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Autore: Achernar    13/05/2015    2 recensioni
“Ma lui è morto, Yugi. È morto!” ormai le lacrime scorrevano senza più un freno dalle sue guance e Anzu scuoteva la testa freneticamente. Non avrei dovuto alzare la voce, non avrei dovuto alzarmi di scatto dal divano. Non avrei dovuto lasciare quel maledetto dito sulla scrivania.
“No, non è morto finché non lo dico io!” ho urlato.
Non avrei mai dovuto lasciarlo andare.
Genere: Dark, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Atemu, Dark/Yami Yuugi, Yuugi Mouto
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ed ecco il sofferto capitolo 19, manca così poco alla fine... *si commuove*

Buona lettura!


18 febbraio 2004, Domino

Caro diario,

Eravamo al nostro quarto incontro. Ironicamente, ho fatto di tutto perché si verificassero quanto più possibile di rado: Atem è impaziente di andarsene, tutto ciò che posso fare è fornirgli il minimo indispensabile di informazioni ogni volta che ci vediamo e poi posticipare il prossimo incontro di giorni, fino a sfiorare il limite del sospetto. E infatti si sta insospettendo. Ma ormai non si preoccupa più neanche di nasconderlo, ha perso qualunque interesse nel mondo, si è totalmente lasciato andare, non gli importa più di niente. Di me

La prima volta siamo rimasti in silenzio quasi tutto il tempo, a guardarci negli occhi a tratti perché mentre io mi rifiutavo di staccargli gli occhi di dosso, lui non voleva far vedere quanto in realtà fosse interessato a me, al fatto che ero lì e che nonostante tutto non riusciva a odiarmi o a provare nei miei confronti la quantità di indifferenza che desiderava. Così i suoi occhi si posavano su di me per un istante, poi fuggivano via di nuovo, attratti dalle forme dei piatti impilati sulla credenza, oggetti che aveva visto e studiato tutti i giorni per mesi, che adesso gli sembravano solo gli addobbi vuoti di quella che più che una casa era ormai quasi una prigione. E io il suo carceriere.

Ci siamo solo salutati, un ciao da parte mia, un cenno del capo da parte sua, poi niente. Lui aspettava che io cominciassi a parlare, che mi giustificassi, che gli spiegassi come poteva mettere la parola fine a tutto questo per poi ringraziare con finto riconoscimento, uscire dalla porta e non fare mai più ritorno. Invece io non ho aperto bocca: non sarei stato io ad affrontare largomento, Atem era tutto ciò che avevo ormai e non avrei accettato che se ne andasse, non senza lottare. Ammesso che ci fosse ancora qualcosa per cui lottare

«Perché?» lo aveva pronunciato così piano, con così tanto dubbio che non riuscivo a capire se si trattasse di unaffermazione o di una domanda. Quella parola era intrisa di pensieri, di riflessioni alle quali non era riuscito a trovare una risposta. Non ho detto niente, ho sospirato e mi sono chinato in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa appoggiata sulle mani. Poi le mie labbra si sono piegate allinsù, gli occhi persi nei ricordi.

«Avevate lo stesso sorriso».

Atem si è girato verso di me, uno sguardo indecifrabile negli occhi: era sorpreso, infastidito, colto alla sprovvista, ferito chissà cosa provava nei confronti di mou hitori no boku, chissà se avrebbe mai voluto somigliare a lui, se per lui le mie parole sembravano un insulto. Avevano lo stesso sorriso. Ho alzato lo sguardo per incrociare quello di Atem. Ma non hanno mai avuto gli stessi occhi, e la realizzazione si è riversata su di me come una doccia calda, una verità che in fondo non faceva così male perché a piccole dosi lavevo già assaporata, ogni giorno, un boccone alla volta. Atem aveva occhi rossi. Mou hitori no boku aveva occhi vivi. Non sarebbero mai stati uguali.

