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Autore: Francine    16/05/2015    8 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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19.




La Luna piena spicca nell’azzurro del cielo mattutino, tonda tonda come un bottone d’argento su una giacca di velluto. La carrozzina, un modello inglese dalla culla blu e le ruote grandi, pesa un accidenti, ma il dondolio sul marciapiede la fa dormire. Sonnecchiare, è il termine giusto. Le palpebre sono abbassate e la boccuccia è dischiusa, ma Françoise ha imparato presto che se la manina è chiusa a pugno – sempre la sinistra, poi! – allora si dorme della grossa e lei le augura di fare i sogni più meravigliosi e splendenti dell’universo; ma se i ditini sono solo parzialmente rivolti verso il palmo, Coralie è sveglia.
Fa finta di dormire, la lazzarona, come il gatto di Maman Louise quando si acciambella nella cesta. Pensi che lui ronfi della grossa, le zampine a cuscino e gli occhi chiusi, ma è solo una farsa. Le orecchie non si perdono un solo movimento e basta un rumore appena accennato – il fruscio particolare della carta con cui il salumiere avvolge le salsicce, ad esempio – per spalancare i fanali color agata e materializzarsi alle sue spalle. Facendole prendere un colpo.
Quei due si sono coalizzati. E Françoise è pronta a scommettere che il gatto deve averle insegnato due o tre cosette mentre ronfava a contatto col pancione, durante la gravidanza. Perché a Coralie l’idea di dormire non passa neppure per l’anticamera del suo cervellino. Riposare? E perché? Ha dormito per nove lunghi mesi, e adesso vuole recuperare il tempo perduto. Tutto. Peccato che Françoise voglia dormire, di notte, quando fa più fresco e l’afa di fine Luglio è qualcosa di sopportabile, con un ventilatore allato.


Coralie non concorda. Piange. Grida, spaccando in due la notte ed il suo silenzio con strilli che arrivano fino in Paradiso, e forse anche oltre. Perché vuole la sua mamma. Vuole starle addosso. Ma fa anche caldo. E la pelle di Françoise è spesso sudata. E appiccicosa. E quella di Coralie non è da meno, con buona pace del talco e della pomata alla pasta di zinco con cui la unge ad ogni cambio del pannolino – ogni tre ore, in pratica. Così Coralie piagnucola, fino a quando la sua testolina rossa non crolla di scatto sulle clavicole di Françoise. Che non può limitarsi a tenersela contro, seduta nella poltrona di vimini davanti alla finestra. Nossignore! Deve camminare, passeggiando avanti e indietro per la stanza. Cullandola. Mormorando una qualche canzoncina, cui Françoise sostituisce le parole con mugugni sempre più disperati man mano che la stanchezza prende il sopravvento.

«Se continui così ci cacceranno», le dice, nell’assurda convinzione che i neonati capiscano tutto quello che i genitori dicono loro – o almeno, questo diceva quel manuale che ha letto tre volte durante la gravidanza; ma deve trattarsi di una panzana perché Coralie non l’ascolta. E piange. Chi mai potrebbe protestare perché la bambina piange? Un pazzo, ecco chi. Quindi lei piange. E guai a chi le dice qualcosa a riguardo. Sa piangere ancora più forte, lei.
«Testarda come suo padre», le saluta Maman Louise al loro rientro, la sigaretta accesa e l’aria stanca, fissando la neonata dritto nelle palle degli occhi. «Io la notte voglio riposare, sai?»
«Maman, non credo che lei ti veda ancora», le ribatte ogni volta Françoise, ricevendo in cambio un cenno distratto.
«Figuriamoci! Questa furfantella ci vede benissimo, dai retta a me! Non avreste dovuto chiamarla come quella scavezzacollo di mia sorella. Scegliere un nome del genere significa andarseli a cercare, i guai…»
Françoise non ha il coraggio di dirle che le hanno messo quel nome per via dei capelli della bambina. Rossi. Anarchici come una piccola colonia di corallo. E scarmigliati come quelli di Rémy. Coralie è tutta suo padre.
Gli mancava solo la barba di tre giorni sul mento, pensa Françoise, sbirciando il movimento delle dita di sua figlia. Si stanno chiudendo. Perché ci stiamo avvicinando alla scalinata, pensa sorridendo.

