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Autore: Vale11    13/05/2015    1 recensioni
Una raccolta di drabble e one shots che girano intorno a Riario e Da Vinci. Possono essere ambientate nel rinascimento come ai giorni nostri, possono andare dal comico al romantico, fino al decisamente deprimente.
"C’è chi gli ha detto che è quando sorride che fa più paura. Lui sa che il suo sorriso continuo è una reazione anche alla sua, di paura. Di quando ne aveva, di quando ne ha avuta. Di quando ne ha. Sorridi in faccia a chi ti sta frustando la schiena, e vedrai che gli confonderai le idee. Almeno quello. Ha imparato a sorridere così bene. Un sorriso freddo, falso e senza grazia alcuna."
Occhio, spoiler di brutto!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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dunque, questa è un prologo al quarto capitolo di questa ff, Internal landscapes. Se leggete prima quella, poi capite un po' meglio. Giuro.
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Girolamo ha dodici anni quando un manrovescio del Santo Padre lo spedisce a terra, boccheggiante, con un rivolo di sangue che gli esce dal naso e un fischio terrificante nelle orecchie. E’ abituato a prenderle, nel monastero dov’è cresciuto i monaci non si limitavano davvero quando si trattava di disciplina, ed è grato per questo: è cresciuto dritto come un fuso, e spaventosamente determinato.
Ma questo è diverso: Sisto alza le mani per divertimento, non per dovere. Per quanto la sua percezione possa essere distorta, lo capisce comunque.
Ha quattordici anni la prima volta che suo padre usa la frusta su di lui, quindici la prima volta che lo affida al carceriere di Castel Sant’Angelo perché lo faccia rigare dritto.
Ha sempre rigato dritto, quindi immagina che il santo padre si stesse semplicemente annoiando.
Quando esce di li, tre giorni dopo, non è più lo stesso.
Nessuno lo sarebbe. 
Come potrebbe?
A diciassette anni, Sisto lo incarica di un compito che gli pare insensato e crudele, ma il desiderio di compiacere suo padre, il santo padre, è più forte di ogni logica: uccidere una prostituta giudea che vende se stessa per le strade della città santa.
Quando si rende conto di aver ucciso sua madre, vomita l’anima. O quello che ne resta.
Quando inizia ad uccidere di professione, lo fa in modo pulito e con crudeltà metodica, letteralmente: la crudeltà è il suo metodo di lavoro, ma non gioca con la vittima come il gatto col topo. Non è Sisto. Tortura per sapere cosa vuole sapere, non per divertimento. Quando uccide, lo fa in modo pulito e professionale. E’ il suo lavoro, e non ama sporcare troppo in giro.
Non che questo lo renda migliore, affatto, ma non ha mai chiesto scusa a nessuno.
Nessuno gli ha chiesto scusa, mentre lo trasformavano in un mostro: perché dovrebbe chiedere perdono lui, e a chi?
Il controllo gli scivola di mano, però, insieme a un ceffone dato a mano aperta, quando lo costringono a uccidere Zita. Quando Zita stessa gli chiede di ucciderla. Quando, in fin dei conti, uccide la donna che ama con le sue mani.
Rigira il viso dell’artista come il santo padre ha rigirato il suo centinaia di volte, l’artista gli blocca il braccio prima che possa assestargli un altro colpo.
E, dopo cinque secondi contati, si sente sia sollevato che davvero, davvero, davvero stupido.


Leonardo ha da poco superato la decina, quando suo padre gli commissiona una decorazione per uno scudo. Gli sembra l’occasione della vita per fare buona impressione, fa tutto ciò che può per realizzare una vera opera d’arte e, incredibilmente per un ragazzino della sua età, ci riesce. Lo scudo è splendido, gli studi anatomici che ha compiuto su tutte le creature su cui è riuscito a mettere le mani hanno pagato alla perfezione.
Suo padre lo guarda con aria di sufficienza e gli dice che è passabile.
Ci riprova, un po’ di tempo dopo: suo padre l’ha portato a bottega dal Verrocchio, riscattando una bella somma, fra l’altro. Non sa se sentirsi fortunato per la possibilità di imparare da un maestro come il suo, o se ritenersi merce di scambio di scarso valore. Dopo aver appreso i primi rudimenti di pittura fa un altro tentativo, facendo trovare davanti alla porta di suo padre una natura morta. Un quadretto, in realtà.
Suo padre la getta via.
Non ci prova più, diventa incontrollabile, quasi crudele.
E’ l’unico modo che ha di attirare la sua attenzione. 
Dopo un po’, anche la sua attenzione diventa superflua. Non ci tiene più. Vuole solo fargli saltare i nervi e, Dio, quanto è diventato bravo in questo. 
Ama raccontarselo, ma in realtà tutta la sua arte non tiene il passo con il desiderio di essere riconosciuto dall’unico genitore che gli rimane. 
Quando Riario lo schiaffeggia si sente umiliato quasi quanto gli succedeva davanti a suo Padre, da giovane. Incassa il primo colpo e blocca il secondo, sentendo la rabbia che monta a una velocità invidiabile.
E’ da tanto, che non si sentiva così. Non ha più voglia di sentirsi così. Ma non ci può fare niente.


