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Autore: _A m a l i a_    14/05/2015    3 recensioni
Milano, Seconda guerra mondiale.
Una storia d'amore più forte del tempo. Più forte della guerra e delle proibizioni.
Clarissa è la giovane figlia di un sostenitore del partito fascista. Cesare è l'uomo di cui s'innamora. Un uomo che combatte la dittatura e mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Un eroe silenzioso.
La loro storia cammina di pari passo con la disperazione, con la morte e cresce nascosta dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe accettarla.
***
Dal 13esimo capitolo:
«Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~





 
11.


Settembre, 1943

Le sfiorava la guancia con il palmo delle dita e si avvicinava per lasciarle con dolcezza un bacio sulle labbra. Lo faceva sempre quando lei diceva qualcosa di buffo o quando gli faceva domande troppo grandi, persino per lui. Lo faceva lontano da occhi indiscreti, passeggiando in un cortile desolato o sul divano del suo piccolo salotto, nascosto in un punto incerto della terra. 

A volte lasciava che gli prendesse la mano, nelle vie deserte di una Milano in lutto, avendo cura di allontanarla quando al loro fianco passavano militari fascisti, dal 13 settembre sotto l’ ufficiale e spietato comando delle direttive tedesche della Wehrmacht. 
 


Quel giorno sembrava particolarmente esausto, come se non dormisse da troppe ore. Imboccarono una via traversa di Piazza Diaz e si sedettero su una panchina.

«Allora? Che te ne pare del nuovo regalo di mia nonna?» chiese euforica Clarissa, sollevando maliziosa le pieghe azzurre del vestito che a mala pena le copriva le ginocchia. Cesare sorrise, senza darle grande attenzione.

«Tua nonna sospetterà ti piacciano sempre di più le lezioni di cucito, se scomodi il vestito nuovo per andarci.» La sua voce pacata era così bassa da sembrare rauca. Sottolineava la sua stanchezza o forse l’imperturbabile distacco che non lo abbandonava mai.

Clarissa gli si avvicinò ad un orecchio. «Infatti mi piacciono sempre di più.» Gli baciò la guancia.

«Qui no, piccola matta.» disse, allontanandola. «La vedi quella signora che cammina sotto i portici? Quella con il cappello marrone. E’ la moglie dell’impresario Foschi, un fermo sostenitore del governo. Sai quanti oppositori politici sono finiti in galera solamente perché i coniugi Foschi non hanno saputo tenere la bocca chiusa?»

Clarissa sbuffò. «Ti ho già detto che se finisci in galera io vengo con te.»

«E io ti ho già risposto di non tornare a dire una sciocchezza simile, se non sbaglio.» le parlò, in tono risoluto, sapendo di non sbagliare. «Non farmi preoccupare Clarissa, te lo chiedo per favore, almeno tu.» nonostante fossero coperti dagli occhiali da sole, Clarissa sapeva che i suoi occhi erano tornati ad accigliarsi.

«Chi altro ti fa preoccupare?»

Non rispose e con grande naturalezza cambiò argomento. Era talmente abile in quell’arte.



Più tardi suonarono, impreviste ed incalzanti, le sirene d’allarme, annunciando un possibile attacco aereo. Accadeva con frequenza quasi regolare, in quelle settimane.

Cesare la portò in una delle cantine per la protezione di civili; la più vicina alla loro zona e lì vi rimasero fino al tardo pomeriggio. Non sentirono cadere nessuna bomba.
 
Quanto folle doveva essere per non riuscire ad avere paura, mentre aspettava in silenzio tra le braccia di quell’uomo e quanto egoistico era il desiderio di rimanere in quel rifugio per l’intera notte; ascoltando le madri intonare il verso di una serenata per placare i pianti dei loro bambini e guardando scivolare tra le mani di alcune anziane donne, un rosario consumato.
 
Accanto a loro si sedette una bambina, con due lunghe trecce scure che arrivavano a toccarle la punta della schiena. La debolezza incisa nei suoi grandi occhi azzurri, non riusciva a diminuirne la bellezza. Guardò Cesare e piena di speranza gli domandò se avesse del cibo con sé. Lui frugò nella tasca e prese alcune gallette di farina nera, nonostante le avesse comprate poche ore prima con l’intento di regalarle al piccolo Paolo Spitzer.

Quando terminò di mangiarle, la bambina chinò la testa verso Cesare, l’appoggiò al suo braccio e per qualche minuto si sentì meno sola.
 


«C’è una cosa che devo dirti.» disse Cesare a Clarissa, mentre abbandonavano la cantina. Dietro di loro una fiumana di persone si trascinava con impazienza sulle scale.

