Ed ecco il sofferto capitolo 19, manca così poco alla fine... *si commuove*
Buona lettura!
18
febbraio 2004, Domino
Eravamo
al nostro quarto
incontro. Ironicamente, ho fatto di tutto perché
si
verificassero quanto più
possibile di rado: Atem è
impaziente di andarsene, tutto ciò
che posso fare è
fornirgli il minimo indispensabile di informazioni ogni volta che ci
vediamo e
poi posticipare il prossimo incontro di giorni, fino a sfiorare il
limite del
sospetto. E infatti si sta
insospettendo. Ma ormai non si preoccupa più
neanche di nasconderlo, ha perso qualunque interesse nel mondo, si è
totalmente lasciato andare, non gli importa più
di niente. Di me…
La
prima volta siamo
rimasti in silenzio quasi tutto il tempo, a guardarci negli occhi a
tratti
perché
mentre io mi rifiutavo di staccargli gli occhi di dosso,
lui non voleva far vedere quanto in realtà
fosse interessato a me, al fatto che ero lì
e
che nonostante tutto non riusciva a odiarmi o a provare nei miei
confronti la
quantità
di indifferenza che desiderava. Così
i suoi occhi si posavano su di me per un istante, poi
fuggivano via di nuovo, attratti dalle forme dei piatti impilati sulla
credenza, oggetti che aveva visto e studiato tutti i giorni per mesi,
che
adesso gli sembravano solo gli addobbi vuoti di quella che più
che una casa era ormai quasi una prigione. E io il suo
carceriere.
Ci
siamo solo salutati,
un ciao da parte mia, un cenno del capo da parte sua, poi niente. Lui
aspettava
che io cominciassi a parlare, che mi giustificassi, che gli spiegassi
come
poteva mettere la parola fine a tutto questo per poi ringraziare con
finto
riconoscimento, uscire dalla porta e non fare mai più
ritorno. Invece io non ho aperto bocca: non sarei stato
io ad affrontare l’argomento,
Atem era tutto ciò
che avevo ormai e non avrei accettato che se ne andasse,
non senza lottare. Ammesso che ci fosse ancora qualcosa per cui lottare…
«Perché?»
lo aveva pronunciato così
piano, con così
tanto dubbio che non riuscivo a capire se
si trattasse di un’affermazione
o di una domanda. Quella
parola era intrisa di pensieri, di riflessioni alle quali non era
riuscito a
trovare una risposta. Non ho detto niente, ho sospirato e mi sono
chinato in
avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa appoggiata sulle
mani. Poi…
le mie labbra si sono piegate all’insù,
gli occhi persi nei ricordi.
«Avevate
lo stesso sorriso».
Atem
si è
girato verso di me, uno sguardo indecifrabile negli
occhi: era sorpreso, infastidito, colto alla sprovvista, ferito…
chissà
cosa provava nei confronti di mou hitori
no boku, chissà
se avrebbe mai voluto somigliare a lui, se
per lui le mie parole sembravano un insulto. Avevano lo stesso sorriso.
Ho
alzato lo sguardo per incrociare quello di Atem. Ma non hanno mai avuto
gli
stessi occhi, e la realizzazione si è
riversata su di me come una doccia calda, una verità
che in fondo non faceva così
male perché
a
piccole dosi l’avevo
già
assaporata, ogni giorno, un boccone alla volta. Atem aveva occhi rossi.
Mou hitori
no boku aveva occhi vivi. Non sarebbero mai stati uguali.
«Scusa».
Quel giorno mi sono scusato con lui, gli ho chiesto perdono e lui mi ha
chiesto
per che cosa. Sono rimasto in silenzio perché
a
dire il vero ero ancora tropo egoista per essere sinceramente pentito
di quello
che avevo fatto, forse lo sono ancora adesso. Non chiedo scusa per
quello che
ho fatto a me stesso, posso sentirmi in colpa per aver rovinato la vita
dei
miei amici, per aver messo Atem in una situazione del genere, per
avergli mentito,
ma non per averlo…
per averlo creato. Sono ancora felice di
aver potuto passare del tempo con lui, anche…
se
quel tempo è
finito. Scusami per averti mentito, avevi
il diritto di sapere la verità,
di decidere se volevi continuare a vivere
al mio fianco o addormentarti di nuovo. La realtà
è
che era così
che
dovevano andare le cose ma ho avuto troppa paura per farcela: tu hai
aperto gli
occhi, non sapevi chi eri, eri uguale a lui, e io amavo
lui, lo amavo sul serio. Mi dispiace. E Atem mi ha guardato
negli occhi, ancora vuoti come quelli di una bambola.