«Scusa». Quel giorno mi sono scusato con lui, gli ho chiesto perdono e lui mi ha chiesto per che cosa. Sono rimasto in silenzio perché a dire il vero ero ancora tropo egoista per essere sinceramente pentito di quello che avevo fatto, forse lo sono ancora adesso. Non chiedo scusa per quello che ho fatto a me stesso, posso sentirmi in colpa per aver rovinato la vita dei miei amici, per aver messo Atem in una situazione del genere, per avergli mentito, ma non per averlo per averlo creato. Sono ancora felice di aver potuto passare del tempo con lui, anche se quel tempo è finito. Scusami per averti mentito, avevi il diritto di sapere la verità, di decidere se volevi continuare a vivere al mio fianco o addormentarti di nuovo. La realtà è che era così che dovevano andare le cose ma ho avuto troppa paura per farcela: tu hai aperto gli occhi, non sapevi chi eri, eri uguale a lui, e io amavo lui, lo amavo sul serio. Mi dispiace. E Atem mi ha guardato negli occhi, ancora vuoti come quelli di una bambola.

«Hai mai amato me?».

Amavo il riflesso di mou hitori no boku in Atem, amavo il fatto di poterlo guardare per ore giocando a trovare le differenze fra lui e laltro me, amavo i suoi capelli, amavo il fatto che lui cera sempre, che dipendeva da me, che non mi avrebbe lasciato

«E tu?» ho risposto.

«Che scelta avevo…».

Ho risposto a tutte le sue domande quel giorno, abbiamo passato il pomeriggio seduti sul divano del salotto mentre io mi sentivo come uno studente la mattina dellinterrogazione: la domanda facile non arrivava mai, la maestra era spietata, le risposte non andavano mai bene e quelle a trabocchetto erano sempre dietro langolo. Per Atem non era mai sufficiente. Voleva sapere di più, ma allo stesso tempo si rifiutava di essere ancora dipendente da me. Eppure cerano cose che neppure a Ryou poteva chiedere e, anche se odiava ammetterlo, io ero ancora importante per lui. Non gli ho chiesto nulla su Ryou, non mi sembrava giusto togliergli anche quel briciolo di privacy che si era ricavato. Ma Atem mi mancava, così glielho detto. Ha sorriso, distrattamente, poi si è alzato dal divano e si è avviato alla porta.

Ci siamo visti altre due volte e poi la quarta, ieri. Già dalla seconda volta abbiamo cominciato ad affrontare la sua richiesta, e Atem era risoluto: non sono mai riuscito a smuoverlo di un millimetro, mai riuscito a fargli cambiare idea. Lui era finto, diceva, mentre io avrei voluto urlargli in faccia che era reale, lo era per me. Lui non sarebbe mai dovuto esistere, lui non aveva uno scopo, non aveva nessuno, solo me. E io gli avevo mentito. Di me non si fidava. Non si sarebbe fidato più. Cera dellaltro sotto quelle scuse, ne ero certo, ma Atem non me lha rivelato. Mi ha chiesto perché lo avevo creato, gli ho risposto perché ero solo. Ha riso. Lui è una macchina, un automa, quando io invecchierò, lui sarà sempre uguale, quando io morirò lui sarà ancora lì, per anni, secoli, potenzialmente per sempre. A lui non pensavo? Era lui che sarebbe rimasto solo.

E dopo il terzo incontro ho capito che non cera più alcuna speranza, quando si è rifiutato di parlare di nuovo di mou hitori no boku, quando la sola menzione dellaltro me era sufficiente per fargli saettare gli occhi e trafiggermi con lo sguardo. Si rifiutava di essere la brutta copia di qualcuno: non aveva unidentità, non poteva sopportarlo. Mi sono scusato ancora, ma stavolta Atem non ha ascoltato le mie scuse. Mi ha chiesto di aiutarlo a farla finita. Ha detto che Ryou aveva accennato a un programma di spegnimento. Mi ha detto di cominciare a lavorarci su, mi avrebbe aiutato lui se necessario, ma doveva andarsene, non ce la faceva più. Tanto, ha detto ridacchiando amaramente, non andrà a finire allinferno per via di un suicidio, le macchine non hanno unanima.

