mani, che sfogliavano ciò che avevano trovato nelle buste, e degli occhi, che vagavano qua e là cercando di assimilare tutto istantaneamente, come se temessero di non poter rivolgere un secondo sguardo al tesoro che ognuno di loro stringeva tra le mani.
   Poi un profondo, rumoroso respiro e un singhiozzo spezzarono il silenzio: soffocandone un secondo, Fernando strinse le foto che lo ritraevano con la sua famiglia. Vedere di nuovo i loro volti aveva aperto un cassetto nella sua mente – iniziarono a riaffiorare i ricordi di voci e profumi, i piccoli gesti quotidiani, le colazioni, le lotte con i suoi fratelli, i pomeriggi passati sotto il sole della Spagna...
   Intorno a lui, tutti vivevano emozioni simili: alcuni cercavano di mantenere un contegno; altri piangevano, chi di gioia per l’aver ritrovato i volti amati, chi di dolore, sentendone ancora più forte la mancanza; alcuni ridevano, altri ancora baciavano le foto e parlavano loro, come se chi vi era ritratto potesse ascoltarli e dargli conforto.
   Emma, stretta tra le braccia di Fernando, sfogliava i ricordi di una vita immortalati sulla carta; l’emozione che provava era troppo forte per poterle dare un nome preciso, troppo forte per non volerla condividere con gli altri, così espanse la propria Aura fino a toccare tutti: sentì la tristezza di Ailie, la meraviglia di Gloria e Viola, la felicità un po’ rabbiosa di Serj e tanto, tanto altro...
   Blaze rideva felice, gli occhi asciutti ma brillanti di emozioni represse, mentre guardava la foto che lo ritraeva con la sorellina di quattro anni più piccola di lui, a una partita di baseball. Nonostante fossero passati anni, ricordava perfettamente quel giorno: era la prima partita a cui i loro genitori li avevano portati, e solo due settimane dopo era stato portato via, lontano da tutto quello che gli apparteneva, per finire tra persone sconosciute.
   André, ammutolito, si rigirava tra le mani una foto dei suoi genitori, osservando gli occhi di sua madre – così simili ai suoi – e chiedendosi per l’ennesima volta cosa fosse capitato loro, come avessero reagito alla sparizione del loro unico figlio, e desiderando di poter dire loro che stava bene, che li pensava ogni notte da nove anni, da quando, a quindici anni, era stato preso mentre eseguiva una commissione per sua madre ed era sparito senza lasciare tracce.
   Laurence, invece, teneva ancora tra le mani il plico perfettamente chiuso. Quando si decise ad aprirlo la sua mano cercò istintivamente la foto più grande, la foto che conosceva meglio di qualunque altra al mondo... perché pur senza guardarla sapeva già quale, tra le tante foto che c’erano in quella busta, Sofia aveva scelto di regalargli.
   Le sue dita incontrarono una sottile cornice, e sentì il freddo del vetro sulla mano: delicatamente, estrasse la foto dalla busta e fissò con sguardo adorante il volto della sua giovane sposa il giorno delle loro nozze. Una copia di quella stessa foto era arrivata con lui al Centro, infilata nel suo portafogli: l’aveva guardata e baciata ogni giorno, le aveva parlato, sperando che in una qualche parte oscura della sua mente Ambrosine sentisse la sua presenza. Aveva consumato quella foto – che ormai non era che un foglio di carta rigido e un po’ stropicciato su cui a stento si poteva riconoscere qualche tratto, e un’ombra di colore.
   Continuò a fissare quel volto che Sofia gli aveva restituito, in una calda sera d’estate: si immerse nel sorriso che quindici anni prima lo aveva fatto innamorare, ricordando come si era divertita, quel giorno, a far svolazzare il leggero velo di pizzo bianco – l’unico vezzo che si era concessa, su di un vestito semplicissimo – e quanto si era sentito felice quando nel suo volto fragile aveva scorto l’amore che provava per lui, forte e deciso, che niente avrebbe mai potuto spezzare.
  Finalmente capiva perché la sua amica, l’unica a cui avesse parlato di Ambrosine, avesse voluto riaprire le vecchie ferite, prima di fare loro quel regalo: per ricordare a tutti che c’era ancora una speranza di ritrovare le persone che amavano.
