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Autore: BukowskiGirl2    13/05/2015    1 recensioni
E' dalla noia, da quel sentimento angoscioso e innocente, che nasce tutto.
Marzia ha intenzione di vivere la sua vita da sola, perchè nessuno la capisce. Lei, con il suo "problema", non va proprio d'accordo. Lorenzo è italo-americano, rigido ma ingenuo. Troveranno la salvezza insieme, perdendo però di vista, la loro meta. Sogni, false ambizioni, aria di depressione, momenti invisibili di felicità, attimi infantili. Cos'ha il futuro in serbo per loro?
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Potresti farmi un tè?
-Un tè?
-Un tè.
-Non compro cose del genere, di solito. Mi dispiace.
Mi mossi verso la stanza che precedentemente mi aveva mostrato, quella in cui avrei dovuto dormire. “E’ carina”, dissi, senza che nessuno lo sentisse, dal momento che lei aveva trovato qualcosa di più interessante da fare. Entrò mentre girovagavo sperduto.
-Pensavo: se lavori in un bar e cerchi una casa, il resto del tempo come lo passi? Non mi riferisco alle ore, ai giorni. Ma a quella specie di vuoto, nella tua vita, che si crea quando non ami qualcosa e non lotti per qualcosa che ami.
-Hai letto troppi libri, mia cara. Non è che non amo qualcosa. Cioè, voglio dire, ci sono le cose che amo. C’è la fotografia, ci sono i quadri di astrattismo…
-Immaginavo fossi un tipo da astrattismo.
-Perché?
-Perché quelli come te cercano cose facili, perché chi cerca di avere meno impegni possibile ha paura di impegnarsi in qualcosa di davvero serio e coinvolgente.
-Ogni volta che ti vedo cerchi sempre di farmi il profilo psicologico, non è così?
Sorrise.
-Se ti consiglio un buon posto dove andare a cenare, farai finta di avermi invitata e portata tu?
-Non aspetto altro.
Le bastarono alcuni minuti dentro al bagno, per tornare fresca e riposata come ci si aspetta che sia, ogni giorno. Indossava un vestito troppo nero e aveva le labbra esageratamente bordeaux.
-Sono orribile, sembro una di quelle tipe che ti spuntano da dietro un albero, nei tunnel dell’orrore che non faccio mai.
-Allora come fai a sapere che ci sono tipe come te, lì dentro?
-Lo immagino. Dove può stare una come me, se non in un posto buio, per poi spuntare a tradimento?
La presi per mano, facendo appunto finta di accompagnarla, quando era evidente che lei mi indicava la strada. Arrivammo in un posto carino, che aveva aria di fiume. Ci sedemmo sotto un gazebo, continuando a tenerci per mano, anche se nessuno dei due si sarebbe spiegato il perché. La guardai in viso, per capire quali fossero le sue intenzioni, e lei mi strinse ancora più forte.
Si avvicinò a noi una cameriera: -Siete pronti ad ordinare, signori?-
Prendemmo entrambi del salmone cucinato in modo abbastanza insolito.
-Che genere ti piace? Musicalmente parlando, intendo.
-Non so. Mi piacciono canzoni che non so classificare e non mi piacciono le classificazioni che gli danno altri. Non lo so, ho sentito parlare dell’indie. Penso che mi piaccia un po’ quello, sì. E tu, Leopardi?
-Lorenzo, ti prego, Lorenzo.
-Lorenzo.
-Sì, mi piace il blues. In realtà mi piace la parola, blues. Non conosco molti autori. Non sono un tipo da musica.
-Che significa, non sei un tipo da musica? Ci convivi con la musica, vuoi o non vuoi. La musica esiste da troppo tempo perché tu dica “non sono un tipo da musica”. Non so se capisci. Capiscimi.
Presi fiato per rispondere, ma mi arresi da subito. Preferivo contrariarla una volta sola, per restare spettatore delle sue tragedie insensate. Sentii l’euforia crescere dentro di me, come un bambino. Uno di quei momenti in cui sei pronto a dire di tutto, ma troppe volte – troppe – ti trattieni.
-Ci sarebbe qualcosa che vorrei dirti. Ma lo sappiamo, io e te, che sembrerei troppo inopportuno.
-Solo perché diresti ciò che voglio sentire e diventeremmo ciò che avrei voluto diventassimo sin dall’inizio?
-Non spingerti oltre, troppo oltre. Vorrei dirti che sei bella. Bella da fotografia, intendo. Una fotografia che, anche guardata dopo anni, non ti stanca.
-Non voglio rimanere una fotografia.
Sospirai. Non volevo rimanesse una fotografia (di cui, tra l’altro, non avevo la copia). Avrei voluto copiare tutti i grandi film, con mosse romantiche e frasi fatte. Ma mi sembrarono talmente poco adatte a lei, che volli rimanere me. Il me sorridente, impacciato e tremendamente vulnerabile.
Mi prese per mano e, per la prima volta da quando la conoscevo, volle descrivermi il posto in cui saremmo andati. Anche se la sua descrizione era accompagnata da una sana corsetta e dai nostri corpi che iniziavano a sudare, fu piacevole l’arrivo, in questo parco, illuminato quanto basta per non perdersi di vista.
-Voglio ballare.
-Ma non c’è musica.
-Canto io.
Intonò un paio di note, mentre muoveva le braccia verso l’alto e socchiudeva gli occhi quasi a lasciarsi andare.
-Ma è la canzone della pubblicità della banca.
-E allora?
Mi prese per mano, fingendo che chissà quale gran ballo ci stesse aspettando. Mi muoveva come un manichino e io mi lasciavo trascinare con molta poca voglia di muovermi artisticamente.
Iniziò a piovere, con una pioggerellina pungente. Ci riparammo sotto un albero.
-Ottimo posto per attirare i fulmini e le saette-, disse.
La spinsi al tronco, per baciarla. Non ci pensai un attimo. Sapevo che sarebbe scappata, se le avessi lasciato scelta. Non lo fece. Teneva il mio viso fra le sue mani, con una dolcezza leggera. In quel momento, senza saperlo, mi stava dedicando tutte le attenzioni che mi erano sempre mancate, nel corso della mia vita. Mi fece sentire l’unico. Non uno su cento, non uno su un milione. Mi strinse a se, in un abbraccio, come se anch’io, gli fossi mancato da chissà quanto.
In silenzio, ognuno camminava dal suo lato. Nessuna effusione, nessuna parola, nessun sorriso, lacrima, nessun gesto.
-Mi dispiace, se ho fatto troppo. Mi sono lasciato prendere.
Mi guardò negli occhi, sorridendo.
-Grazie. 
   
 
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