Oggi, quando ho aperto la porta ad Atem, mi sono sentito stanco. Sono passati quasi sei anni da quel giorno di giugno, otto da quel giorno dinverno, sedici da quel quattro giugno in cui a otto anni ho stretto tra le mani per la prima volta il cofanetto contenente il puzzle. Era freddo tra le mie dita, i pezzi erano grandi per le mani di un bambino, raramente si incastravano fra loro, eppure ogni volta che lo facevano correvo da mia madre per mostrarle i miei progressi. Assemblare tre pezzi in un anno era una soddisfazione incredibile per me. Lo è stata anche incastrare lultimo, umido pezzo dentro la piramide, lo è stato entrarvi dentro, abitarla insieme al suo spirito. Quei giorni sorridevo, ridevo, ridevamo tutti quanti, rideva mou hitori no boku. Amavo la sua risata. La amo ancora. Forse perché non era qualcosa che sentivo spesso, non era qualcosa che faceva davanti a chiunque, mi sentivo speciale quando riuscivo a farlo ridere: quel suono era solo per me, il mio premio.

Avevo vissuto la mia avventura, avevo provato a prolungarla, a evitare la parola fine, ma stava arrivando, forse era già arrivata e io ho fatto finta di non vederla. Non avevo più niente da fare. Non cera più niente da dire, basta. Ero stanco.

Atem si è seduto sul divano come le altre volte, gli ho detto di aspettare un attimo, sono ritornato con un mucchio di appunti che ho lasciato sparsi sul tavolino. Il programma di spegnimento, gli ho spiegato. Mi sono sforzato di mantenere una voce ferma, ma la sentivo sul punto di incrinarsi a ogni momento. Lo stavo lasciando andare, era finita. Eravamo tutti stanchi.

Atem annuiva di tanto in tanto, gli ho detto che avrei avuto bisogno di un po di tempo per portare a termine il programma, forse una settimana, forse di più, poi avrebbe potuto avviarlo. Non ho detto avremmo. Atem non ci ha fatto caso. Sono stanco, ma non lo aiuterò a morire. Merito quello che sta succedendo, mi sono fatto prendere dal fumo dei miei sogni, ho scavalcato il limite di ciò che era permesso, è giusto che paghi. Lunica cosa che posso fare per Atem adesso è lasciarlo libero. Io sono lancora che lo tiene saldo a questa terra, la persona che lo ha costretto a venirci in primo luogo: si sentirebbe sempre in dovere nei miei confronti, non riuscirebbe mai a staccarsi del tutto. Ma Atem può essere autonomo. Merita questa possibilità, lultima. Invece per me sono finite. Non ha più senso prolungare gli incontri o vederci ancora, non abbiamo più niente da dirci: ho perso.

«E poi... devo solo accendere il programma e poi... morirò?» non riusciva a dire: mi spegnerò, non riusciva a pensare a se stesso come a un robot. Atem era umano, più umano di quanto lui stesso si fosse convinto di essere, e io credo che sia solo la mia presenza a impedirgli di capirlo, quando me ne sarò andato potrà finalmente vivere la sua vita.

«Il programma partirà dal computer, devi essere collegato al cpu perché funzioni, c’è un cavo nel mio laboratorio, quello che ho usato laltra volta...». Ha annuito, si fingeva impassibile.

«Quanto ci vorrà?».

«Non più di un paio dore... dì a Ryou di venirti a prendere dopo, altrimenti il laboratorio resterà così come lo hai lasciato anche per anni».

«Perché, non ci penserai tu a sistemare?».

«Ah sì, è vero...». No, non ci sarei stato io a sistemare. Non volevo avere niente a che fare con la sua morte. Era un passo che avrebbe fatto da solo.

«Yugi...».

«Hm?» anche lui era stanco, glielo leggevo dal modo in cui le palpebre nascondevano pesantemente metà delle sue iridi.