“Non siete poi così diversi, Leonardo”
Sa che Zo glielo dice per dargli fastidio, farlo arrabbiare: si diverte così, a punzecchiarlo con un ghigno sulla faccia. Ma non lo fa ridere.
“Taci, Zo”
“Cos’è, te la sei presa?”
No, non se l’è presa. Ma questo non significa che il fatto che abbia ragione non gli dia immensamente fastidio.


“Nipote, questo tuo artista - il santo padre lo fissa, ben assiso sulla sua poltrona, con la testa retta dalla mano destra - è diventato un’ossessione, per te. Non mi piace.”
Abbassa la testa, remissivo.
Odia quando lo chiama nipote, odia quando lo fissa così, come fosse un insetto infilzato da un chiodo e appeso a una parete, pronto per essere studiato. 
Lo spaventa, e odia aver paura.
Lo odia, in generale.
Odia davvero poche cose, ma con un’intensità spaventosa.
“Tiralo dalla nostra parte, o dimenticalo. Il suo lavoro per Firenze è ben poca cosa rispetto alla potenza della chiesa. Non ci spaventa.”
Dovrebbe, vorrebbe dirgli. Dovrebbe spaventarvi. Dovrebbe terrorizzarvi. Avreste paura, se accettaste che nel mondo esistono altre cose oltre al potere che potete controllare, toccare. La mente di quell’uomo è più potente di tutto il vostro oro, tutti vostri armigeri, tutte le vostre armi messe insieme.
Girolamo tace, abbassa di nuovo la testa, si trattiene dal ribattere.
Non vuole trovarsi di nuovo con un sopracciglio spaccato, non ne sente davvero il bisogno.
Si volta e se ne va, sentendo gli addominali stridere quando il papa lo obbliga a tornare indietro per baciare l’anello piscatorio che porta al dito.


“Sapete, Zoroastro continua a dirmi che siamo simili - Leonardo fissa l’orizzonte senza staccare gli occhi dal mare, tanto che pare che stia parlando da solo - cosa ne pensate?”
Si gira verso Riario, aspettandosi di vederlo almeno perplesso: il conte, invece, lo fissa con uno dei suoi mezzi sorrisi impossibili da leggere.
“Non potrebbe avere più torto, artista - gli dice - le strade che ci hanno creato possono essere state simili, all’inizio, possiamo anche perseguire gli stessi scopi, ma vi assicuro che siamo due creature completamente diverse.”
Leo annuisce e tace, quasi deluso, seduto a poppa della nave che li sta riportando in Italia; la gamba di Riario sta guarendo, riesce a spostarsi col suo aiuto, ed è la prima volta da settimane che riesce a salire in coperta, vedere il sole, sentire l’aria eccetera. Ora che ha l’occasione di studiarlo bene, si rende conto che c’è una disperazione insita, nel conte. Un aggrapparsi all’ultraterreno per non accettare che sia tutto qui, che la sua realtà non sia tutto ciò che ha. Un costante pregare che Dio, ti prego, fa che non sia così.
Avrebbe voglia di chiederlo, ma non lo fa.
“Voi siete un uomo libero artista - la voce di Riario lo spaventa, quasi. Non si aspettava che ricominciasse a parlare - andate dove preferite, fate ciò che desiderate, inseguite ciò che volete - guarda il conte scuotere la testa e nascondere malamente una smorfia quando la nave beccheggia e gli sposta la gamba - io sono un soldato, non è così che agisco. Non è così che funziono.”
“Ma vi siete gettato alla ricerca del libro di vostra spontanea volontà”