Puerpere e neonati hanno un posto tutto loro, come le coppiette di fidanzatini che si danno appuntamento davanti alla
loro panchina, nemmeno vi avessero piazzato una targa col nome sul legno sbeccato. Il posto di Françoise e Coralie è la panchina di sinistra in cima alla scalinata che porta a rue du Paradis. Françoise l’ha scoperto per caso la settimana scorsa, quando è uscita di casa dopo una notte di pianti e dondolii tra le braccia. L’ha messa nella carrozzina – dono delle ragazze per la bambolina, come la chiamano loro – ed è uscita in strada, alle cinque del mattino, negli occhi l’aria allucinata e disperata che solo una madre insonne può sfoggiare senza sembrare una donna sull’orlo di una crisi di nervi. E Coralie s’è placata. S’è fermata alla panchina di sinistra – quella di destra aveva la vernice fresca – e si è lasciata cadere sul legno sbeccato.
È cominciata così, la loro routine. Perché prima di partorire Coralie, Françoise credeva che sì, i neonati fossero diversi, ma che, sotto sotto, fratelli e sorelle si assomigliassero. Grosso, grosso errore. Coralie è l’esatto opposto di Etienne. Tanto era calmo e tranquillo lui, tanto assomiglia ad un’invasata lei. Tanto dormiva lui, tanto è insonne lei.
Giorno? Notte? Ma son quisquilie, queste!, sembrano dire i suoi sorrisi malandrini.
Françoise non vede l’ora che Rémy torni a casa. Così gli appiopperà sua figlia, almeno per un po’. E magari riuscirà a farsi uno di quei sonni ininterrotti che oramai sono solo un pallido, sbiadito ricordo.



L’ospite inaspettato suona alla porta sempre quando sei di pessimo umore. O hai deciso che è ora di dedicarti alle faccende domestiche e per cercare quel calzino disperso sotto al divano hai tirato fuori una piantagione di boli di peli e polvere. Oppure sei appena uscito dalla vasca da bagno – o vi sei immerso fino al collo – e non puoi fingere che no, non ci sei, perché hai lasciato lo stereo acceso ad un volume improbabile; o, peggio ancora, stavi canticchiando. Quindi ti tocca accogliere l’ospite con tutta l’educazione di cui sei capace, e ce ne vuole tanta per non fargli sentire che sì, per te lui è come una tegola che ti è caduta all’improvviso tra capo e collo. Magari di spigolo.
Però gli ospiti inattesi non sono tutti uguali. Ad alcuni non si può dire di no. Ma li si deve accogliere. Con le braccia il più possibile aperte. Perché non si può fare altrimenti – non è concesso. Perché sei in debito con loro. E perché sono venute a chiederti di saldare il conto che hai lasciato pendente.

Non disse nulla. Non fiatò. Riconobbe il suo cosmo avvicinarsi a volo radente sulle onde che increspavano appena il mare, come se volesse fare loro il solletico. Non aveva una bella cera. Né lui doveva avere un aspetto migliore, ma dopo quello che aveva sentito, dopo l’immensa esplosione che aveva squarciato in due il suo, di cosmo, lasciandolo boccheggiante a terra, lo sguardo sgranato a domandare al cielo cosa fosse appena successo, sarebbe stato strano il contrario.
Così attese. Perché l’altro non era venuto a mani vuote.
E lui ricordò. Un lampo. Un pensiero veloce e luminosissimo, come la scia di una cometa che rischiara la notte senza stelle. Suo fratello gli aveva raccontato una cosa, anni addietro, così tanti che quel ricordo non gli sembrò neppure più suo, ma un episodio accaduto ad un altro. Un amico. Un compagno. Un fratello, appunto.
«Quando vai a trovare qualcuno, devi bussare coi piedi».
Vasilios diceva che il Cancro ripeteva questa frase come se stesse snocciolando agli altri il segreto dell’origine dell’universo. E quando lui gli aveva chiesto spiegazioni – perché gli pareva sinceramente improbabile che un invitato prendesse a calci l’uscio di qualcun altro per farsi aprire – Saga gli aveva spiegato che quel modo di dire così smargiasso e ferino stava a significare che non ci si presenta a casa del prossimo a mani vuote. E il suo ospite – inatteso come una tegola che ti cade tra capo e collo. Di spigolo – portava in dono un presente niente male. Un uomo. Svenuto. Mezzo affogato. Centoottanta e rotti centimetri d’altezza inscatolati dentro l’oro zecchino che rifulgeva tra le alghe ed i lunghi capelli bagnati del Santo.