«Mi dispiace che debba finire così... ma non posso restare».

«Tu puoi restare» ho sospirato sorridendo appena «Ma hai deciso che non vuoi».

«Non...»

«No, ti ho promesso che avrei smesso di cercare di farti cambiare idea. Ma voglio che tu sappia... insomma, non devi. Non è qualcosa che il mondo si aspetta che tu faccia. Tutti meritiamo di vivere, Atem».

«Ma io non vivo».

«Cosa vuol dire per te vivere? Respirare, uscire fuori strillando dallutero di una donna? Vedere i tuoi capelli diventare bianchi e poi cadere uno a uno? Vedere i tuoi amici, la persona che ami, chiudere gli occhi per sempre e abbandonarti? Pff» langolo al lato della mia bocca si sollevava appena mentre mi passavo le mani tra i capelli.

«Yugi,».

«È qualcosa che a te sarà risparmiato, Atem, potrai decidere di farla finita quando vorrai, il programma sarà sempre pronto, ti chiedo solo di non prendere decisioni affrettate» gli ho poggiato una mano sul petto, non si è ritratto al contatto, non si è scansato ripugnato dal semplice fatto che io fossi vicino a lui, come era successo la prima volta. Cera il suo cuore artificiale lì, il rumore di battiti registrati sulla mia stessa frequenza, vibrazioni che non avrebbero mai pompato sangue in nessuna arteria.

«Non c’è niente che batta lì...» ha sussurrato.

«No,» No, hai ragione «Ma questo non fa di te una non-persona, Atem, tu mi ami? Puoi provare emozioni? Ti ho visto ridere, digrignare i denti, dormire, ricordare, sospirare...».

«Solo perché sono programmato per farlo...».

«E io no? Si chiama DNA Atem, decide tutto quello che mi sarà permesso di fare». Ha sospirato pesantemente, si è scostato una ciocca di capelli dal viso.

«Sono stanco, Yugi. Ti prego...».

«Ok» gli occhi mi si riempivano di lacrime mentre cercavo di articolare quelle poche sillabe, ma non piangevo per quel che avevo perso. Lo avevo lasciato andare molto tempo fa: insieme a mou hitori no boku era morta anche una parte di me, era stato sciocco cercare di fingere che fosse ancora in vita. Volevo piangere perché Atem meritava una seconda possibilità, un futuro lontano da me, e invece non lo voleva, credeva di essere lui il responsabile, voleva morire per mettere a posto le cose quando invece lunica persona che avrebbe dovuto pagare ero io. E il modo in cui mi si chiedeva di pagare era lunico che non volevo assolutamente affrontare: non potevo lasciar andare anche lui. Qualunque altro modo, ma non quello.

«Posso...?».

Era un sussurro rotto, sapevo che Atem lo aveva sentito solo perché lho visto girarsi appena verso di me, una domanda stampata nei suoi occhi. Lho stretto a me, lho abbracciato come quella prima notte, quando ancora era ignaro come un bambino e non aveva idea di come sarebbero finite le cose. Lho abbracciato perché mi ricordava mou hitori no boku, un addio inevitabile e la consapevolezza che a volte un lieto fine non esiste. Lho abbracciato perché gli volevo bene, anche a lui, e io avevo bisogno di aggrapparmi di nuovo a qualcosa perché ero stanco di essere forte, tanto stanco, e prima di essere forte per unultima volta volevo concedermi il lusso di essere debole e spezzarmi.

Ho cominciato a piangere, in silenzio per paura di una sua reazione. Mi ha accarezzato la testa. Sembrava il tocco del nonno. Era rassegnazione, pazienza. Mi ha allontanato dopo un paio di minuti, asciugandomi le lacrime con il dito prima che potessi scusarmi. Si è avvicinato al mio viso, indugiando un attimo mentre fissava le mie iridi annebbiate dalle lacrime e dai capelli che mi si erano appiccicati al volto. Ho sperato, ho sperato stupidamente unultima volta in quellistante, solo per quellistante, che lincantesimo non si spezzasse, che lui non cambiasse idea. La sua mano si è poggiata sulla mia guancia, carezzandola impercettibilmente.