   Gregory intanto osservava la scena, impassibile e un po’ annoiato. Poi guardò Sofia: continuava a dare le spalle alle persone a cui aveva restituito una parte – seppure minima – delle loro vite e sembrava non volersi curare di quello che accadeva. Teneva gli occhi fissi contro il muro, come se vedesse qualcosa che agli altri era invisibile.
   L’uomo si alzò e si portò alle spalle di lei: in quel momento, il suo sguardo cadde dentro una delle scatole che erano ancora ammonticchiate sul carrello. Allungò una mano ed estrasse una busta che giaceva lì, volutamente dimenticata.
   Se la rigirò tra le mani per qualche istante, osservando il nome scritto con la piccola calligrafia corsiva che conosceva bene e la ceralacca, ancora intatta. Poi porse la busta a Sofia.
   «Anche tu hai diritto ai tuoi ricordi».
   Lei scostò la busta con una mano, senza neanche guardarla. Gregory insisté.
   «Da quanto tempo le hai?» chiese piano.
   «Da due anni» rispose Sofia sottovoce. «Da quando ho iniziato a sistemare tutto, qui, in attesa del momento della fuga. Ho duplicato l’archivio del Centro... pensavo che avrebbe potuto far loro piacere, riavere indietro qualche pezzetto della loro vita».
   «Ma la tua busta è ancora chiusa» notò Gregory.
   «Io li ricordo. Ma non voglio vederli».
   «Bugiarda».
   L’affermazione di Gregory la costrinse a voltarsi.
   «Sai bene che Giovanni tiene d’occhio tutte le nostre famiglie, specialmente la mia. Tornare alla propria vita è quello che tutti desiderano, qui, ed è anche il modo migliore per essere scoperti e catturati. È un rischio che non possiamo correre» disse la ragazza.
   «Ma hai dato loro le foto ugualmente, perché sai che ti ascolteranno. Sai che ti ascolteranno: scontenti, arrabbiati, controvoglia, anche quando dirai loro che adesso non possono tornare da chi amano, perché sarebbe un suicidio per loro stessi e per le loro famiglie. Quello che ti manca è qualcuno che possa fare lo stesso per te. Qualcuno che possa fermarti, impedirti di commettere una sciocchezza. Per questo non vuoi guardare quelle foto».
   Sofia chinò il capo. Sapeva che Gregory avrebbe centrato subito il punto; ecco perché aveva lasciato la propria busta lì, sul fondo di una scatola.
   Gregory aprì la busta ed estrasse le foto. Gliele mise davanti agli occhi, e lei li chiuse immediatamente. Non voleva vederle.
   La mano libera dell’uomo le strinse una spalla.
   «Tu sei la voce della loro ragione. Io sarò la tua» le mormorò.
   Tremando impercettibilmente, le palpebre di Sofia si sollevarono. Le sue mani scattarono in avanti, afferrando il pacchetto di fotografie che Gregory teneva davanti a lei.
   La prima del mucchio era vecchia di dodici anni: i suoi genitori, abbracciati e sorridenti, in abito da sera a una cena organizzata dall’Ambasciata. La cena che si era svolta la notte in cui Giovanni l’aveva fatta portare via.
   Una lacrima scivolò silenziosa dal suo volto alla foto. Gregory la asciugò.
   «Sono molto belli» le disse piano.
   Lei tirò su col naso.
   «È vero. Erano dei buoni genitori: nonostante le apparenze mia madre forse era la più decisa. Mio padre aveva l’aria un pochino più burbera, ma faceva sempre di tutto per accontentarmi. Ogni giorno, dopo il lavoro, tornava a casa e mi portava a spasso lungo il Passeig de Gràcia. Mi lasciava stare di fronte a Casa Batllò anche per due ore, se mi andava. Ogni volta mi diceva che non potevamo stare lì sotto ogni giorno; e ogni volta, la sera seguente, mi ci portava di nuovo. Qualche volta ci passavamo anche la sua pausa pranzo» disse con un sorriso nostalgico.