Quanto sei cresciuto, pensò, rivedendo in quel viso pallido – Athena fa' che sia solo svenuto! – il marmocchio che anni prima aveva gabbato spacciandosi per suo fratello e raccontandogli una sequela di balle cui sia lui che il suo compagno – ormai tra i più – avevano creduto con tutta la genuina ingenuità di cui sono capaci i bambini. Sirena compresa, vero?, pensò. Alzando gli occhi su quella che era appena atterrata davanti all’uscio della casupola in cui si era ritirato. Per pensare. A cosa fare della sua vita, da quel momento in poi. A come riscattare le proprie colpe. A come lavare via il sangue che gli macchiava le mani, a cominciare da quello che suo fratello aveva sparso e aveva fatto grondare – per colpa sua – fino a quello che lui stesso aveva fatto scorrere. E quello dell’altro marmocchio non macchiava forse le sue dita?
Certo che sì. Per via collaterale, forse. Ma sì.

«Non sono qui per farti del male.» Provaci pure, pensò, osservando la Sirena deporre sulla sabbia il suo prezioso carico. «Sono qui per consegnarti quest'uomo.»
«Fai il fattorino, adesso?»
Un fremito di furia attraversò le iridi di sangue della sirena. Strinse il suo flauto d’oro tra le dita, per non serrarle attorno al suo collo, ma poi desistette. Rilassò le nocche e scosse la testa.
«Obbedisco agli ordini. Come ogni bravo soldato dovrebbe fare.»
«Non sei un soldato. Sei un Generale. O sbaglio?»
«Non sbagli. E sono anche l’unico rimasto.» La sirena si alzò. E lo fissò. «E sappiamo bene entrambi a chi dobbiamo la cortesia, jawohl
Alzò le mani. «Perché sei qui?», gli chiese.
«Te l’ho appena detto. Il mio Signore ha salvato quest’uomo dalle acque. E vuole che tu lo rimetta in sesto.»
«Io non prendo ordini dal tuo signore.»
«Lo so bene. Così come lo sa lui. Ma è un ordine di Athena, questo. E il mio Signore», e il suo accento rigido si premurò di scandire bene queste ultime parole, «sa che seguirai la volontà della tua dea. Tu le appartieni, adesso. Le sei sempre appartenuto. O sbaglio, forse?».
«Non sbagli. Appartengo ad Athena, adesso. Ma quest’uomo…»
«È un servo di Athena. È un tuo compagno. Ed è ferito.»
Rise. Scosse la testa poi disse: «Non è un mio compagno. Mi ucciderà non appena avrà abbastanza forze per farlo.».
«Questo è un tuo problema.»
«Davvero?»
«Davvero. Chi semina vento, raccoglie tempesta.»
«Siamo diventati filosofi?»
«Ho poca pazienza e poco tempo. E così anche tu. Si sta avvicinando una guerra. Non dirmi che non hai sentito…»
«Certo che ho sentito!», e non gli importò che la paura, il nervosismo e l’emozione gli colorassero la voce fino ad incrinargliela. Lasciò correre il suo cuore. Al diavolo tutto, non aveva più una maschera da indossare. Athena l’aveva reso libero. E quella che portava, laggiù, sul fondo del mare, era caduta proprio grazie al canto della sirena.
«Se dunque hai percepito cos’è successo», riprese l’altro,«prenditi cura di quest’uomo.».
«E Athena dov’è? Cos’è successo?»
«La tua Signora viaggiava assieme a quest’uomo. Il mio Signore lo ha salvato. Ha salvato tutti. Ma ha deciso di isolare lui.»
«Perché?»
«Per precauzione.»
«Per precauzione?» Spostò lo sguardo sui lunghissimi capelli bagnati, come alghe di un colore improbabile gettate a riva dalla tempesta.
«Serve un piano B. Qualcuno che resti nascosto, che si finga morto. Perché gli eventi siano maturi. A volte, per curare una malattia occorre lasciare che peggiori. Altrimenti è tutto inutile.»
Ok, non ci sto capendo un cazzo, pensò, prima di domandargli:«E Athena dov’è?».
«Al sicuro.»
«Al Santuario?»
«No», rispose la sirena, fissando le nuvole sopra la sua testa. «Non è al Santuario. Ma è dove lei voleva essere. Fidati del mio Signore. Lui ha a cuore la salute della tua Signora. In un modo che neppure tu immagini.»
Ne dubito, pensò. «Ne dubito fortemente», replicò.
La sirena si strinse nella sua Scaglia. «Se non ti fidi di me o del mio Signore, sono sicuro che ti fiderai della tua Dea, allora…» Quindi sbatté le sue ali e tornò da dove era venuta, sfiorando appena il pelo dell’acqua come se volesse fare il solletico alle onde che splendevano cristalline nella quiete del primo mattino.