«Dovrò allontanarmi da Milano, settimana prossima.» riprese, poco dopo, cercando di guardare oltre il suo viso, mentre le parlava. Sfiorò appena la testa della bambina dalle lunghe trecce, che gli passò a fianco e agitò una mano per salutarlo. La guardò sparire tra il miscuglio di gente.

«Perché? E’ successo qualcosa?» chiese Clarissa.

«Non è successo niente, ma ho bisogno che tu mi prometta di andare alle lezioni di cucito, quando non ci sarò. Sarà un bene farsi vedere da quelle parti, servirà a destare meno sospetti.»

La fermò non appena la vide pronta a replicare. C’erano troppe facce sconosciute attorno a loro, sarebbe stato prudente aspettare di essere più isolati.

Nella strada verso la fermata del tram, Clarissa camminava imbronciata.

«E’ soltanto una settimana.» sussurrò lui, accarezzandole velocemente i capelli, prima che lei si divincolasse.

«Non sono arrabbiata perché sparisci per una settimana, ma perché ovviamente non mi dirai mai il motivo per cui te ne vai. Il che significa che continui a non fidarti di me.»

«Io mi fido cecamente di te.» rispose, impassibile. «Per questo so che farai come ti ho chiesto e andrai alle lezioni di cucito.»

Clarissa s’ indispettì ancora di più. «Lo vedi? Mi tratti come una bambina stupida. Sai che non intendevo quello. Non ti fiderai mai abbastanza da dirmi cosa sta succedendo, perché sono sicura che qualcosa sta succedendo.»

«Sta arrivando il tuo tram.»

Clarissa lo fermò per una mano. «Cesare..»

«Una settimana, Clarissa. Solo una settimana.» insistette, abbandonando a malincuore la sua mano. Attorno a loro almeno quattro soldati armati aspettavano lo stesso tram di Clarissa. Se anche solo uno di loro avesse voluto chiedere i documenti a Cesare, com’era nelle sue facoltà, tutto avrebbe trovato fine. Le passeggiate, le mani che si cercano, le parole sottovoce, tutto. Ciò che le chiedeva era solamente una settimana.

La fissò negli occhi, chiedendole implicitamente di non contestare.

«Penserò a questo vestito ogni giorno.» furono le ultime parole che pronunciò, sfiorandone il tessuto sui fianchi, mentre la aiutava a salire.
 



Cesare non lasciò Milano, la settimana successiva.


 
«I giornali parlano chiaro.» disse il Gastaldi, sbattendo una copia dell’ Unità sul tavolo. Non si parlava d’altro, negli ultimi giorni. Era la notizia che nessuno avrebbe voluto ricevere. «I carnefici tedeschi sono arrivati e si sono presi quello che gli spettava. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma è ovvio che non sono venuti solo per bersi un caffè e togliere il disturbo.»

«Chiaramente no.» commentò Cesare. Di solito fumava di rado e ancor meno quando si trovava nel rifugio segreto. Eppure quello che spegneva era il secondo mozzicone della serata e di sicuro non sarebbe stato l’ultimo. «E le notizie che arrivano da Roma ne sono la riprova. Sembra siano entrati nel quartiere ebraico pochi giorni fa, senza andarsene con meno di millecinquecento persone.»

La moglie di Dante Moscato si portò le mani alla bocca, per smorzare un grido di sconforto.

«Si sa che fine hanno fatto?» chiese Igor Basevi. Era il più timido tra gli uomini del sottoscala e sentirlo parlare sorprendeva sempre tutti.

« Alcuni di loro hanno raggiunto un campo di lavoro a Fossoli.» gli rispose Cesare, con freddezza. Era quella, la sua migliore arma di resistenza. «altri a quest’ora saranno già in Germania…»

«E sappiamo bene cosa significa la Germania.» commentò amareggiato il Gastaldi.

Il piccolo Paolo aveva cercato di rimanere in silenzio fino a quel momento, ascoltando le conversazioni degli adulti senza che la sua innocente curiosità le interrompesse. «Che cosa significa la Germania?» si fece sfuggire.

Nessuno di loro ebbe il coraggio di rispondere. Sua zia gli accarezzò il berretto che indossava con ostinazione giorno e notte e con lo sguardo più dolce che potesse mostrargli, lo convinse ad andare a giocare in un’altra stanza.


«Esattamente qual è obbiettivo delle trovate fasciste? Far arrivare i tedeschi per metterci più paura?» chiese Carla, stringendo la mano del marito che a quel tempo trascorreva quasi tutte le sue giornate al rifugio. «Non capisco come potrebbero, ci hanno già tolto la possibilità di frequentare scuole, di lavorare, di sposarci con chiunque non appartenga alla nostra razza. Non possiamo nemmeno camminare all’aria aperta. Cosa possono portarci via ancora?»
 