   Prese a sfogliare le foto: alcune erano chiaramente scatti di una comune vita familiare, a cena, durante una gita, a saggi e manifestazione sportive. Altre, invece, sembravano scattate di nascosto.
   Gregory gliene chiese il motivo.
   «Ci sono foto simili per tutti quanti» fu la risposta. «Quando individuano un Portatore, specie se è molto giovane, devono organizzare nei dettagli il modo migliore in cui farlo sparire: quindi si documentano sulle abitudini del Portatore stesso e della famiglia con fotografie, filmati e tutto il resto».
   «Credevo ci fosse una modalità... diciamo standard. Un qualcosa che potessero mettere in atto ogni volta» chiese Gregory stupito.
   «Gregory, ti basta pensarci un attimo per capire che sarebbe un modo certo per farsi scoprire. Non possono far sparire decine e decine di persone tutte nello stesso modo, anche se in tempi diversi. A seconda dell’età, elaborano un metodo diverso per depistare le ricerche che inevitabilmente vengono intraprese per ritrovare chi sparisce di punto in bianco».
   «Ad esempio?».
   Prima di rispondere, Sofia si guardò attentamente intorno. Voleva essere certa che nessuno li ascoltasse.
   «Gregory mi raccomando: quello che ti dirò non deve saperlo nessuno. Per loro sarebbe ancora più difficile affrontare tutto questo, se sapessero in che modo sono stati portati via».
   L’uomo la rassicurò prontamente della propria discrezione.
   «Bene, ti faccio qualche esempio... guarda Fernando: è stato preso quando aveva dodici anni. Nel suo caso hanno inscenato un semplice rapimento e seminato un’infinità di false piste. Blaze e André, invece, avevano quindici anni quando sono stati portati al Centro e, anche se Blaze è arrivato quattro anni più tardi, hanno utilizzato lo stesso metodo: hanno finto che fossero scappati di casa dopo una lite con i genitori e spariti nel nulla. Anche lì, hanno confuso le ricerche con indizi fuorvianti. Laurence, invece, aveva ventinove anni: si trovava su un traghetto – stava attraversando la Manica per tornare in Inghilterra poiché i voli aerei erano stati tutti cancellati – e visto che le condizioni del mare erano pessime, hanno fatto credere che fosse caduto fuoribordo e annegato. Quando ce n’è l’occasione sfruttano gli eventi atmosferici più devastanti... è uno dei metodi più semplici».
   «E il modo in cui Giovanni ha fatto sparire te?» chiese Gregory titubante.
   «Troppo scenico, troppo complicato da organizzare e troppo difficile da gestire. Non l’hanno mai neanche preso in considerazione» snocciolò Sofia senza ombra di emozioni sul volto.
   In silenzio, pescò una fotografia dal mucchio: ritraeva lei e suo padre davanti a Casa Batllò.
   «Questa l’abbiamo scattata appena arrivati a Barcellona» ricordò con un sorrisino triste. «Avevo nove anni».
   Stavolta fu Gregory a prendere una foto.
   «E questa?» chiese divertito. Nella foto si vedeva Tamara che tentava di intrecciare i capelli di Sofia e la bambina che si dimenava, chiaramente scontenta.
   «Oh cielo, me n’ero dimenticata!» rise la ragazza. «Quando ero piccola, mia madre adorava farmi treccine e code e mettermi mollette e fiocchetti tra i capelli: io lo detestavo. Senza contare che aveva la pessima abitudine di infilarmi a forza vestitini svolazzanti, magari bianchi o, peggio, rosa».
   «Be’, di solito è così che si vestono le bambine. Cos’avresti mai voluto indossare?».
   «Mia madre mi fece la stessa domanda quando avevo sette anni. Mi portò in giro per negozi per una giornata intera dicendomi di comprare quello che mi piaceva di più. Tornai a casa con jeans, anfibi, scarpe da ginnastica e un’infinità di magliette e camicie nere e viola» disse Sofia, soffocando un’altra risata.
   «Punk/rock a sette anni? Decisamente una bambina fuori dal comune» disse Gregory con gli occhi brillanti.