«Hai
mai amato me?».
Amavo
il riflesso di mou
hitori no boku in Atem, amavo il fatto di poterlo guardare per ore
giocando a
trovare le differenze fra lui e l’altro
me, amavo i suoi capelli, amavo il fatto che lui c’era
sempre, che dipendeva da me, che non mi avrebbe
lasciato…
«E
tu?»
ho
risposto.
«Che
scelta avevo…».
Ho
risposto a tutte le
sue domande quel giorno, abbiamo passato il pomeriggio seduti sul
divano del
salotto mentre io mi sentivo come uno studente la mattina dell’interrogazione:
la domanda facile non arrivava mai, la
maestra era spietata, le risposte non andavano mai bene e quelle a
trabocchetto
erano sempre dietro l’angolo.
Per Atem non era mai sufficiente.
Voleva sapere di più,
ma allo stesso tempo si rifiutava di essere
ancora dipendente da me. Eppure c’erano
cose che neppure a Ryou poteva chiedere e, anche se odiava ammetterlo,
io ero
ancora importante per lui. Non gli ho chiesto nulla su Ryou, non mi
sembrava
giusto togliergli anche quel briciolo di privacy che si era ricavato.
Ma Atem
mi mancava, così
gliel’ho
detto. Ha sorriso, distrattamente, poi si è
alzato dal divano e si è
avviato alla porta.
Ci
siamo visti altre due
volte e poi la quarta, ieri. Già
dalla seconda volta abbiamo cominciato ad
affrontare la sua richiesta, e Atem era risoluto: non sono mai riuscito
a
smuoverlo di un millimetro, mai riuscito a fargli cambiare idea. Lui
era finto,
diceva, mentre io avrei voluto urlargli in faccia che era reale, lo era
per me.
Lui non sarebbe mai dovuto esistere, lui non aveva uno scopo, non aveva
nessuno, solo me. E io gli avevo mentito. Di me non si fidava. Non si
sarebbe
fidato più.
C’era
dell’altro
sotto quelle scuse, ne ero certo, ma Atem non me l’ha
rivelato. Mi ha chiesto perché
lo avevo creato, gli ho risposto perché
ero solo. Ha riso. Lui è
una
macchina, un automa, quando io invecchierò,
lui sarà
sempre uguale, quando io morirò
lui sarà
ancora lì,
per anni, secoli, potenzialmente per sempre. A lui non pensavo? Era lui
che
sarebbe rimasto solo.
E
dopo il terzo incontro
ho capito che non c’era
più
alcuna speranza, quando si è
rifiutato di parlare di nuovo di mou
hitori no boku, quando la sola menzione dell’altro
me era sufficiente per fargli saettare gli occhi e trafiggermi con lo
sguardo.
Si rifiutava di essere la brutta copia di qualcuno: non aveva un’identità,
non poteva sopportarlo. Mi sono scusato
ancora, ma stavolta Atem non ha ascoltato le mie scuse. Mi ha chiesto
di
aiutarlo a farla finita. Ha detto che Ryou aveva accennato a un
programma di
spegnimento. Mi ha detto di cominciare a lavorarci su, mi avrebbe
aiutato lui
se necessario, ma doveva andarsene, non ce la faceva più.
Tanto, ha detto ridacchiando amaramente, non andrà
a finire all’inferno
per via di un suicidio, le macchine non hanno un’anima.