«Non posso farlo...» ha mormorato con un filo di voce «Non sarebbe giusto...».

«Ok» ho ingoiato un singhiozzo. Era giusto così, dovevo accettarlo. «Ti chiamo quando il programma sarà pronto».

«Ok» sussurrava anche lui. Forse le parole avrebbero fatto meno male se le avessimo continuato a pronunciarle a bassa voce. Era una forma di censura, di protezione. «Ci vediamo fra qualche giorno allora...» ha poggiato la fronte sulla mia, un secondo, poi si è alzato e dandomi le spalle si è avviato verso la porta, uscendo di casa. Non si è mai voltato indietro. Le lacrime scendevano lentamente dalle mie guance, rigandomi il collo, hanno continuato per ore. Ma io ero silenzioso. Non cera più niente da dire.

Allinizio ho pensato di andarmene. Partire.

Ho dei parenti lontano, i miei genitori vivono in America ormai e conosco gli Ishtar che invece sono in Egitto, sarebbe facile andare a chiedere ospitalità a loro, ci separerebbero migliaia di chilometri: Atem non dovrebbe più preoccuparsi della mia influenza. Sparirei dalla sua vita, definitivamente. Ma so che non sarebbe abbastanza.

Per lui resterei sempre uno spettro, qualcosa che potrebbe fare ritorno da un momento allaltro e anche se io non lo farei, come potrebbe lui fidarsi di me dopo tutto quello che gli ho fatto? Non gli ho raccontato che bugie, nessuno mi crederebbe. E poi il suo orgoglio non potrebbe accettarlo: lo farei di nuovo per proteggerlo, si sentirebbe ancora in gabbia. E in quanto a me... non so se avrei la forza di andarmene. Non perché partire richiederebbe coraggio ma perché... non voglio, non vale la pena partire e cercare di ricominciare unaltra volta, non ho la forza di farlo. Non voglio ricostruirmi una vita: ci ho già provato una volta e non ha funzionato, ed era lunico modo in cui avevo intenzione di provarci.

Spero mi perdoneranno. Mamma, papà, Jonouchi, Anzu, Honda, Ryou... Atem. Se deciderà di restare.

Ho provato ad andare avanti, sul serio, ho provato, e mi sono accorto di non farcela, lunico modo era tornare indietro, riportando da me la persona che mi aveva abbandonato. Ora so che era sbagliato, lo sapevo da tempo, perché non si può vivere di ricordi. Ma io non ne sono capace...

Vorrei potergli lasciare qualcosa, un regalo, un simbolo, delle belle parole... ma mou hitori no boku era quello bravo a intavolare discorsi, io non sono in grado, parlare in pubblico mi spaventa, avere lattenzione di tutti su di me non mi piace e non saprei che cosa dire. Le parole non basterebbero oppure sarebbero troppo. Vorrei solo che i ragazzi non odiassero mou hitori no boku, che dessero ad Atem una possibilità quando io non potrò più dirgli come devono comportarsi con lui. Cosa vuol dire essere umano? Cosa definisce lumanità? Compassione, empatia, coraggio, perseveranza, generosità, amicizia... nulla di tutto questo gli manca, Atem ha tutte queste qualità e deve coltivarle, esattamente come tutti gli altri. Atem è una persona, senza di me lo diventerà, potrà essere quello che vuole, anche cessare di essere se lo desidera: non gli ho mentito quando ho detto che avrei preparato il programma. Magari potrei fare come in quei film super drammatici, scrivere una lunga lettera piena di sentimento e appoggiarla sul tavolo del laboratorio per i posteri. Peccato che non abbia ancora idea di cosa scrivere, ma forse mi verrà in mente qualcosa, forse riuscirei a far cambiare idea ad Atem... E almeno avrei la possibilità di salutare tutti quanti.

  
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