Lo lascia zitto per un attimo: Da Vinci ha ragione, certo che ha ragione. E’ stata una delle sue rarissime alzate di testa, una delle poche volte in cui ha deciso di agire per se stesso. 
“Certo, e guardate com’è finita - risponde senza guardarlo - se fossi un uomo saggio, dovrebbe insegnarmi qualcosa”
“E lo siete?
Girolamo si tormenta le labbra con gli incisivi prima di rispondere.
“Non sta a me dirlo. Non oserei mai definirmi tale, in ogni caso”
Non sa perché ma la sua risposta strappa un sorriso all’artista.
“Siete sempre così ermetico, Riario?”
“Non quanto vorrei - gli risponde facendo leva sulle mani e sedendosi più comodamente. La gamba protesta, ma lo nasconde meglio di prima - per rispondere alla vostra domanda, un uomo saggio non tornerebbe a Roma, né si affiderebbe alla pietà del papa. Un uomo saggio cercherebbe una via di uscita ma, di nuovo - si volta verso Da Vinci e lo fissa; gli occhi dell’artista sono due pozze verdi spalancate - non sono altro che un soldato, Da Vinci”


“Vi farete ammazzare”
Lo dice così, di getto, e sente subito che ha ragione. Sente anche che a Riario non interessano le conseguenze. E, stranamente, sente che invece a lui interessano eccome.
“E’ probabile”
“Sisto non è incline al perdono”
Riario annuisce, facendo uno strano gesto con la testa. Sembra quasi a disagio.
“Ne sono al corrente”
“Potreste venire a Firenze”
Riario si volta, sorpreso: se di norma ha due occhi decisamente grandi, ora sono diventati enormi.
“A Firenze, artista? - gli domanda, quasi ringhiando - e perché, di grazia? Come? I Medici non mi considerano sicuramente un ospite gradito, non ho un posto in altro luogo che non sia Roma - Leonardo lo vede prendere fiato, poi la sua voce diventa più bassa, più roca e più disperata - non sono niente, senza la chiesa. Posso decidere di distruggerla dall’interno, ma non posso anche solo pensare di sopravvivere all’impresa”.
Leo annuisce, dondolando le gambe in un modo quasi infantile.
“L’idea di fondo è nobile - gli risponde - la possibilità esplorabile e le conseguenze interessanti. Ma voi, Riario, avete intenzione di sopravvivere?”
“Vi ho già detto che non posso pensare di…”
“No, conte. Non mi avete capito - lo interrompe, inchiodandolo con gli occhi - so che non credete di poter sopravvivere, ma volete farlo o no?”
Riario lo guarda piegando la testa, come un gatto che cerchi di capire cosa stia succedendo, apre bocca, la richiude e prende a fissare le assi della nave.
“Ci devo pensare, artista”
“Sarebbe uno spreco, perdere un essere umano come voi”
Il conte non resiste. Scoppia a ridere. Sembra carta vetrata, gli fa quasi paura.
“Uno spreco - ripete - uno spreco? Ne siete così sicuro? Uno spreco per chi, di preciso?”
Leonardo non si lascia impressionare, si stringe nelle spalle e piega le labbra in una smorfia indifferente.
“In generale, direi: gli stupidi sono fin troppi, al mondo, per poter fare a meno anche di una sola persona intelligente”
“Voi mi lusingate - il conte sbuffa, poi sposta il peso sulle braccia spostandosi indietro - ma vi assicuro che la mia specialità è seguire ordini, non creare strade da seguire”
“Avete terrorizzato Firenze con un pacchetto di volantini - gli fa notare Leonardo, iniziando a contare le prove sulle dita - avete cambiato Nico dal giorno alla notte, siete sopravvissuto alla prova degli Inca, altrimenti non vi avrei trovati vivi in quella grotta, gestite una delle reti di spionaggio più estese e funzionali del mondo, siete riuscito a sopravvivere al trattamento che vi ha riservato vostro zio…non guardatemi così, sapete che è vero - gli dice indicandolo con l’indice quando lo vede assottigliare lo sguardo alla menzione di Sisto. Ha l’impressione, nemmeno troppo vaga, che Riario non ami molto il santo padre - e avete il coraggio di non definirvi intelligente?”
Riario si morde l’interno di una guancia, fissandosi gli stivali. 