Il cielo è terso e chiarissimo. Farà caldo anche oggi. Lei non se ne stupisce. È la canicola, dopotutto. È tempo suo. Ma le clienti si lamentano del caldo nel boudoir. È una cappa avvolgente. E le candele e l’incenso e le persiane chiuse – serrate – non aiutano. Ma a lei quella roba serve. Serve per tenere lontano i morti. Perché non abbandonino coloro che si rivolgono a lei e decidano di sistemarsi in casa sua. Sulle sue, di spalle. Lei, di rogne, ne ha fin troppe.
Se si parla di mettere in comunicazione i vivi con i morti – di agire come una centralinista, in pratica – va bene. I clienti pagano per questo, e pagano profumatamente. Ma i morti no. I morti non pagano. Ti si appollaiano sulla spalla come tanti avvoltoi che aspettano che la preda sia spolpata con comodo dal predatore di turno, o che l’animale ferito sia così debole da non opporre resistenza alcuna ai loro rostri affilati; e parlano. Tutto il tempo. Delle loro catene. Dei loro crucci terreni. Di mogli ossessive e mariti infedeli. Di corna. Separazioni. Soldi. Gelosie. Perché sono morto io e lei no? E non la pagano per sentire tutte quelle sciocchezze. E la deconcentrano. Le fanno perdere il filo dei suoi discorsi. E deve sembrare una creatura in grado di squarciare il velo e vedere al di là dello stato materiale delle cose, non una povera pazza che dovrebbe starsene in una stanzetta del più vicino manicomio.
È la voce di sua sorella a sbrogliare le matasse che i suoi clienti le portano. Coralie le dice tutto. Quello che i questuanti hanno davvero nel cuore, e che nascondono dietro domande sciocche o incomplete. Quello che sussurrano i tarocchi, fermi nella loro immobilità. Quello che fanno i viventi, quando sono convinti che nessuno li stia osservando. Quello che aspetta tutti loro, un po’ più in là, oltre la curva dell’orizzonte.


Maman Louise libera una boccata generosa di fumo. I braccialetti tintinnano. Coralie stamattina non c’è. Che abbia seguito Fanchon e sua figlia per la passeggiata?
No. Lei detesta i neonati, si dice Maman Louise. Pensando che lo spirito di sua sorella è un po’ troppo inquieto, ultimamente. Coralie ha cominciato ad essere evasiva da un po’ di tempo. Svampita lo è sempre stata. Svampita e leziosa e all’inizio Maman Louise ha pensato si trattasse di paturnie passeggere, di una posa, di una noia mortale che avviluppava il fantasma di sua sorella, e non ha dato troppo peso alla cosa. Ma Coralie è cambiata. Da quando è nata la bambina. No, si dice Maman Louise. Coralie è cambiata prima. Da quando Fanchon e Rémy si sono trasferiti al piano di sotto? Da quando…
Rémy. Lui è la chiave. Coralie è cambiata dall’autunno scorso. Da quando Rémy ha bussato alla sua porta in cerca di Fanchon e… e io gli ho letto le carte!
Maman Louise spalanca gli occhi. Le carte, certo. Non ha visto qualcosa di poco chiaro, in quella lettura, per i suoi gusti? E quando le ha chiesto una mano, cosa le ha risposto Coralie?