   Lei annuì. «Quando mio padre vide cos’avevo comprato, invece di unirsi allo sconcerto della mamma – che si lamentava di avere un maschiaccio, come figlia – si mise a ridere e gridò: “Sapevo che mia figlia aveva un’anima rock!”» concluse, strozzandosi per il gran ridere. «Il giorno dopo mi comprò una chitarra e iniziò a darmi lezioni di musica».
   Sedettero, Sofia sempre tenendo strette tra le mani le fotografie.
   «Perché non hai più provato a cercarli?» le chiese Gregory a bassa voce. Lei scosse il capo, come cercando di riordinare le idee.
   «Lo sai benissimo perché. C’eri, quando Giovanni mi ha intimato di non cercarli» rispose laconica.
   «Ricordo perfettamente ciò che ti ha detto. Quello che non capisco è perché hai fatto come voleva lui. Non ha modo di controllare che tu abbia fatto quello che ti ha ordinato!».
   «Oh sì, che ce l’ha. In tutti questi anni ha continuato ad andare a trovare i miei genitori. Ha parlato con loro, sono andati insieme in vacanza, a pranzo, a cena. Li vede spesso, e la ricomparsa della loro primogenita per anni creduta morta di certo non passerebbe inosservata».
   «Non capisco quale sia il problema... racconta ai tuoi genitori come sono andate le cose e di’ loro di non raccontare nulla a Giovanni, di fingere!».
   «Per chiedergli una cosa del genere, dovrei rivelare loro che è stato proprio Giovanni a portarmi via. Non posso!» disse Sofia, stupita d’averglielo dovuto spiegare.
   Gregory era più stupito di lei. «Tu non vuoi che pensino male di lui!» esplose. Non riusciva a crederci: nonostante tutto, Sofia continuava a difendere Giovanni. Scosse la testa. «Non puoi proteggerlo, Sofia. Non puoi. Hai rischiato di farti uccidere da lui già una volta, in futuro potresti non essere così fortunata! ».
   Prima che lei potesse ribattere Blaze, André e Laurence si avvicinarono. In quel momento si resero conto che tutti gli altri se n’erano andati.
   Il giovane americano strinse Sofia. Cercò di mettere in quell’abbraccio tutto quello che provava e probabilmente ci riuscì, perché negli occhi di lei brillò una piccola lacrima di gioia.
   Quando si separarono, fu il turno di Laurence di abbracciarla.
   «Grazie per avermi restituito Ambrosine» le sussurrò.
   Lei ricambiò l’abbraccio: in quel momento tutto era perdonato, da entrambe le parti.
   Mentre i cinque si guardavano, André ebbe un’idea.
   «È quasi mezzanotte. Che ne dite di concludere il Solstizio con una nuotata?» propose con un sorriso.
   Gregory, Blaze e Laurence accolsero favorevolmente l’idea; Sofia sembrò esitare, ma dopo alcune insistenze acconsentì.
   «Be’ allora andiamo!» esclamò Blaze impaziente.
   Lasciarono le scarpe sulla porta dell’Ala Ovest e mossero i primi passi a piedi nudi sull’erba lievemente illuminata dalla luna.
   André guardò gli altri quattro.
   «Al terzo lago dietro le colline!» disse, slanciandosi in avanti. Gli altri lo seguirono, correndo a perdifiato: s’inerpicarono lungo i fianchi ripidi delle colline per poi lasciarsi quasi scivolare nella discesa sul lato opposto. Giunsero in poco tempo al lago indicato da André: rapidamente, i quattro uomini si liberarono dei vestiti e, in boxer, si tuffarono nell’acqua gelida da una sporgenza rocciosa alta qualche metro.
   Sofia rimase dov’era, bloccata. Gli altri riemersero e la fissarono.
   «Sofi, non dirmi che ti vergogni di noi! Avanti, togliti quei vestiti e buttati in acqua!» la spronò Blaze.
   Lei non sembrò ascoltarlo: rimase dove si trovava, quasi senza muoversi.
   Anche André la incitò a tuffarsi. «Sei arrivata fin qui, non puoi restare imbambolata a riva!».
   Laurence e Gregory, invece, non dissero nulla. Uno dei due immaginava di sapere cosa bloccasse la ragazza; l’altro, invece, ne conosceva con certezza il motivo.