Non sa bene cosa dire: Da vinci ha sciorinato una serie di prove della sua intelligenza che lo hanno lasciato basito, non tanto per le prove stesse ma per la premure dell’artista di fargliele notare. Ha sempre dato per scontate le sue abilità, perché è quello che hanno sempre fatto tutti: per lui è normale spendersi fino all’ultima goccia di sangue per i compiti che gli vengono affidati. Forse, però, non è così per la maggior parte dell’umanità. Si stringe nelle spalle.
“Non c’entra niente il coraggio, c’entra la modestia - gli risponde con un mezzo sorrido - e la nozione che sia poco credibile qualcuno che si fa i complimenti da solo”
“Il vostro sarcasmo è tanto apprezzabile quanto sprecato: non sono complimenti, quelli che ho elencato, sono meri fatti provati”
Resta zitto, perplesso: c’è qualcosa, in tutta questa conversazione, che gli sfugge. Fissa l’artista alzando la testa, le sopracciglia talmente aggrottate da essere quasi una linea unica.
“Artista, di preciso - gli chiede, aggiustando la posizione della gamba e facendosi scappare un grugnito  di dolore - di preciso…cosa volete, da me?”


Lo spiazza, colpito e affondato. Il fatto è che Leonardo non lo sa, cosa vuole dal conte. O meglio, potrebbe anche saperlo, ma è una cosa talmente fuori di testa che non crede che la dirà mai.
“Voi, conte”
Ecco, l’ha detta.
Vede riario spalancare gli occhi e raddrizzare la schiena.
“Me?”
E’ in ballo, tanto vale ballare.
“Voi. Siete un uomo interessante, di un’intelligenza tanto affilata quanto precisa, e dotato di una determinazione che a volte diventa spaventosa - gli dice senza smettere di guardarlo - siete molto di più di un semplice soldato, siete una macchina da guerra. Ma quello che mi interessa, quello che mi interessa sul serio, è capire cosa siete sotto tutto questo.”


Non gli piace, la piega che sta prendendo la conversazione. Da Vinci sarebbe capace di leggerlo come un libro, se glielo permettesse. E non ha nessuna intenzione di farlo.
“Temo che ci sia ben poco, sotto tutto questo, artista”
E’ evidente che la sua nemesi preferita si aspettasse una risposta del genere perché gli sorride, furbo, e scuote la testa.
“Temo che mi stiate mentendo, conte. Ma non temete - lo rassicura continuando a sorridere - non vi obbligherei mai a raccontarmi chi e cosa siete. Preferirei scoprirlo io stesso. Certo, se accettaste di venire a Firenze con me invece che tornare a Roma e farvi ammazzare l’impresa sarebbe più semplice.”
Firenze, di nuovo. Quella città sembra essere il suo destino, in un caso o in un altro. Indurisce la mandibola e fissa il sole talmente a lungo che sente gli occhi bruciare.
“Mettiamo caso che accetti il vostro invito, Da Vinci - risponde alla fine - qual è il vostro guadagno, e qual è il mio?”
“Facile. Voi rimanete vivo, e io ci guadagno in conoscenza. Ve l’ho detto, siete un uomo interessante. Non resisto, a ciò che trovo interessante. Inoltre - aggiunge come niente fosse - voi e io insieme saremmo inarrestabili, conte”





L’unica cosa che il suo cervello riesce a mettere insieme è una domanda:
Chi, e perché?
Non riesce a vedere il viso dei suoi supposti salvatori, ed è talmente provato dalla mancanza di cibo e acqua che non è neppure in grado di riconoscerne le voci; si getta un braccio sugli occhi quando escono allo scoperto e la luce lo acceca, più di quanto non lo sia già.
“Avanti conte, dobbiamo allontanarci”
E’ una voce vagamente familiare, ma non riesce davvero ad associarla a un viso. Non riesce a vedere niente, a sentire niente, e non fa in tempo ad avvertire i suoi soccorritori che sta diventando tutto nero.
Non si accorge nemmeno di quando crolla a terra.