«Un uomo giunge di fronte a due porte, ciascuna sorvegliata da un guardiano. Una delle porte conduce alla salvezza, l'altra a morte certa. Dei due guardiani, si sa che uno risponde sempre in modo veritiero alle domande che gli vengono rivolte, e che l'altro mente sempre; ma non si sa quale sia il guardiano sincero e quale il bugiardo. All'uomo viene concesso di fare una sola domanda, a uno solo dei guardiani. Come può l'uomo individuare la porta che conduce alla salvezza?»

La stessa cosa che le ha ripetuto quando ha tirato le carte per la piccolina.
Maman Louise socchiude gli occhi. Sua sorella non c’è, e chissà dove è andata a rintanarsi. Sul fondo dell’armadio? Sotto al letto? Nello stanzino delle scope? Sbuffa. Giocare a nascondino con un fantasma è qualcosa di impossibile. Meglio vederci chiaro una volta per tutte.
Abbandona il bocchino nel posacenere. Si toglie anelli e braccialetti. Afferra il mazzo di tarocchi. Prende un bel respiro ed inizia a mischiare le carte, nel cuore i volti di Rémy, di Fanchon e della piccola Coralie. Con sua sorella farà i conti più tardi.



Il pergolato del Kallistê rifulgeva nel sole del primo pomeriggio. Faceva ancora caldo, ai piedi dell’Acropoli, ma la cappa d’afa dell’estate aveva allentato la stretta quel tanto che serviva per respirare. Il gatto sonnecchiava sulle cassette di plastica. Aiolia non sapeva dire come si chiamasse. Lo aveva sempre visto lì, e Milo non si era mai premurato di colmare questa sua lacuna. Né tantomeno lui aveva mai chiesto lumi al riguardo. Perché avrebbe dovuto? I gatti vanno e vengono, come il vento e le maree. E allora perché adesso stava tergiversando sul nome del gatto come se fosse una questione di capitale importanza?
Per vigliaccheria. Pura e semplice. Perché esistono medicine amare come e più del fiele che bisogna essere disposti ad ingoiare per primi, se le si vuole somministrare agli altri. Per sapere che sì, fanno male; ma curano. E che se il medico pietoso ha fatto la piaga purulenta è perché lui per primo non ha avuto il coraggio di sorbire la sua medicina fino all’ultima goccia.
Aiolia non era sceso ad Atene per una gita di piacere, per bere il retsina all’ombra del pergolato di limoni o per chiacchierare con Kostas davanti ad un caffè. Aiolia era lì per consegnare una brutta notizia. Qualcosa che avrebbe spezzato quell’angolo di perfetta normalità, quella bolla in cui Milo aveva sempre tenuto – rinchiuso – i suoi cari. Ma dovevano sapere. Dovevano sapere o avrebbero atteso invano affacciati alla finestra colui che non sarebbe tornato mai più. Aiolia si chiedeva se fosse giusto – e se lo chiedeva adesso che i passi si erano fatti più pesanti ed il cuore suonava come piombo.
Aspettare non è morire un poco alla volta?
Sì e no, avrebbe detto Aiolos. Perché l’animo umano comprende da sé le cose che non gli vengono dette. Le sente, in fondo al cuore, come un peso che ti zavorra l’esistenza. E morire aspettando, con la paura che no, non si farà attempo a vedere tornare qualcuno perché il buon Dio ci reclamerà a sé prima, è un’angoscia indicibile.
Via il dente, via il dolore?, si domandò Aiolia. Fissando il girotondo delle nuvole bianchissime nel cielo di un azzurro struggente. Era una giornata così bella. Così perfetta. Se solo piovesse, pensò Aiolia. Se solo piovesse…