Oggi,
quando ho aperto la
porta ad Atem, mi sono sentito stanco. Sono passati quasi sei anni da
quel
giorno di giugno, otto da quel giorno d’inverno,
sedici da quel quattro giugno in cui a otto anni ho stretto tra le mani
per la
prima volta il cofanetto contenente il puzzle. Era freddo tra le mie
dita, i
pezzi erano grandi per le mani di un bambino, raramente si incastravano
fra
loro, eppure ogni volta che lo facevano correvo da mia madre per
mostrarle i
miei progressi. Assemblare tre pezzi in un anno era una soddisfazione
incredibile per me. Lo è
stata anche incastrare l’ultimo,
umido pezzo dentro la piramide, lo è
stato entrarvi dentro, abitarla insieme al suo spirito.
Quei giorni sorridevo, ridevo, ridevamo tutti quanti, rideva mou hitori
no
boku. Amavo la sua risata. La amo ancora. Forse perché
non era qualcosa che sentivo spesso, non era qualcosa
che faceva davanti a chiunque, mi sentivo speciale quando riuscivo a
farlo
ridere: quel suono era solo per me, il mio premio.
Avevo
vissuto la mia
avventura, avevo provato a prolungarla, a evitare la parola fine, ma
stava
arrivando, forse era già
arrivata e io ho fatto finta di non
vederla. Non avevo più
niente da fare. Non c’era
più
niente da dire, basta. Ero stanco.
Atem
si è
seduto sul divano come le altre volte, gli ho detto di
aspettare un attimo, sono ritornato con un mucchio di appunti che ho
lasciato
sparsi sul tavolino. Il programma di spegnimento, gli ho spiegato. Mi
sono
sforzato di mantenere una voce ferma, ma la sentivo sul punto di
incrinarsi a
ogni momento. Lo stavo lasciando andare, era finita. Eravamo tutti
stanchi.
Atem
annuiva di tanto in
tanto, gli ho detto che avrei avuto bisogno di un po’
di tempo per portare a termine il programma, forse una
settimana, forse di più,
poi avrebbe potuto avviarlo. Non ho detto
avremmo. Atem non ci ha fatto caso.
Sono stanco, ma non lo aiuterò
a morire. Merito quello che sta
succedendo, mi sono fatto prendere dal fumo dei miei sogni, ho
scavalcato il
limite di ciò
che era permesso, è
giusto che paghi. L’unica
cosa che posso fare per Atem adesso è
lasciarlo libero. Io sono l’ancora
che lo tiene saldo a questa terra,
la persona che lo ha costretto a venirci in primo luogo: si sentirebbe
sempre
in dovere nei miei confronti, non riuscirebbe mai a staccarsi del
tutto. Ma
Atem può
essere autonomo. Merita questa possibilità,
l’ultima.
Invece per me sono finite. Non ha
più
senso prolungare gli incontri o vederci ancora, non
abbiamo più
niente da dirci: ho perso.
«E
poi... devo solo accendere il programma e
poi... morirò?»
non
riusciva a dire: mi spegnerò,
non riusciva a pensare a se stesso come a
un robot. Atem era umano, più
umano di quanto lui stesso si fosse
convinto di essere, e io credo che sia solo la mia presenza a
impedirgli di
capirlo, quando me ne sarò
andato potrà
finalmente vivere la sua vita.
«Il
programma partirà
dal computer, devi essere collegato al cpu perché
funzioni, c’è
un
cavo nel mio laboratorio, quello che ho usato l’altra
volta...».
Ha annuito, si fingeva impassibile.
«Quanto
ci vorrà?».
«Non
più
di
un paio d’ore...
dì
a
Ryou di venirti a prendere dopo, altrimenti il laboratorio resterà
così
come lo hai lasciato anche per anni».
«Perché,
non ci penserai tu a sistemare?».
«Ah
sì,
è
vero...».
No, non ci sarei stato io a sistemare. Non
volevo avere niente a che fare con la sua morte. Era un passo che
avrebbe fatto
da solo.
«Yugi...».
«Hm?»
anche lui era stanco, glielo leggevo dal modo in cui le palpebre
nascondevano
pesantemente metà
delle sue iridi.
«Mi
dispiace che debba finire così...
ma non posso
restare».
«Tu
puoi restare»
ho sospirato sorridendo appena «Ma
hai deciso che non vuoi».
«Non...»
