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Autore: Poetessia    14/05/2015    2 recensioni
Ho sempre amato i cassetti: sempre pronti ad ospitare il disordine, discreti, sigillati, capaci di custodire silenziosamente anche chissà quali segreti.
Ciò che li rende ancora più magici, però, è il riaprirli quando sei obbligato a riordinare, catalogare, selezionare e, talvolta, eliminare ciò che custodiscono, ritrovando, tra le cartacce e gli involucri delle merendine mangiate di nascosto, ricordi legati a chissà dove e quando; inutile dirlo, il cassetto delle fotografie resta il mio preferito.
[...]
Molto spesso si definisce l'adolescenza "un'età delicata", se non addirittura "la più delicata della vita", perché è il periodo in cui il carattere di un individuo inizia a farsi vedere per venire piano piano plasmato come creta, fino ad assumere una forma definita e indurirsi col tempo.
Quella definizione l'ho sempre vista come una grandissima stronzata.
L'adolescenza non è delicata per niente: è anzi un'età crudele, spietata, che ad un certo punto, mentre sei tra le Barbie e i poster delle boyband, ti strappa via dalla cameretta e ti ficca in pasto ai giudizi, come a dire "Toh, benvenuta nel mondo reale, nana". Niente istruzioni per l'uso, niente tutorial preparatori al gioco: o lo capisci da sola, o muori.
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«A che punto sei?»
«Ho tolto tutti i poster e li ho messi a posto. Spero solo che non si rovinino negli scatoloni, magari per precauzione comprerò un tubo di quelli che si usano per i disegni.»
«Mah, come vuoi. Adesso?»
«Credo che metterò a posto le foto.»
«Ok, io inizio a mettere via i libri.»

Ho sempre amato i cassetti: sempre pronti ad ospitare il disordine, discreti, sigillati, capaci di custodire silenziosamente anche chissà quali segreti.
Ciò che li rende ancora più magici, però, è il riaprirli quando sei obbligato a riordinare, catalogare, selezionare e, talvolta, eliminare ciò che custodiscono, ritrovando, tra le cartacce e gli involucri delle merendine mangiate di nascosto, ricordi legati a chissà dove e quando; inutile dirlo, il cassetto delle fotografie resta il mio preferito.
Due grossi album, dedicati alle foto dei primi quattro o cinque anni di vita miei e di mio fratello, prendono subito posto nella scatola: un piccolo raccoglitore racconta la nostra prima volta a Gardaland, facendomi ridere al ricordo di quanto mio fratello si fosse intestardito di voler salire sulle montagne russe nonostante fosse troppo piccolo. I suoi diciott'anni, in discoteca, le foto sfocate o con le luci alterate; i miei diciott'anni, in una grande sala affittata per l'occasione, con tutti vestiti a tema anni '80.
Resto a rigirarmi in mano quell'album per qualche istante, ricordando il DJ set improvvisato, il mio modo goffo di ballare Y.M.C.A. e di coinvolgere gli invitati a fare lo stesso: lo apro schizzando all'ultima foto, quella con tutti gli invitati, lasciandomi travolgere dai ricordi per un istante prima di richiuderlo e abbandonarlo insieme agli altri.
Ho quasi finito, tentando di ignorare i ricordi che bussano alla porta della mia mente per sveltire il lavoro quando il mio occhio si posa su un album sconosciuto: piccolo, in formato libretto, ma particolarmente spesso, con una semplice copertina blu e una scritta artigianale, probabilmente realizzata col bianchetto: "POWER".
Lo fisso interdetta: quelle foto non dovrebbero esistere...
«Ma'!» chiamo «Hai fatto stampare le foto dei Power?»
«Le ha fatte stampare papà.» annuncia lei «Lo sai che è fissato con le foto cartacee, e poi l'hai detto tu che il CD era rovinato.»
«Sì, hai ragione.» convengo, girandomi in mano l'album e sfogliandolo velocemente, facendomi aria e ritrovandomi faccia a faccia con la foto di gruppo.
Senza volerlo la accarezzo: Marta, Chiara, Roberto, Stefano, Giorgia, Edoardo...
Mi avvento sul letto, senza smettere di fissare la foto: Chiara l'ha messa su Facebook qualche giorno fa in preda ad un momento di nostalgia, riempiendosi la bacheca di post malinconici che rivangavano vecchie storie. I più scrivevano "che bei tempi spensierati, vorrei tanto tornare indietro nel tempo".
Li avrei strozzati.