«Probabilmente l’ultima cosa che vi rimane.» disse Cesare, attorcigliando il giornale riverso sul tavolo e buttandolo via. Che senso avrebbe avuto farsi del male, continuando a rileggerlo? «Non si tratta più di perseguire i vostri diritti, Carla, si sono stancati persino loro di farlo. Ora passano alla fase successiva, cominciano a perseguire le vostre vite. E allora chi meglio dei compagni tedeschi per aiutarli?»
 
Non parlarono per molti minuti, tanto che una candela riuscì a consumare tutta la sua cera.
 
«Adesso cosa faremo?» Carla chiese a Cesare quel che tutti avrebbero voluto urlare.

Cesare trascinò lo sguardo su ognuno di loro. «Cercheremo di stare ancora più attenti.» affermò, con le mani nelle tasche e il tono serioso. «Ridurremo il consumo di carbone e serreremo le finestre. So che suona terribile, ma sono misure di sicurezza inevitabili.»

«E chi pensa alla tua di sicurezza, Cesare?» domandò Dante Moscato. La sua gentilezza era spontanea come ogni sua altra parola. «Ci nascondi qui da giugno e mai una volta ti ho sentito parlare di come fai a proteggerti quanto sei là fuori.»

Cesare sorrise appena, gli mise una mano sulla spalla e liquidò l’argomento. Non fece parola dell’unica cosa a cui realmente pensava quando era là fuori.

Per l’intera settimana lui e gli uomini del rifugio segreto si adoperarono per renderlo ancor più inosservato. Cesare e il marito di Carla – gli unici a poterlo abbandonare - tentavano di recuperare le razioni di cibo al mercato nero e le poche informazioni, incensurate dal regime, che ancora circolavano tra la popolazione.
 


Fu la domenica pomeriggio, di quell’interminabile settimana, che la vide aggirarsi intorno al palazzo dove si nascondevano gli otto rifugiati.

Avrebbe riconosciuto la bellezza dei suoi capelli, senza nemmeno bisogno di guardarla in faccia.

Alle sue spalle, sentì avanzare un piccolo furgone militare. Si nascose all’angolo di una via, ma in quello stesso istante lei si voltò e lo vide. Il furgone si fermò e dal suo interno ne scese un soldato in uniforme nera e berretto. Si avvicinò a lei con fare ispezionante e poco dopo Clarissa gli mostrò dei documenti. Appariva così indifesa davanti a lui. Cesare si ritrovò a pregare un Dio a cui non credeva, perché quel soldato non la caricasse sul furgone.

Fece appello a tutte le sue forze per trattenersi dall’avvicinarsi e con violenza strinse un pungo contro il muro, fino farsi male. Il soldato parlottava e a tratti rideva, mentre il volto di Clarissa era inverosimilmente serio. Prima di decidersi a lasciarla andare si chinò sulla sua guancia e la baciò. Clarissa guardò gli occhi lontani di Cesare.
 
«Dimmi che sei finita in questa zona per puro caso.» furono le prime parole di Cesare, poco dopo, quando Clarissa lo raggiunse.

Non poté trattenersi dal correre verso di lui e abbracciarlo cosi forte, da percepire i battiti del suo cuore oltre la camicia bianca, ma lui la scostò con lo stesso vigore.

«Rispondimi Clarissa, se vuoi che mi calmi.»

«Non credo ti farà calmare la mia risposta.» disse lei, sorridendogli.

Cesare la spostò energicamente sul muro della via. Le sue braccia le impedivano di scappare, sebbene fosse l’ultima cosa che intendesse fare. La guardava furibondo, senza parlare, eppure sapeva che i suoi sguardi non le importavano, che avrebbe continuato a fare ciò che voleva.

«Dimmi qualcosa, ti prego.» gli chiese Clarissa, avanzando con la bocca verso le sue labbra, troppo lontane.

«Sei una stupida incosciente.» disse, serrandole i polsi perché rimanesse ferma. «E non ti arrenderai mai, fino a quando ti uccideranno.» sospirò. «Riesci a metterti in testa che non voglio che accada? Perché io non so più come dirtelo.. non so più come fare con te. Cosa diavolo devo fare, spiegamelo tu...»

Poteva avvertire i suoi sospiri sulla fronte, il suo odore, la pelle a centimetri dalla sua. Alzò le punte dei piedi più che riuscì. «Baciami e basta.»

«Fermati. Clarissa, basta sul serio. Basta giocare.» Cesare si allontanò, di colpo, passandosi nervoso, una mano sul volto. «Sai cosa farai ora? Ritornerai immediatamente a casa e non ti farai mai più vedere. Mi hai capito bene? Mai più.»

Clarissa scosse la testa. «Non sto giocando. Perché pensi sempre che stia giocando?» rispose, bloccata nella posizione in cui l’aveva lasciata. «E non me ne andrò perché non è quello che vuoi che faccia.»