«No,
ti ho promesso che avrei smesso di
cercare di farti cambiare idea. Ma voglio che tu sappia... insomma, non
devi. Non è
qualcosa che il mondo si aspetta che tu faccia. Tutti meritiamo di
vivere, Atem».
«Ma
io non vivo».
«Cosa
vuol dire per te vivere? Respirare,
uscire fuori strillando dall’utero
di una donna? Vedere i tuoi capelli
diventare bianchi e poi cadere uno a uno? Vedere i tuoi amici, la
persona che
ami, chiudere gli occhi per sempre e abbandonarti? Pff»
l’angolo
al lato della mia bocca si sollevava
appena mentre mi passavo le mani tra i capelli.
«Yugi,».
«È
qualcosa che a te sarà
risparmiato, Atem, potrai decidere di farla finita
quando vorrai, il programma sarà
sempre pronto, ti chiedo solo di non
prendere decisioni affrettate»
gli ho poggiato una mano sul petto, non si
è
ritratto al contatto, non si è scansato
ripugnato dal semplice fatto che io fossi vicino a lui, come era
successo la prima volta. C’era
il suo cuore artificiale lì,
il rumore di battiti registrati sulla mia stessa
frequenza, vibrazioni che non avrebbero mai pompato sangue in nessuna
arteria.
«Non
c’è
niente che batta lì...»
ha
sussurrato.
«No,»
No, hai ragione «Ma
questo non fa di te una non-persona, Atem, tu mi ami?
Puoi provare emozioni? Ti ho visto ridere, digrignare i denti, dormire,
ricordare, sospirare...».
«Solo
perché
sono programmato per farlo...».
«E
io no? Si chiama DNA Atem, decide tutto
quello che mi sarà
permesso di fare».
Ha sospirato pesantemente, si è
scostato una ciocca di capelli dal viso.
«Sono
stanco, Yugi. Ti prego...».
«Ok»
gli
occhi mi si riempivano di lacrime mentre cercavo di articolare quelle
poche
sillabe, ma non piangevo per quel che avevo perso. Lo avevo lasciato
andare
molto tempo fa: insieme a mou hitori no boku era morta anche una parte
di me,
era stato sciocco cercare di fingere che fosse ancora in vita. Volevo
piangere
perché
Atem meritava una seconda possibilità,
un futuro lontano da me, e invece non lo voleva,
credeva di essere lui il responsabile, voleva morire per mettere a
posto le
cose quando invece l’unica
persona che avrebbe dovuto pagare ero
io. E il modo in cui mi si chiedeva
di pagare era l’unico
che non volevo assolutamente
affrontare: non potevo lasciar andare anche lui. Qualunque altro modo,
ma non
quello.
«Posso...?».
Era
un sussurro rotto,
sapevo che Atem lo aveva sentito solo perché
l’ho
visto girarsi appena verso di me, una domanda stampata
nei suoi occhi. L’ho
stretto a me, l’ho
abbracciato come quella prima notte, quando ancora era
ignaro come un bambino e non aveva idea di come sarebbero finite le
cose. L’ho
abbracciato perché
mi
ricordava mou hitori no boku, un addio inevitabile e la consapevolezza
che a
volte un lieto fine non esiste. L’ho
abbracciato perché
gli volevo bene, anche a lui, e io avevo
bisogno di aggrapparmi di nuovo a qualcosa perché
ero
stanco di essere forte, tanto stanco, e prima di essere forte per un’ultima
volta volevo concedermi il lusso di essere debole
e spezzarmi.
Ho
cominciato a piangere,
in silenzio per paura di una sua reazione. Mi ha accarezzato la testa.
Sembrava
il tocco del nonno. Era rassegnazione, pazienza. Mi ha allontanato dopo
un paio
di minuti, asciugandomi le lacrime con il dito prima che potessi
scusarmi. Si è
avvicinato al mio viso, indugiando un attimo mentre
fissava le mie iridi annebbiate dalle lacrime e dai capelli che mi si
erano
appiccicati al volto. Ho sperato, ho sperato stupidamente un’ultima
volta in quell’istante,
solo per quell’istante,
che l’incantesimo
non si spezzasse, che lui non cambiasse idea.