   Il suo vecchio insegnante la guardò con tristezza. «Non c’è niente di cui vergognarsi» le mormorò. Nel silenzio, le sue parole risuonarono come se le avesse gridate.
   André e Blaze fissavano alternativamente Sofia e Gregory, confusi; Laurence le fece un cenno d’incoraggiamento.
   Sospirando, Sofia iniziò a sbottonarsi la camicia nera a maniche corte. Quando le scivolò via dal corpo la luna illuminò una grande, bianca cicatrice che, dal centro dello sterno, si allargava sulla parte sinistra del petto e le avvolgeva la spalla e la parte superiore del braccio. A quella vista Blaze e André ammutolirono, e persino Laurence – che pure sapeva di quella ferita, ma non l’aveva mai vista – rimase scioccato. Non aveva mai immaginato che fosse tanto estesa.
   A disagio sotto gli sguardi curiosi, compassionevoli e inorriditi dei suoi amici, Sofia si tolse velocemente i pantaloni e si tuffò nell’acqua scura, immergendosi fino al collo.
   Blaze le fu subito addosso.
   «Sofi, come diavolo ti sei procurata quella cicatrice?» le chiese senza mezzi termini.
   Per tutta risposta lei s’immerse fino al naso e cercò di nuotare via ma la mano di André, che si era a sua volta avvicinato, le afferrò una caviglia e la trattenne.
   «Io non voglio sapere come: voglio sapere quando... da una ferita del genere non si guarisce in tempi brevi e io non ti ho mai vista star male!» esclamò, mettendola alle strette.
   «E che cavolo! Basta!» esplose Sofia, divincolandosi. «Ce l’abbiamo tutti qualche cicatrice, con l’addestramento a cui ci sottoponiamo è normale!».
   «Ma non è normale una cicatrice di quelle dimensioni!» gridarono a una voce Blaze e André.
   Laurence nuotò verso di loro e toccò lievemente le spalle dei suoi due amici: quel semplice gesto bastò per farli calmare, almeno temporaneamente, e Sofia ne approfittò per nuotare via.
   «Non sembri sorpreso... tu lo sapevi?» chiese André a Laurence con un po’ di rabbia mentre nuotavano verso uno scoglio e ci si arrampicavano per parlare liberamente.
   L’uomo annuì. «Sapevo che era stata ferita piuttosto gravemente, una volta, ma non avevo mai visto la cicatrice». Fece una pausa, sospirando.
   «”Era stata ferita”? Allora non è stato un incidente durante l’addestramento! Ma chi è stato?» chiese Blaze.
   Laurence si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. L’ho saputo solo quando stavano per portarla via... André non c’era e hanno chiesto a me di prepararle una piccola borsa per il viaggio».
   «Ma Sofia è sempre partita... be’, da sola. Chi l’avrebbe portata via?» chiese André.
   «Io».
   Tutti e tre si voltarono di scatto. Non avevano sentito Gregory avvicinarsi, né si erano accorti che stava ascoltando la loro conversazione.
   «Tu? Ma allora saprai cosa le è successo... chi è stato... tutto insomma!» esplose André.
   Gregory scosse la testa, inerpicandosi a sua volta sul masso. «Dovrebbe essere lei a parlarne... ma ho la sensazione che non lo farà mai».
   Guardò per un attimo la superficie del lago, liscia e perfetta, spezzata di tanto in tanto dalla testa di Sofia che riaffiorava e poi spariva di nuovo, lontana.
   «Sofia, come ognuno di voi, è stata allontanata a forza dalla propria famiglia» esordì l’uomo, dopo aver riflettuto brevemente. «Con due sole differenze. È stata presa molto prima che il Centro venisse fondato, e il suo rapimento ha richiesto un intero anno, prima di essere portato a termine».
   I due ragazzi più giovani lo interruppero.
   «Anche lei è stata portata via... come noi? Avevo sempre pensato che fosse... non lo so, una figlia illegittima di Giovanni o roba simile!» esplose Blaze.
   Gregory scoppiò a ridere: nonostante tutto, trovava l’idea del ragazzo incredibilmente divertente.