Molto spesso si definisce l'adolescenza "un'età delicata", se non addirittura "la più delicata della vita", perché è il periodo in cui il carattere di un individuo inizia a farsi vedere per venire piano piano plasmato come creta, fino ad assumere una forma definita e indurirsi col tempo.
Quella definizione l'ho sempre vista come una grandissima stronzata.
L'adolescenza non è delicata per niente: è anzi un'età crudele, spietata, che ad un certo punto, mentre sei tra le Barbie e i poster delle boyband, ti strappa via dalla cameretta e ti ficca in pasto ai giudizi, come a dire "Toh, benvenuta nel mondo reale, nana". Niente istruzioni per l'uso, niente tutorial preparatori al gioco: o lo capisci da sola, o muori.
Grazie ad una meccanica strana che non ho mai compreso in tanti anni (e nemmeno ai miei e a mio fratello è mai venuta in mente una spiegazione logica), una mattina vai a scuola e scopri che le tute di acetato sono state sostituite dai jeans a vita bassa, mentre la maglietta con i soggetti dei cartoni animati è diventata corta, o scollata, o mezza trasparente, o tutte e tre messe assieme: e te, unica deficiente ancora con la tua bella tuta tanto comoda e la maglietta con sopra disegnato un carinissimo pony, vieni guardata non più come un'amichetta o una normale compagna di scuola, ma come un'aliena venuta dal pianeta Barbonland. A nulla valgono le rassicurazioni di genitori e parenti, che ti ricordano che l'aspetto esteriore non vale nulla, che tu probabilmente sei guardata in modo strano perché sei più carina, o intelligente, o simpatica, tentando di convincerti e di andare avanti a testa alta: alla fine, nel profondo del cuore, sai benissimo ciò che sei realmente agli occhi di chi frequenti, di quelli che fino a ieri erano tuoi amici.
Un'esclusa.
L'adolescenza è impietosa perché gli adolescenti sono impietosi: ancora adesso, pur essendo cresciuta da un pezzo, preferisco tenermi a distanza dai piccoli mostri tra i dieci e i sedici anni di età, con i loro jeans alla moda, il più delle volte osceni, i loro strani modi di parlare e quel costante occhio indagatore e inquisitore, che ti scruta ed esamina dall'alto in basso, giudicandoti, spesso male.
A rivedere la foto mi scappa da ridere: l'adolescenza è un'età del cazzo perché si è regolarmente tutti orribili; anche Anna, che io avevo sempre trovato la più bella del gruppo e invidiavo tantissimo, ora mi appare bruttoccia, con quell'apparecchio fisso e i denti ancora storti. Forse dovrei essere meno impietosa nei giudizi, perché, stando ai buonisti, ognuno è bello a modo suo, soprattutto i bambini, che sono tutti belli.
Ma quelli in fotografia non sono bambini.
Sono giovanissimi adulti di domani: adulti che iniziavano ad assorbire come andava il mondo, che carpivano e assimilavano informazioni come un russo si scola un bicchiere di vodka; le sentivano, quelle informazioni, bruciargli in testa e in gola, facendogli sputare giudizi che bruciano a loro volta.
Non posso dire che ripensare al passato mi facesse male o mi procurasse dolore: mi sembrava, però, di sentire una fitta lontana, come se al posto delle farfalle nel mio stomaco ci fossero pipistrelli, o vespe, o insetti che volavano e pungevano. Avevo passato l'adolescenza sentendomi sempre come fuori fase, lontana dai discorsi dei miei coetanei, dalle loro mode, dalle loro idee che, pur tentando di uniformarmi, dette da me sembravano strane, gracchianti e forzate.
Non avevo mai sentito la mancanza di quel periodo della mia vita, non volendolo né elidere né glorificare: c'era stato, ma era passato ed era meglio così.
Fisso i nostri volti sorridenti, e senza volerlo sorrido anch'io.
"E dire" sospiro, riaprendo l'album dalla prima foto "che con loro mi sentivo a casa."

