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Autore: lovinfaber    12/05/2015    3 recensioni
[-Creepypasta-]
[-Creepypasta-][-Creepypasta-][-Creepypasta-]Lui: un assassino seriale, sfuggito alla giustizia per diciasette anni. Lei: una giovane costretta a fare del suo corpo una merce. Entrambi reietti (seppure per diversi motivi), sopravvivono in quello stesso mondo che li ha partoriti per poi rinnegarli. In un susseguirsi di incontri casuali, di omicidi, di personaggi che lasciano un segno nelle loro vite, i due si ritroveranno faccia a faccia con i loro demoni.
Avvertenze: contenuti maturi per scene violente e linguaggio forte.
La scelta dei personaggi e della trama è motivata dall'idea di proporre una riflessione (seppure molto parziale) su tematiche come la prostituzione e l'alcooldipendenza.
Eventuali critiche costruttive sono bene accette. Non si accettano commenti offensivi.
I personaggi, i luoghi, le storie e i nomi sono di pura fantasia (ad eccezione di Jeff, di cui non possiedo i diritti). Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.
Genere: Horror, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jeff the Killer
Note: Lime, OOC, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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~~La notte era placida e profonda in quel quartiere agiato dell’Ohio, dove vi perdurava un silenzio a cui facevano da piacevole sottofondo i versi dei grilli, conciliatrori di un ambito sonno ristoratore. Le schiere di villette indipendenti, spente e serrate nella loro tranquillità, celavano le decine di vite al loro interno, che affidavano a Morfeo i loro sogni, il loro riposo, le loro aspettative per il giorno dopo. La penombra dei lampioni sfiorava delicatamente la camera da letto di una delle case, adornata da poster di supereroi, pupazzi e videogames. In un angolo, la lucina intermittente di un vecchio computer in stanby, illuminava una sedia su cui vi erano poggiati alla rinfusa diversi indumenti, probabilmente messi lì col proposito di sistemarli in un secondo momento.
Una busta vuota di patatine oscurava l’orario di una sveglia digitale, sita sul comodino accanto al letto. Una mano si sporse timidamente dalle lenzuola per spostarla, scoprendone l’orario. Erano le 4.45.
“E’ ancora presto” pensò un ragazzo ancora assonnato. Si rigirò nel letto, cercando una posizione comoda per riprendere a dormire, nella speranza che quell’indesiderato risveglio durasse poco. L’ora dei doveri giaceva in una promessa ancora lontana, che prendeva vita ogni giorno alle sette: il giovanotto si sarebbe alzato, avrebbe conteso il bagno con suo fratello e cominciato a lavarsi; poi colazione, autobus, scuola, infine la speranza di finire presto i compiti per strappare al tempo due tiri di pallacanestro nel giardino di casa, prima di essere chiamato da sua madre per la cena. Tutto normale. Un solo velo d’ombra e paura si insinuò nella sua mente: i bulli della scuola che frequentava. Ogni giorno trovavano modo per importunare ragazzini come lui, e ogni giorno lui si alzava dal letto con gli stessi interrogativi: “Oggi cosa mi faranno? Mi beccheranno di nuovo?” Non aveva avuto la forza di parlare con i suoi genitori o con suo fratello, né tanto meno con i suoi insegnanti. Perché mai avrebbe dovuto? Per dimostrare a tutti di essere una femminuccia, proprio come gli dicevano a scuola mentre lo pestavano dietro un cortile, o nei cessi dopo avergli rubato i soldi del pranzo? Doveva sopportare e sperare che le cose cominciassero ad andare meglio, che quei ragazzi trovassero un altro modo per divertirsi, poco male se doveva fare i conti con l’angoscia di trovarseli davanti, o con una rabbia così intensa da spaventare se stesso quando lo sorprendeva.
Ancora assorto nei suoi timori, guardò la finestra della sua camera, e notò che era aperta. Gli venne in mente che a svegliarlo furono proprio le leggere folate di vento e freddo. Si alzò dal letto, sperando di non beccare un malanno; il ragazzino fece per chiuderla, quando spostò l’attenzione alla sua immagine riflessa nello specchio dell’armadio, sito proprio vicino alle imposte. Si guardò per pochi istanti. A giudicare dall’altezza e dall’aspetto, sembrava più grande dei tredici anni che aveva: stava crescendo, e il suo sguardo di ghiaccio, unito al suo incarnato non troppo chiaro e ai suoi capelli castani, erano promessa di una bellezza mascolina e sfrontata che entro pochi anni sarebbe emersa, ma ciò lui non poteva immaginarlo, preso dalle sue insicurezze adolescenziali, contornate di paura e da qualche brufolo di troppo.