   «E tu André? Che versione ti eri costruito, al riguardo?» gli chiese Gregory, rendendosi conto che anche lui sembrava sorpreso da quello che aveva appena saputo.
   «Inizialmente credevo che Giovanni avesse qualche interesse... particolare, diciamo, verso di lei. Sofi aveva quindici anni e lui la trattava come se fosse il centro del suo universo. Le ruotava attorno, letteralmente: era come se fossero legati insieme da una catena. Se uno dei due faceva un passo, automaticamente l’altro lo seguiva. Poi però ho conosciuto Sofia, siamo diventati amici, e ho capito che la cosa era molto più complicata» tentò di spiegare André.
   Gregory annuì. «Sì, il loro legame è qualcosa che mi ha affascinato da quando li conosco entrambi: diciamo che si colloca nello spazio grigio tra diversi tipi di sentimenti. È un po’ di tutto». Poi proseguì. «Sofia, a differenza degli altri, ha sempre avuto la piena coscienza di quello che le avevano fatto: sapeva benissimo che stratagemmi erano stati messi in atto per portarla via, e da quanto ho capito, sembrava avesse intuito che l’avrebbero strappata alla sua vita prima ancora che lo facessero; e sempre a differenza degli altri, ha avuto il permesso di uscire dal Centro e viaggiare autonomamente, senza alcun controllo».
   I tre annuirono. Sapevano già quello che Gregory stava dicendo loro.
   «Cinque anni fa, resasi conto che nessuno – neanche Giovanni – controllava quello che faceva quando andava all’estero, si decise a cercare la propria famiglia. Ritrovò i suoi nonni paterni, e scoprì dove si trovavano i suoi genitori. Rientrata al Centro, parlò con Giovanni della sua intenzione di tornare dalla propria famiglia e passare del tempo con loro. L’idea di abbandonare il Centro, e con esso Giovanni, non l’ha mai neanche sfiorata; non aveva neanche intenzione di raccontare che era stato proprio Giovanni, dopo aver conquistato la fiducia dei suoi genitori, a portarla via».
   Un’esclamazione di sorpresa interruppe il suo racconto; Gregory li rimproverò.
   «Non ditemi che non avevate immaginato che era stato proprio Giovanni a portarla via! In ogni caso» riprese, «Giovanni si infuriò. Aveva messo su un teatrino veramente degno di nota per portarla via e, come avete giustamente notato, ha sempre avuto una sorta di... dipendenza, diciamo, alla presenza di Sofia. Non le credette e perse il controllo. Poi la attaccò; lei lo conosce fin troppo bene, avrebbe potuto difendersi ma non fece nulla: rimase lì, immobile, a farsi ammazzare perché non voleva fargli del male. Giovanni non si fece altrettanti scrupoli e la bruciò, avete visto la cicatrice, e lei crollò al suolo. Lui si rese conto immediatamente di quello che aveva fatto e mi mandò a chiamare: sapeva che mi trovavo a Cardiff e che, se ci fossimo mossi tutti molto rapidamente, forse avremmo potuto salvarla».
   Riprese fiato e si passò una mano sul volto, ricordando la scena che si era presentata ai suoi occhi quel giorno di cinque anni prima.
   «Dovetti scatenare una tempesta marina per arrivare al Centro nel minor tempo possibile. Rischiai anche di far colare a picco due o tre navi. Quando arrivai... be’, è una scena cui nessuno dovrebbe assistere. Sofia era stesa a terra, e c’era tanto di quel sangue in giro... sembrava che non ce ne fosse più una goccia in lei, era bianca come la neve e l’unica cosa da cui si capiva che era ancora viva erano gli occhi, che conservavano un’ultima scintilla di lucidità: era cosciente. Era completamente bruciata, e tanto a fondo che in alcuni punti si vedeva il cuore battere, del tutto scoperto. Io arrivai, e un minuto dopo lei morì tra le mie braccia».
   Si bloccò con un groppo in gola, esattamente come gli altri tre. Sapeva che stavano immaginando quello che lui aveva vissuto – vedere la vita scivolare via da quel corpo per un motivo tanto futile – e ricordava ancora quanta rabbia avesse scatenato in lui.