I Power erano nati dall'idea di alcuni ragazzi del liceo che, vedendo un vecchio locale di proprietà di un tizio che non lo curava, ebbero l'idea di creare una sorta di doposcuola per i bambini e ragazzini del comune, adottando quel luogo come sede: tre stanzoni, un corridoio stretto, un bagno minuscolo e uno sgabuzzino che si erano presto riempiti di colori, disegni e panche. Non c'erano giochi da tavolo, non c'erano videogames, solo palle, fazzoletti di stoffa, carta e tanta fantasia.
La prima volta che varcai la soglia della "sede", come l'avremmo poi chiamata noi stessi, avevo iniziato da poco la prima media e potevo ancora permettermi di indossare una tuta senza essere giudicata: ci sedemmo tutti in cerchio, perché era la forma perfetta ed era continuo, e ci presentammo uno a uno, consci che avremmo dimenticato presto i nomi dei pochi presenti che non conoscevamo. I più erano ragazzini di prima media come me, che conoscevo dalle elementari o dal catechismo, facce note, familiari.
In molti se ne andarono dopo poco tempo, seccati dal divieto di portarsi giochi elettronici e cellulari; dopo quattro anni, del gruppo originale, eravamo rimasti in nove, crescendo insieme, imparando a capire e ad accettare le nostre differenze e debolezze, alla costante ricerca della battuta pronta per sollevare chi era triste e pronti ad aiutarci l'un l'altro. Ci facevamo chiamare "power", perché ci sentivamo forti e potenti. E forse lo eravamo davvero.
Quando siamo diventati abbastanza grandi, Antonella e Marco, due dei fondatori del gruppo, avevano deciso di prendersi cura di noi "veterani" e regalarci delle gite fuori porta: con una somma irrisoria andavamo a dormire in altri vecchi locali in città vicine o ruderi in campagna, se non addirittura in tenda. Il più delle volte faceva un gran freddo, ma non importava.
Sfoglio le foto, trovandomi davanti quella della prima gita: una chiesa sconsacrata sul cucuzzolo di una collina, dove eravamo arrivati che il sole era già calato e dove, dopo mangiato, ci eravamo dedicati a giocare a nascondino muniti di torcia, per poi dormire fasciati nei sacchi a pelo sul marmo della chiesa. Ricordo ancora il raffreddore del giorno dopo.
Continuo a sfogliare: una casa sulla spiaggia, in legno scuro, dall'aspetto trascurato ma non pericolante; Nicolò e Roberto alle prese con un fornello e una bombola del gas che fanno il gesto dell'ok con le mani; un piatto di riso allo zafferano; un grosso grumo di riso allo zafferano, Stefano che ride sullo sfondo, reggendo la forchetta che, a sua volta, sostiene il grumo; i maschi ed io abbracciati che cantiamo a squarciagola.
Sorrido, ormai completamente abbandonata alla nostalgia e all'amarcord, ritrovandomi a canticchiare quella stessa canzone della fotografia.

Era l'ultimo weekend di aprile, il clima era sempre più mite e Marco aveva convinto Antonella a portarci al mare, in una casetta vecchiotta ma pittoresca, con angolo cucina, la sala e un soppalco dove avevamo sistemato ordinatamente i sacchi a pelo: ragazzi e ragazze non erano più separati e io non potevo che esserne felice, preferendo ampiamente la compagnia maschile, e avevo incastrato il mio sacco a pelo tra quelli di Edoardo e Nicolò. La sera avevamo mangiato il peggior riso allo zafferano mai cucinato prima di allora, colloso e stracotto, finendo poi per ingozzarci di pane e Nutella; poi, approfittando del fatto che la casa era relativamente isolata, Giorgia aveva tirato fuori un lettore mp3 e delle casse, mettendo la musica ad un volume esagerato.
Dopo essere crollati ci svegliarono le prime luci dell'alba: io, che ero da sempre la più mattiniera, ero scesa dal soppalco per andare fuori di casa a godermi il sole sbucare e tingere il cielo, per poi iniziare a preparare la colazione per tutti, sentendomi gonfia di pace e pensando che non potesse esistere nulla che potesse rendermi più felice.