Zoroastro riesce appena a fare in modo che il conte non sbatta la testa a terra riprendendolo al volo, Leo gli arpiona la camicia e lo tiene su. Si fissano, nel caldo dei dintorni disabitati di Costantinopoli.
“Leo, dimmi di nuovo perché abbiamo perso tempo a salvare questo peso morto”
“Perché un uomo così è meglio averlo come alleato che come nemico, Zo - risponde l’artista, riaggiustandosi addosso il braccio di Riario - e anche perché ha sicuramente qualche informazione sul Labirinto che mi interessa, per quanto minima. Non credo che torturino i loro adepti, non sarebbe produttivo.”
“E cosa ti fa pensare che non lo sia, un adepto?” Gli chiede Zoroastro, indicando il conte con un cenno della testa. Leonardo si stringe nelle spalle.
“I suoi occhi, Zo”
Disidratazione e malnutrizione a parte, e non è che sia una parte che si possa ignorare, ciò che preoccupa davvero Leonardo sono proprio i suoi occhi: sono arrossati, circondati da quelle che sembrano infiammazioni piuttosto estese; quando gli ha tirato su le palpebre per darci un’occhiata ha visto che il bianco degli occhi del conte era praticamente inesistente, sostituito da capillari esplosi e rosso sanguigno.
Anche le ferite che gli ha trovato sui polsi lo preoccupano parecchio.
Zo non risponde, ma non gli pare convinto.


Si accampano al riparo di un rudere, letteralmente in mezzo al niente: non osano accendere un fuoco per paura di essere visti e attaccati dagli adepti del Labirinto che, sicuramente, sono alla ricerca di chi ha portato via il loro ultimo giocattolo. Si siedono uno accanto all’altro, illuminati solo dalla luce della luna che, per fortuna o sfortuna nera, è piena.
Riario non si è ancora svegliato, è rimasto incosciente per quasi due ore, ormai. Non è normale, Leonardo è quasi preoccupato.
Il fatto che si preoccupi per la sorte di quell’uomo contribuisce alla preoccupazione, in effetti.
“Zo, quanta acqua abbiamo? - chiede senza staccare gli occhi dalle linee rosse che sembrano quasi incise sulle guance del conte - potresti passarmi una borraccia?”
Sente Zoroastro alzarsi e porgergli una delle borracce che si stanno portando dietro; cerca un lembo di camicia che non sia macchiato e lo strappa, lo bagna e lo appoggia sugli occhi di Riario: se avessero della camomilla aiuterebbe molto di più, ma al momento non hanno niente del genere a disposizione.


Il suo turno di guardia è iniziato da poco, quando Riario inizia a riprendersi: gli si avvicina senza fare troppo rumore per non spaventarlo e fa una smorfia quando lo vede cercare di aprire gli occhi. Non crede che sia una buona idea.
“Lasciateli chiusi, conte”
Riario volta la testa verso di lui, gli occhi ancora bendati, e si lecca le labbra.
“Da Vinci?”
Non c’è solo stupore, nella sua voce: è almeno due ottave più bassa del solito, e non è che il solito sia poco, arrochita dalla sete e, Leo pensa, dalle offese che deve aver urlato dietro ai suoi torturatori. Ce lo vede.
“Sono io - Leonardo annuisce, pur sapendo che Riario, con gli occhi ancora bendati, non può comunque vederlo - non aprite gli occhi, sono troppo infiammati e qui intorno c’è troppa polvere che potrebbe concorrere ad aumentare il problema - vede il conte lasciar cadere di nuovo la testa a terra, annuendo - avete sete?”
Riario annuisce di nuovo, accetta l’aiuto di Leo per tirarsi su e porta alle labbra una borraccia d’acqua che l’artista gli mette in mano. 


Non è facile fare niente, senza poter vedere. Trovarsi ciechi all’improvviso, alla mercé di un supposto nemico, è ancora peggio. Non capisce.
“Perché, Da Vinci?” Chiede, appoggiandosi ai polsi e lasciando scivolare indietro le spalle, come aveva fatto tempo prima sulla nave che li stava riportando in Italia. Le ferite ai polsi si fanno sentire.
Sente l’artista sedersi vicino a lui.