«Sei tu che mi porti a volerlo, maledizione! Visto che di quello che veramente voglio non ti importa niente, altrimenti riusciresti a rimanere una misera settimana lontana da me, invece di pedinare ogni mio movimento e metterti costantemente in pericolo.»

Quando sentirono il motore del furgone tornare a riempire il muto deserto della strada accanto a loro, Cesare coprì il corpo di Clarissa con il suo. «Sono i soldati di prima?» chiese lei.

Lo sentì imprecare. Poi lo vide farle segno di non parlare.

«Ascolta bene quello che sto per dirti.» le disse a bassa voce, mentre il suono del motore si faceva sempre più nitido. Insieme alla rabbia, ora le sembrava di leggere una nota di paura sul suo volto. «Proseguendo per questa strada, conta tre vie a destra e imbocca la terza…»

«No.»

«Ci sarà un sottopassaggio, attraversalo e…»

«NO.»

Alzò gli occhi al cielo. «Attraversa il dannato sottopassaggio e poi mantieni la sinistra, aspettando che passi la prima corriera. Qualsiasi andrà bene, non troverai molti passeggeri a quest’ora e chiederai all’autista di portarti a casa.»

Clarissa si asciugò una lacrima sulla camicia di Cesare e si aggrappò a lui, sempre più forte. «Non intendo muovermi da qui.»

Il rumore del furgone si era ad un tratto fermato. Affacciandosi, Cesare notò che lo stesso soldato che poco prima aveva parlato con Clarissa, si stava pericolosamente avvicinando al palazzo dismesso.

Si agitò, lasciandola ancor più confusa. «Clarissa vai.» le ordinò, dandole le spalle.

Anche lei si affacciò per guardare il soldato. «Che cosa c’è dentro quel palazzo? Perché ci vieni così spesso?»

Sospirò, esausto. «Per piacere, vuoi deciderti ad andare via?» la implorò.

Questa volta non lo contraddisse, andò via, sebbene non nella direzione che Cesare sperava.

«Cosa diavolo…Clarissa…» gridò in un urlo sussurrato Cesare, mentre la guardava allontanarsi.


Svoltò l’angolo e camminò decisa verso il soldato. Quando gli fu abbastanza vicina, finse di corrergli incontro. Sarebbe riuscita a distrarlo, accettando un passaggio che solo pochi minuti prima aveva rifiutato. Arrivati a casa, il padre di Clarissa lo avrebbe ringraziato con fervore e sua nonna avrebbe insistito perché rimanesse per la cena. Il soldato avrebbe rimandato cordialmente l’invito e prendendo la mano di Clarissa avrebbe preteso di porvi un bacio, quale promessa di un arrivederci. 
 



 
«Non sei più da solo a combattere questa guerra, deciditi a capirlo Cesare Poggi.» gli disse, il giorno seguente, quando si incontrarono nel retro bottega di un vecchio negozio, da anni incustodito.
Quei momenti sarebbero rimasti con lei per molto tempo, avvinghiati al dolore dei ricordi. «Per quanto piccola i tuoi occhi continuino a vedermi, sono più forte di mille montagne e se ti dovessi trovare in pericolo, lo affronterei insieme a te senza avere paura. Quindi, lascia che ti aiuti. Vuoi camminare sulla cenere rovente? Vuoi scavalcare una diga a piedi nudi? Vuoi attraversare un giardino in pieno bombardamento?» scrollò le spalle e sorrise. «Non m’importa. Fammelo fare con te.»


Era lì. Davanti a lui. Viva. La guardava e vedeva vita, in mezzo a tanta morte, vedeva vita. E ormai sapeva di amarla. Non glielo avrebbe detto, né tantomeno mostrato, ma l’amava.

Era la variabile imprevista dei suoi piani. La tempesta che allontana il dolore. E ora l’amava, più di quanto amasse la sua vita.

Cesare si abbassò sul suo volto e ne inspirò il profumo. «L’unica cosa che voglio.» cominciò serio. «E’ che nessuno, mai più, baci questa guancia.» l’ accarezzò con il palmo del dito e la baciò.

Baciò le labbra con bisogno vitale, si avvicinò al suo corpo, stringendo la pelle candida della sua schiena tra le mani, portandola a sé, per avvertirne ogni angolo, ogni ossa.

E poi, quando terminarono i respiri, scosse la testa, chiedendosi in che punto della sua vita avesse deciso di perdere la ragione e chiedendosi, con maggior sospetto, se ci fosse mai stata vita prima di allora.

 
 
Com’era prevedibile, Clarissa avrebbe vinto.

Cesare le avrebbe permesso di conoscere i rifugiati, soltanto qualche settimana dopo. Dividendo con lei il peso del suo più grande segreto.
 

 
  
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