L'album scorre rapidamente e le foto si susseguono rapide, mostrandomi giochi, volti sorridenti, boccacce e disegni buffi; poi, una coppia di foto probabilmente creata per caso, ma spaventosamente perfetta. Due facce della stessa medaglia.
Alla mia sinistra alcune candele, Marco che imbraccia la chitarra senza suonarla e Marta, Anna e Chiara che discutono animatamente, circondate dalle facce maschili seccate o annoiate; a destra, una foto che credevo perduta, la sola con lui.
«Ma'!» chiamo nuovamente «La foto con Martino da dove spunta?»
«Come "da dove spunta"?»
«Eh!» incalzo «Ho perso il file da secoli!»
«Vedi che le foto cartacee servono sempre?»
Rinuncio ad insistere, gli occhi incollati all'immagine: io ho la lingua di fuori scimmiottando i Kiss, lui fa una brutta smorfia che lo deturpa ancora di più, ma per la prima volta sembra felice di essere vicino a me.
Lo fisso.
Era bruttissimo, con una costellazione infinita di brufoli in faccia, gli occhietti piccoli e scuri, la bocca sottile che sembrava un taglio; del resto non mi sembrava bello nemmeno allora.
Ci eravamo conosciuti a scuola, dopo esserci litigati il banco in ultima fila, costringendoci poi a stare vicini e ritrovandoci obbligati da noi stessi alla convivenza: avevamo iniziato ad aprirci l'uno all'altra, scoprendoci più simili di quanto avessimo immaginato.
Nonostante lui non fosse particolarmente abile nell'arte del disegno, voleva fare il pittore: sosteneva che ciò che era importante era avere delle buone idee, e lui, a suo dire, ne aveva "a badilate."
Non ci volle molto per innamorarmi di lui: un sentimento profondo, vivo, radicato, nonostante la mia giovanissima età, che ancora adesso mi fa rabbrividire vagamente.
Lui, dal canto suo, preferiva le ragazze somiglianti alle Barbie e non considerava certo l'amica in tuta: anzi, per un periodo di tempo addirittura smise di rivolgermi la parola, trovando la mia presenza fastidiosa, irritante e ingombrante; quella foto era il ricordo di una sera in cui era stranamente di buon umore, ad una festa improvvisata a casa di Giorgia, uno dei miei preferiti di quello strano periodo della mia vita. Mi ero sentita viva, felice di poter stare a stretto contatto con il ragazzo dei miei sogni dopo tanto tempo di snobismo.
Mollai un momento l'album aperto su quelle due foto, rovistando nei cassetti del comodino e ritrovando l'oggetto dei miei desideri: una coppia di CD mai consegnati, una tracklist infinita, dedicata a lui. Colonne sonore di momenti che ci legavano, dediche, ricordi, istantanee.
«Perché un pazzo come te manca di pubblicità, ma se resterai con me io farò di te una star...» presi a canticchiare, ricordando come talvolta l'avessi chiamato proprio "il pazzo" in onore di quella canzone che tanto me lo ricordava.
Torno a guardare l'album, dedicandomi alla foto a sinistra.