La sua mano si è
poggiata sulla mia guancia, carezzandola
impercettibilmente.
«Non
posso farlo...»
ha mormorato con un filo di voce «Non
sarebbe giusto...».
«Ok»
ho
ingoiato un singhiozzo. Era giusto così,
dovevo accettarlo. «Ti
chiamo quando il programma sarà
pronto».
«Ok»
sussurrava anche lui. Forse le parole avrebbero fatto meno male se le
avessimo continuato
a pronunciarle a bassa voce. Era una forma di censura, di protezione. «Ci
vediamo fra qualche giorno allora...»
ha poggiato la fronte sulla mia, un secondo, poi si è
alzato e dandomi le spalle si è
avviato verso la porta, uscendo di casa. Non si è
mai voltato indietro. Le lacrime scendevano lentamente
dalle mie guance, rigandomi il collo, hanno continuato per ore. Ma io
ero
silenzioso. Non c’era
più
niente da dire.
All’inizio
ho pensato di andarmene. Partire.
Ho
dei parenti lontano, i
miei genitori vivono in America ormai e conosco gli Ishtar che invece
sono in
Egitto, sarebbe facile andare a chiedere ospitalità
a loro, ci separerebbero migliaia di chilometri: Atem
non dovrebbe più
preoccuparsi della mia influenza. Sparirei
dalla sua vita, definitivamente. Ma so che non sarebbe abbastanza.
Per
lui resterei sempre
uno spettro, qualcosa che potrebbe fare ritorno da un momento all’altro
e anche se io non lo farei, come potrebbe lui
fidarsi di me dopo tutto quello che gli ho fatto? Non gli ho raccontato
che
bugie, nessuno mi crederebbe. E poi il suo orgoglio non potrebbe
accettarlo: lo
farei di nuovo per proteggerlo, si sentirebbe ancora in gabbia. E in
quanto a
me... non so se avrei la forza di andarmene. Non perché
partire richiederebbe coraggio ma perché...
non voglio, non vale la pena partire e cercare di
ricominciare un’altra
volta, non ho la forza di farlo. Non
voglio ricostruirmi una vita: ci ho già
provato una volta e non ha funzionato, ed era l’unico
modo in cui avevo intenzione di provarci.
Spero
mi perdoneranno.
Mamma, papà,
Jonouchi, Anzu, Honda, Ryou... Atem. Se
deciderà
di restare.
Ho
provato ad andare
avanti, sul serio, ho provato, e mi
sono accorto di non farcela, l’unico
modo era tornare indietro, riportando
da me la persona che mi aveva abbandonato. Ora so che era sbagliato, lo
sapevo
da tempo, perché
non si può
vivere di ricordi. Ma io non ne sono capace...
Vorrei
potergli lasciare
qualcosa, un regalo, un simbolo, delle belle parole... ma mou hitori no
boku
era quello bravo a intavolare discorsi, io non sono in grado, parlare
in
pubblico mi spaventa, avere l’attenzione
di tutti su di me non mi piace e
non saprei che cosa dire. Le parole non basterebbero oppure sarebbero
troppo. Vorrei
solo che i ragazzi non odiassero mou hitori no boku, che dessero ad
Atem una
possibilità
quando io non potrò
più
dirgli come devono comportarsi con lui.
Cosa vuol dire essere umano? Cosa definisce l’umanità?
Compassione, empatia, coraggio, perseveranza, generosità,
amicizia... nulla di tutto questo gli manca, Atem ha
tutte queste qualità
e deve coltivarle, esattamente come tutti
gli altri. Atem è
una persona, senza di me lo diventerà,
potrà
essere quello che vuole, anche cessare di
essere se lo desidera: non gli ho mentito quando ho detto che avrei
preparato
il programma. Magari potrei fare come in quei film super drammatici,
scrivere
una lunga lettera piena di sentimento e appoggiarla sul tavolo del
laboratorio
per i posteri. Peccato che non abbia ancora idea di cosa scrivere, ma
forse mi
verrà
in mente qualcosa, forse riuscirei a far cambiare idea
ad Atem... E almeno avrei la possibilità
di
salutare tutti quanti.