   «Ma se era morta come... come...» tentò Blaze prima d’interrompersi, tirando su col naso. Sofia era per lui una seconda sorella, l’aveva aiutato e consolato quando era arrivato al Centro, e il racconto di quello che aveva sofferto si riversava in lui come se l’avessero vissuto insieme.
   Gregory riprese il racconto, un po’ a fatica. «Sofi morì, e Giovanni... impazzì. Letteralmente. Dopo aver perso conoscenza per qualche istante, iniziò a gridare contro tutti: contro di lei, contro di me, contro se stesso. Si ruppe una mano dopo aver distrutto un tavolo, tre sedie e quattro finestre in poco più di un minuto. Dovetti bloccarlo contro un muro con dei ceppi d’Acqua per farlo stare fermo. Ero più arrabbiato di lui: gli Elementi non vanno mai usati per uccidere e, nel suo delirio, mi aveva detto cosa era successo prima del mio arrivo, perché l’aveva attaccata. Provavo pena per quella povera ragazza di cui avevo solo sentito parlare da lui; provavo pena per quello che le aveva fatto quando era una bambina e per come l’aveva uccisa senza battere ciglio, senza fermarsi quando aveva capito che non avrebbe reagito. La presi di nuovo tra le braccia: non potevo fare niente per lei, ma quello era l’unico modo in cui mi sembrava di poterle dare almeno un po’ di affetto. Presi a parlarle... le sussurrai che mi dispiaceva di non essere riuscito a salvarla, e Giovanni iniziò di nuovo a gridare, senza più avere il controllo del proprio Elemento. E il cuore di Sofia... ricominciò a battere. Debole, irregolare: poteva fermarsi di nuovo da un momento all’altro, e stavolta per sempre. La ferita era troppo grave: non potevo guarire tutto. Mi concentrai sul suo cuore. Dopo mezz’ora di sforzi, il battito tornò a essere abbastanza forte da tenerla in vita. Le medicai la ferita e predisposi subito il suo trasferimento negli Stati Uniti, con me».
   «E Giovanni la lasciò andare? Dopo averla quasi uccisa solo perché voleva stare un po’ con la propria famiglia?» chiese André incredulo.
   «Giovanni si era reso conto di quello che aveva fatto. Mentre cercavo di salvarla lo avevo avvertito che se fossi riuscito a strapparla dalle braccia della Morte, che la tenevano tanto stretta, allora l’avrei portata via con me fino a quando non fosse guarita completamente, fisicamente e psicologicamente. Se non avesse accettato, mi sarei fermato immediatamente e non l’avrei guarita. Ovviamente non l’avrei mai fatto; era solo un bluff; ma lui era così terrorizzato all’idea di vederla morire di nuovo che accettò senza esitare un istante, anche se prima di lasciarla andare le ordinò di non cercare mai più la sua famiglia. Sotto le minacce che le faceva – non tanto verso lei stessa, quanto verso i suoi genitori – Sofia cedette. E così la portai via, in un luogo sconosciuto a tutti tranne me, in modo che Giovanni non potesse raggiungerla. Lei guarì molto più rapidamente di quanto mi aspettassi, e mi chiese di addestrarla. Io acconsentii, e anche se in meno di tre mesi si era perfettamente ristabilita, rimase con me molto più a lungo. Poi non potemmo più fingere: lei dovette tornare al Centro, e continuammo a vederci e ad allenarci di nascosto» concluse Gregory.
   «Per questo Sofia si fida tanto di te» disse Laurence piano.
   «Proprio così» disse la voce limpida della ragazza. Ancora un volta, troppo presi nella conversazione, i tre amici non l’avevano sentita avvicinarsi. Gregory invece se n’era accorto ma era andato avanti ugualmente nel racconto consapevole che, se avesse voluto impedirgli di parlare, Sofia sarebbe intervenuta molto prima.
   «Devo dire che ad ascoltarla da fuori, sembra una storia davvero affascinante. La realtà invece è stata solo incredibilmente squallida» aggiunse la giovane.
   Nessuno aggiunse nulla. Tornarono in acqua, galleggiando sulla superficie, e restarono a fissare le stelle fino a quando il sole non sorse sul primo, vero giorno d’estate.
   
 
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