Quella sera Antonella aveva deciso di coinvolgerci su una riflessione sull'amore, invitandoci a riflettere sul significato di una parola tanto importante: in realtà, col senno di poi, ho capito che cercava di indagare riguardo ai nostri sentimenti verso alcuni dei ragazzi più grandi; Marta aveva manifestato tempo prima di essersi presa una forte cotta per Furio, uno dei fondatori del gruppo, e i suoi alti e bassi con lui influivano molto nel nostro gruppo.
Io ero carica come una molla, stranamente pronta al dialogo, a esporre le mie teorie sull'amore e sul mio sentimento verso Martino: com'era facile immaginare, però, Marta e Anna (l'una innamorata, l'altra in una lunga relazione) avevano iniziato a monopolizzare il discorso, lasciandomi il solo sforzo di ascoltarle e comprenderle.
Parlavano di progetti di vita, matrimoni e figli, idealiste come bambine, probabilmente più innamorate dell'amore che dei ragazzi oggetti delle loro mire, sostenendo di aver già compreso chi fosse la loro cosidetta "anima gemella" e accampando scuse per avvalorare la loro teoria; i maschi non proferivano verbo, costretti nei loro stereotipi di genere che li allontanavano da discorsi tanto stucchevoli, annoiandosi e desiderosi di cambiare argomento o di dormire.
La riflessione, prevedibilmente, lasciò il tempo che trovò e in breve eravamo tutti rannicchiati nei sacchi a pelo, mentre Marco intonava classici del cantautorato italiano con voce dolce e calda, facendo sentire tutti protetti, sereni e felici.

"Il bello è che fuori dai locali del Power non ci vedevamo mai." mi ricordo: ciò in passato mi aveva sempre lasciato un velo di amarezza addosso, come se il problema fossi stata io stessa. Alcuni si trovavano al mare insieme, altri erano cresciuti insieme, ma non avevamo mai organizzato molte occasioni per incontrarci: giusto qualche sabato sera qua e là, una festa ogni tanto, un capodanno delirante che puzzava di fumo e del vomito di Martino, imbucatosi all'ultimo minuto e ubriacatosi.
In questo momento però mi torna sulle labbra il sorriso: il tempo mi aveva mostrato che ciò era in realtà un fatto normale e io non dovevo crucciarmi. La vita a lungo andare logora i rapporti e separa anche quegli amici che sembravano fratelli: la colpa non è di nessuno, se non del fatto che, col tempo, non si trova più il modo di vedersi, o un qualcosa di interessante da dirsi, limitando il rapporto amichevole ai soli SMS.
Ma anche quelli, col tempo, subiscono una mutazione: da principio sono molti e appassionati; poi, piano piano, si trasformano in rari ma comunque interessati, fino ad arrivare a semplici messaggi di cortesia e di freddi auguri, di promesse di "rivedersi come ai vecchi tempi" mai mantenute senza un motivo preciso. Tutto ciò che rimane, alla fine della fiera, è un senso di amarezza e una domanda che ogni tanto bussa alle porte della nostra memoria: "chissà perché non ci vediamo più, quasi quasi le scrivo ma non vorrei disturbare..."
I volti che mi sorridono sulle fotografie, ormai, stanno correndo il rischio di scolorare in quelli di perfetti estranei: qualche tempo fa, addirittura, ho visto Chiara in giro e ho faticato a riconoscerla, salutando con un "ciao" freddo e incerto, senza smettere di pensare a quanto ci aveva unite in passato.
Giro ancora una pagina dell'album e scopro che sono arrivata al termine: la foto di gruppo, con alle nostre spalle un paesaggio montano da cartolina, tanto bello da sembrare finto, tutti sorridenti anche se stanchi per la camminata fatta poco prima.
Lo chiudo, lo sistemo nello scatolone e torno a riordinare le restanti fotografie, ripensando a quanto sia buffa la vita.

Ho voluto far finta che quelle foto non esistessero per almeno un paio di anni: non per vergogna, ma perché vedendole mi sentivo cogliere da una fitta di amarezza che riportava a galla, non mi spiego ancora perché, gli sguardi inquisitori dei compagni di scuola, le occhiate cattive di Martino e le amiche che mi fissavano dall'alto facendomi sentire un'esclusa. In qualche modo, rivedendole, mi sentivo ancora la ragazzina in tuta con i capelli stropicciati e il viso senza trucco, avulsa dal mondo dei ragazzini normali.
Oggi, però, con una maturità che non credevo di aver sviluppato nell'ultimo biennio, sono riuscita solo a rivedere i momenti di semplice ed indimenticabile felicità. Certo, se non è impossibile è perlomeno improbabile che un giorno faremo una rimpatriata, e forse non erano realmente gli amici tanto sinceri che immaginavo fossero, ma non importava.
Forse, sotto sotto, ogni tanto sarei tornata anch'io indietro nel tempo.
  
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