Leo si permette di fissarlo in tutta libertà, adesso che non può essere visto: il conte è dimagrito, ma non è niente che un po’ di buon sonno e cibo decente non possano fargli recuperare. Gli occhi, però, sono un altro discorso. Ignora la domanda del conte, preferendo cercare di capire cosa sia successo. “Cosa vi hanno fatto?”
Riario si tende visibilmente, poi sorride.
“Di cosa state parlando?”
“Non prendetemi in giro, conte - sbuffa - i vostri occhi sono visibilmente danneggiati”
“Oh”
Riario resta zitto per un po’, tanto che Leo è quasi tentato di reiterare la domanda, poi lo sente rispondere e si cuce la bocca.
“Acqua salata”
“Acqua salata - ripete Leonardo, analizzando mentalmente tutti i danni che una cosa del genere, se ripetuta continuamente, può arrecare - posso vedere?”
Riario annuisce umettandosi di nuovo le labbra, e accetta la borraccia che Leo gli avvicina alla bocca: beve direttamente dalle mani dell’artista, e non sa se sentirsi umiliato o cosa. Non commenta.
“Non avete detto che è meglio che tenga gli occhi chiusi, artista?”
“Lo so - Leo è già occupato a sciogliere il nodo della benda dietro la testa del conte - ma ho bisogno di dare un’occhiata ai vostri occhi ora che siete sveglio per sapere cosa fare”
“Mi rimetto a voi, allora”


Sente Da Vinci scogliere la benda, poi una mano sul mento gli fa tirare su la testa.
“Riuscite ad aprirli?”
Ci prova, ma gli sembra di avere della sabbia sotto le palpebre: tutto quello che può bruciare, brucia. Ed è quasi sicuro che in ogni caso, quando li aprirà, non vedrà niente come prima.
Appena separa le palpebre di pochi millimetri lo assale la nausea: non si aspettava un dolore del genere. Li richiude quasi subito.
“Conte - Leonardo continua a tenergli su la testa - ho bisogno di capire se le vostre pupille sono reattive per sapere il grado di danno che vi hanno inflitto. Non posso controllarlo se non riuscite ad aprirli: devo tenerli aperti io, se voi non potete. Solo pochi secondi.”
Girolamo deglutisce e annuisce, sente le mani dell’artista appoggiarsi sulle tempie e i pollici tirargli su le palpebre. Gli ricorda un po’ troppo quella specie di maschera che gli hanno piazzato in faccia, ma non muove un muscolo.


Quando gli apre gli occhi Riario si morde le labbra e stringe i pugni, ma è quando gli sposta la testa verso la luna per controllare se le pupille sono reattive che reagisce davvero: ringhia e cerca di strappare la testa dalla presa di Leonardo.
Se lo aspettava.
Lo trattiene per quei pochi secondi di cui ha bisogno, poi lascia che si liberi e chiuda gli occhi.
“Scusatemi, Riario - gli dice bagnando di nuovo la fascia e coprendoli di nuovo - ho buone notizie, però: le vostre pupille sono perfettamente reattive, e credo che quando l’infiammazione sarà passata potrete tornare a vederci normalmente, o quasi”
Non risponde, non ci riesce: ha una lama arroventata che gli sta entrando nel cervello passando dagli occhi, e non riesce ad aprire bocca. Gli viene quasi da vomitare.
“Riario - sente le mani dell’artista sulle spalle, sulla fronte - tenete su la testa e sdraiatevi prima di sentirvi male”
Vorrebbe obiettare che si sente già abbastanza male anche così, ma preferisce risparmiare il fiato. Lascia che Da Vinci lo faccia distendere di nuovo, piazzandogli qualcosa di morbido sotto la nuca, poi lo sente prendergli un polso e sciogliere le bende che ha intorno.
Non dice niente, gli lava le ferite e le copre di nuovo.
“Perché, artista?”
Chiede di nuovo: non riconosce la sua voce, è quasi un gracidio. E’ sgradevole, da sentire.
“Perché cosa?”


Leonardo finisce di bendare il secondo polso e si siede a gambe incrociate, con il cervello che viaggia a una velocità supersonica sul modo in cui quei tagli possono essere stati inflitti. Non glielo chiederà, non ne ha il diritto, ma non gli piacciono per niente. Riario volta la testa verso di lui.
“Perché state facendo tutto questo?”
“Intendete perché vi sto aiutando, conte?”


Girolamo annuisce, più curioso che altro.


“Lo sapete, sarebbe uno spreco perdere qualcuno come voi, ve l’ho già detto - gli risponde, tirandogli su la testa e aiutandolo a bere di nuovo - e un’altra cosa che vi ho già detto, e odio ripetermi: io e voi, insieme, saremmo inarrestabili”.

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oddio, è più lungo di quanto credessi!
  
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