«Non è necessario che lo faccia tu. Posso pensarci io», gli aveva detto Mu, ma ad Aiolia non era sembrato giusto scaricargli quel peso sulle spalle. Se c’era una cosa che la battaglia del Santuario aveva insegnato a tutti loro è che le persone non spuntano dal terreno, come piante selvatiche. Le persone hanno radici, legami, affetti. La loro vita appartiene ad Athena, ma il bagaglio personale che ognuno di loro si porta dentro appartiene a chi hanno amato e conosciuto. Non ad Athena. Ecco perché quando la polvere si era posata ed era caduta anche l’ultima goccia di pioggia, era arrivato il momento di conoscersi.
«Ho una madre.»
«Ho una nonna ed uno zio.»
«Ho un paio di amici.»
«Non ho più nessuno.»
Per sapere se vi fosse qualcuno a cui portare la triste notizia, un giorno o l’altro. Il più tardi possibile.

«No. Devo farlo io», aveva detto Aiolia a Mu, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. Fissando qualcosa, oltre l’orizzonte. «Glielo devo. Capisci?», perché per ricevere certe notizie serve un volto amico. Qualcuno che provi quello che stai provando tu, pur se in misura infinitesimale. Qualcuno che comprenda e sia partecipe del tuo dolore. Non un estraneo, e Mu, per quanto diplomatico e compassionevole sapesse essere, era una faccia sconosciuta. E Kostas e Melpomenê avrebbero potuto riporre vane speranze nelle sue parole. Non era greco, lui. Magari aveva capito male. Magari si era confuso. Magari Milo era vivo da qualche parte e magari…
Per questo doveva pensarci Aiolia. Per questo voleva pensarci Aiolia. Perché Milo, per quanto diverso potesse essere da lui, era un amico. Capace di farti perdere le staffe in un battito di ciglia, ma leale fino alla morte. E anche oltre.

Ma adesso che il Kallistê lo fissava con aria indolente, chiedendogli cosa fosse venuto a fare laggiù, Aiolia avrebbe voluto essere lontano chilometri dal suo pergolato. Avrebbe voluto potersi scambiare di posto con Milo. Esserci finito lui, sul fondo del mare a fare compagnia ai pesci, per non dover dare quella notizia così dolorosa a Kostas. E alla vecchia Melpomenê.
La quale gli era uscita incontro, tra le mani una scopa di saggina con cui spazzare il terrazzo prima di stendere sui tavoli delle tovaglie bianche e blu. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ché la stagione inoltrata rendeva improbabile l’arrivo di nuovi clienti. Tuttavia, lei era uscita. Fissandolo, coi suoi occhi azzurri e penetranti – così come erano quelli di Milo – abbandonando la scopa a ridosso del muro e avvicinandoglisi. Le mani nelle mani, le labbra tese e strette, negli occhi la muta domanda – la pia speranza – che lui no, non fosse lì per dirle quello che lei credeva – che lei temeva, che lei sapeva – che era venuto a dirle.
Aiolia si ritrovò senza parole nelle tasche. Si era preparato un discorso strada facendo, ma credeva – sperava – che l’avrebbe riferito a Kostas, per filo e per segno, e che poi lui avrebbe trovato il modo e la maniera di renderne partecipe sua madre. Invece il destino aveva deciso diversamente, e tutto quello che poté dire Aiolia fu un: «Venga, nonnina. Sediamoci», scortando la vecchia Melpomenê sotto il pergolato e facendola accomodare sotto uno dei limoni che suo marito aveva piantato, anni addietro, prima di guardarla negli occhi e di raccontarle, seppure a grandi linee, che suo nipote non c’era più.
 