Si voltò, attratto da un rumore che aveva udito dall’altra parte della stanza. Credendo che qualcosa fosse caduto da una mensola, visto il disordine in cui riversava camera sua, si recò in direzione del suono, ma non trovò nulla. Guardò sotto al letto, per assicurarsi che non ci fosse finito niente. Quando si rialzò, fu sorpreso da un altro colpo di vento: la situazione cominciò a sembrargli strana, non aveva appena chiuso la finestra? Andò di nuovo verso le imposte, stavolta lentamente, perché cominciò a temere di non essere solo in camera. Diede uno sguardo veloce in giro, e comprese di essere solo. Scrollò il capo dandosi dello stupido, si riavvicinò alla finestra, assicurandosi di averla chiuse per bene. Guardò fuori la sua finestra, ammirando per un lieve momento la luna che faceva capolino da nubi che non promettevano bel tempo. Quando fu sul punto di voltarsi, un grido gli morì in gola: al posto di quella che avrebbe dovuto essere la sua immagine allo specchio, vide un mostro dalla faccia bianca e traviata,  con le guance solcate da grossi tagli da cui grondava sangue, e gli occhi cerchiati di nero, quasi privi di palpebre. Ma ciò che lo atterrì maggiormente di quell’essere fu il suo sguardo inquietante, divertito, spento e folle, che traspariva da quegli occhi così simili ai suoi e così diversi al tempo stesso.
Prima che il ragazzo potesse chiedere aiuto, il mostro allargò le sue labbra in un sorriso sproporzionato, accentuato dalle ferite alla faccia. Poi portò l’indice alle labbra.
«Shhh…torna a dormire, Jeff. Torna a dormire…».
Prima che il ragazzo riuscisse a chiedersi come conoscesse il suo nome, quel demone infranse i vetri dello specchio e gli si gettò addosso, stendendolo a terra: fu a quel punto che sguainò dalle tasche della sua felpa un enorme pugnale insanguinato.
Paralizzato, il giovane udì i palpiti irrefrenabili del suo cuore, che sembrò volergli uscire dal petto. La mano fredda della bestia gli fu sulla bocca,  per impedirgli di gridare, mentre l’altra tenne saldo il pugnale che gli tranciò la gola. Fu l’ultima cosa che vide.


Ore 7.00 del mattino

Un grido irruppe in quella tranquilla mattinata autunnale. Jeff si svegliò di soprassalto, portandosi le mani alla gola: finalmente era riuscito a toccarla, e ad assicurarsi che ce l’aveva ancora intatta. Ansimava forte, capendo di aver solo sognato: i rimasugli dell’incubo ancora lo terrorizzavano. Fissò le sue mani bianche, e capì che nulla era cambiato… Non aveva mai fatto in tutta la sua vita un sogno così strano e terribile, e nonostante avesse compreso che era tutto finito, ancora tremava. Cominciò a guardare il posto in cui si trovava. Come ci era finito in una camera con quattro letti, di cui uno occupato proprio da lui? L’ultima cosa che ricordò era di essersi recato al bar che ormai frequentava da cliente abituale: alla memoria giunsero volti e voci indistinte e confuse, ma non ricordò altro. Fu colto da un gran mal di testa che lo costrinse a stendersi di nuovo sul letto, dandogli prova del fatto che si trovava nel bel mezzo dei postumi di una sbornia. Tale era il suo malessere che notò a malapena una persona che, seduta su una sedia poco distante dal letto, lo fissò sgranando gli occhi.
« Bensvegliato, Biancaneve. Hai fatto un brutto sogno? » chiese la sconosciuta. Jeff si limitò a girare gli occhi verso di lei, e impiegò un po’ a comprendere che si trattava della sgualdrina che lui osservava da tempo. Abituato a vederla sempre mezza nuda, piena di volgari gingilli e di infinite quantità di trucco, faticò a riconoscerla, visto che in quel momento era infagottata in un largo maglione rosa e un paio di jeans che ben celavano le sue forme, col viso privo di ogni traccia di cosmetico.
Jeff tentò nuovamente di sollevarsi dal letto, ma il suo capogiro fu ancora più impietoso.
« Meglio se resti disteso ancora un po’.» intervenne nuovamente la ragazza.
Il killer cercò di articolare faticosamente una domanda: « Co…come mi trovo qui?»
« Sei finito in casa nostra perché stanotte hai alzato il gomito. Ho provato a riaccompagnarti alla tua auto, ma eri talmente sbronzo che non ricordavi niente. Sei svenuto, e visto che pioveva a dirotto, ti abbiamo portato qui. ».
La giovane non terminò il suo racconto, che Jeff si sollevò improvvisamente sulla schiena, colto da conati di vomito.
« Oh mio Dio… Ragazze, mi serve il secchio, presto! » gridò Andrea, sperando che qualcuno accorresse in suo aiuto, mentre si avvicinò a Jeff per soccorrerlo.
Quando giunse Martha con un secchio tra le mani, seguita da Kate e Laura che si affacciarono nella stanza, la ragazza sospirò rassegnata: « Troppo tardi…» mentre indicò il pavimento imbrattato di una puzzolente poltiglia giallognola.