La panchina è libera.
Françoise parcheggia la carrozzina accanto a sé, verso la scalinata. È pericoloso e dovrebbe dare retta a Maman Louise e sistemarla verso la strada, ma Françoise non si sente sicura. Perché lì la carrozzina starebbe nell’angolo cieco. E non vedrebbe eventuali malintenzionati pronti a chinarsi sulla sua bambina e portargliela via.
Quando l’ha detto a Maman Louise, lei l’ha squadrata come si fissa qualcuno che esce in costume da bagno sotto la pioggia torrenziale di Novembre.
«Chi mai dovrebbe prendersi la briga di rapire tua figlia, Fanchon?», le ha chiesto, sinceramente sconcertata. Lei s’è morsa le labbra e le ha risposto con delle scuse a caso. Di matti ce ne sono tanti per le strade. Non si sa mai, di questi tempi, e via di seguito; ma la verità è un’altra, ed entrambe la conoscono anche se nessuna ha avuto il coraggio di chiamarla col suo nome. Athena.
Françoise è terrorizzata all’idea di perdere anche sua figlia. Athena s’è presa Etienne, perché non dovrebbe volere
anche Coralie? Teme che le mani di Athena possano allungarsi sulla carrozzina per ghermire la sua bambina e strappargliela via. Per dispetto.
Perché io non gliel’ho data, pensa, sistemandosi la stoffa del vestito. Non ha affidato sua figlia ad Athena. Non l’ha affidata a nessuno. Non vede perché avrebbe dovuto farlo. Non c’è l’angelo custode per queste cose? Sì che c’è. Se sei cattolica, certo che c’è. C’è anche la preghiera da recitare alla sera, in ginocchio al capezzale, le mani giunte e gli occhi chiusi. Ma Françoise non è mai stata una gran credente. E Rémy non è cattolico. E non è nemmeno un ugonotto, come sua madre etichettava i Riformati. Rémy crede in altro. Crede in qualcosa che affonda le sue radici nella superstizione, nel mondo pagano degli dei greci e romani. Crede in Athena.

Françoise sa che c’è qualcosa di vero, in tutta quella faccenda. Françoise ha visto quello che sa fare Rémy. I suoi poteri. Le sue capacità. Glieli ha mostrati lui, anni addietro. Tante piccole lucine che sfrigolavano sulla punta delle sue dita. «Hai da accendere?», le aveva chiesto, con quella sua barbetta accennata e l’aria vissuta di un giornale stazzonato dal vento. E quando lei aveva detto di no, lui aveva sorriso e le aveva risposto: «Immaginavo», prima di dare inizio allo spettacolo.

La vita è dannatamente sexy quando profuma di pericolo – come solo le cose proibite sanno essere – ma quando si è giovani e spensierati, e l’adrenalina  scorre nelle vene è come una droga, è piacevole vivere un brivido in più; ma arriva un momento nella vita in cui il fiato va lasciato nei polmoni e non in gola. Quando si ha una famiglia, quando si hanno due bambini bisogna mettere la testa a posto. Lui le ha detto che non sarà un Santo in eterno. Che altri continueranno la battaglia, al posto suo. Che sta pensando di appendere al chiodo l’armatura e di cominciare a fare il padre. Perché è arrivata l’ora di crescere.


Françoise lo spera con tutto il cuore. Ma ci crederà se e quando lo vedrà accadere. Perché Rémy doveva starle accanto per la nascita della bambina. Il Sacerdote gliel’aveva accordato, giusto?
Giusto.
Ma poi è sopraggiunta l’ennesima crisi, l’ennesimo casino da sistemare ai confini del mondo conosciuto. E chi è partito nemmeno ventiquattr’ore dopo la nascita di sua figlia? Aristoteles? Antonio? Alessio? Vassili? Insomma, qualcuno che non avesse un figlio nato da poco?
Nossignore.
«Rémy è la persona giusta», si è giustificato Aristoteles con quel suo sorriso sghembo, prima di sparire chissà dove assieme al suo uomo e lasciarla sola con quel demonio sotto forma di neonata.
Françoise pensa che Athena – ammesso che esista davvero Athena – sappia cosa le stia passando per la testa. Conosca il suo piano. Sottrarle Rémy passo passo. Con dolcezza. Senza strepiti e liti e grida. Mostrandogli cosa significhi essere padre. Avere una famiglia. Qualcuno che ti aspetta a casa, la sera. Qualcuno che aspetta
te. Che si prodiga per te. E che ti butta le braccia al collo quando torni.