Qualche minuto dopo, Jeff era di nuovo coricato nel letto, leggermente sollevato, nonostante il mal di testa si facesse ancora sentire. Alzò leggermente il capo dal cuscino, osservando Andrea che, aiutata da una ragazza dai capelli biondi, puliva il pavimento.
« Grazie, Kate.» disse all’amica. Si allontanarono entrambe dalla camera. Trascorse qualche minuto prima che la castana tornò con due fette di pane racchiuse all’interno di un tovagliolo di carta.
« Tieni, Biancaneve. Mangia. Ti aiuta a non vomitare. »
« Non voglio mangiarlo, adesso. E non chiamarmi Biancaneve. » disse Jeff stancamente, mentre appoggiò di nuovo la testa sul cuscino, coprendosi gli occhi con un avambraccio, come a cercare sollievo dal suo stato di emicrania, col quale conviveva ogni volta che era reduce da un’ubriacatura.
« Come vuoi che ti chiami, allora?» chiese la giovane con un sorrisetto sarcastico.
« Jeff.».
La ragazza poggiò il fagotto con le fette di pane sul comodino accanto al letto: « Molto piacere. Il mio nome è Andrea.».
Jeff stampò quel nome nella memoria, e scostando il suo braccio dagli occhi, la fissò.
Di fronte a quei due grandi occhi marroni che lo guardavano incuriositi, il killer ricordò di avere un volto che non avrebbe mai potuto mostrare senza incutere orrore, e saperlo alla mercè dello sguardo di lei lo fece sentire nudo.
La sua voce tradì preoccupazione quando le disse: « Tu…hai visto la mia faccia…»
«L’abbiamo vista tutte noi, e abbastanza a lungo da averci fatto l’abitudine.» ribatté Andrea con tutta la brusca sincerità di cui era capace. La leggerezza con cui la ragazzina aveva risposto gli fece ben comprendere che nessuno lo aveva riconosciuto o segnalato, e ciò gli fece tirare un sospiro di sollievo. Il vero volto di Jeff the Killer era noto solo alla stampa locale della cittadina in cui aveva vissuto, ma non oltrepassò mai quei confini. L’unico articolo che parlò di lui fu visto come una trovata di un giornaletto di serie B, e il solo testimone rimasto in vita in seguito a una sua “visita” restò inascoltato, le sue dichiarazioni furono allora interpretate  dalla polizia come allucinazioni di un ragazzino che aveva visto troppi film horror. Jeff ricordava spesso quella notte di diciassette anni prima e ne rideva, incredulo a quanto potessero essere così stupide le persone. La gente, così sadicamente attenta al brivido e al raccapriccio, così fantasiosa nel creare leggende metropolitane anche laddove non vi era motivo, non volle mai riconoscere quel volto terrificante come possibile, reale. Quel caso fu archiviato come un tentativo di furto andato in fumo, e quel ragazzino superstite trascorse i successivi cinque anni della sua vita a farsi curare da uno strizzacervelli, almeno è tutto ciò che Jeff seppe in seguito. Tutto ciò che si conosceva dell’identità di Jeff erano le parole “sconosciuto assassino”, “serial killer” o “soggetto ignoto”. In poche parole, Jeffrey Alan Woods era uno dei tanti ignoti psicopatici che infestavano l’America, nonostante lui fosse il solo ad avere la prerogativa di intrufolarsi nelle case della gente, e questa peculiarità lo rendeva particolarmente terrificante.
La nebbia dei suoi ricordi fu presto dissipata da una voce allarmata che irruppe nella stanza.
« Paul è qui, sta venendo! » Martha entrò fremente di paura.
« Cazzo!» esclamò Andrea, non sapendo cosa fare.
Intervenne Kate, che senza esitazione disse:« Ci penso io a distrarlo, voi fate uscire il ragazzo dalla finestra.», era incredibile come quella giovane riuscisse a mantenere il sangue freddo anche nelle situazioni più disperate.
«Ok. Hai sentito, dolcezza? Ora devi smammare!» disse Andrea aprendo la finestra, mentre Martha provvide a ridargli la sciarpa. Nel giro di pochi secondi, Jeff si ritrovò quasi scaraventato fuori. Ancora con la testa dolorante, cercò di andare via, ma fu trattenuto da una mano che gli afferrò il cappuccio della felpa.
« Non ancora, dannazione! Aspetta prima che entri, potrebbe vederti!» esclamò Andrea in preda alla stizza. Affacciata al davanzale, la giovane lo tratteneva tenendo fermo quel pezzo di stoffa dell’indumento di Jeff come fosse un appiglio da cui dipendeva la sua vita. Quando  Andrea udì il suono della porta chiudersi, e la voce di Paul troneggiare nell’ingresso di casa, si voltò verso Jeff, lasciando andare la presa, e gli sussurrò: « Ora vai.».
Il giovane killer non se lo fece ripetere due volte: a passo svelto si avviò, raggiungendo il fitto bosco che lo separava dal mondo, con un solo pensiero nella sua mente:
“Ci rivedremo presto…Andrea”.

   
 
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