Coralie sarà la sua arma segreta. Françoise si pente di non aver messo in atto prima questa strategia, ma era giovane ed inesperta, con l’animo ricolmo di quell’assurda convinzione per cui le cose sarebbero andate a posto senza sforzo alcuno da parte sua. Come per magia. Invece no. Athena ha preteso Etienne. E Rémy gliel’ha dato. Immolandolo alla causa della Fanciulla, qualunque essa sia. Ma stavolta le cose andranno diversamente. Stavolta Françoise lavorerà di sponda. Piano piano. Senza dare troppa importanza ad Athena e a tutto quel carrozzone multicolore che ruota attorno al Santuario. Coralie la aiuterà, perché Rémy è pazzo di sua figlia. Le è bastato osservare la sua reazione davanti alla culla per capire che i tempi sono ormai maturi.

«È scesa dal cielo in groppa ad una stella cadente», le ha detto Rémy accarezzandole la fronte sudata, perso ad osservare la curva del nasino di sua figlia. Non era più un Santo, ma un
uomo. Un padre in un’anonima camerata d’ospedale, tra altri letti occupati da altre coppie e altri piccini in arrivo. Lontano da Athena, dal Santuario e da tutte quelle follie.
«Quale?», gli ha chiesto, un sorriso stanco all’angolo delle labbra secche.
«Non lo so», le ha detto lui. Gli tremavano le mani.
Quant’è che non fumi?, avrebbe voluto chiedergli. «Sta passando lo sciame delle Capricornidi in questi giorni...», sulle labbra l’orgoglio di un padre che spera il migliore dei futuri possibili per la sua bambina. Magari con una bella armatura d’oro sulle spalle.
Sciame delle Capricornidi un corno, pensa Françoise sospirando e scalciando la ghiaia. Un sassolino rimbalza contro un lampione producendo un TING argentino contro il metallo e ruzzolando via scalino dopo scalino. Françoise sgrana gli occhi. Si congela sul posto. E solo dopo che il sassolino ha finito la sua sequenza di capitomboli, lei trova il coraggio di allungare il collo e sbirciare oltre la capotte della carrozzina. La manina è ancora chiusa a pugno. Scampato pericolo, si dice. Regalandosi un sospiro.

Lo spazzino comunale si avvicina con la ramazza in pugno. Le fa un cenno col berretto. Lo saluta e tira fuori il libro dalla borsa. Il Conte di Montecristo. Un volume erto e spesso, «buono per schiacciarci le cimici», secondo Maman Louise, ma che a lei piace da matti. Non riesce a staccare gli occhi da quelle pagine, da quelle righe piene di gente che si alza d’impeto e crolla affranta, che sviene, che aggrotta le sopracciglia, che trasale, che bestemmia, che geme. C’è qualcosa nella penna del Dumas padre che la cattura, la ipnotizza la trascina lungo le rocambolesche – e per certi versi quasi impossibili – avventure di Edmond, e lei è ben felice di andare alla deriva. Coralie dorme della grossa. Françoise legge, mentre Belleville si stropiccia gli occhioni assonnati.
 

Un soffitto azzurro. Una stanza immersa nel ronzio di ventilatori che avevano visto tempi migliori. Lo sciabordio del mare, in lontananza. Cotone ruvido sulla pelle. Le ossa a pezzi. Nella testa, la festosa confusione di una grancassa impazzita. Si sforzò di mettersi a sedere. Il cuscino alle sue spalle sbuffò. 
La stanza si affacciava sul mare, almeno a giudicare dall’azzurrità che s'intravedeva dalla finestra aperta; le pareti bianchissime gli comunicarono subito una sensazione di freschezza. Oltre al letto, ad una sedia abbandonata in un angolo e ad un armadio male in arnese, la stanza era vuota. Spoglia. Come se fosse un rifugio provvisorio, un luogo in cui passare la notte, di tanto in tanto. O un posto in cui riorganizzarsi. E tornare a casa. Ovunque fosse casa.

Si portò le mani davanti agli occhi. Erano fasciate. Con bende improvvisate – un vecchio lenzuolo ridotto a strisce sottili – ma pulite. Era sudato. E nudo, sotto al lenzuolo, con altre fasciature lungo le gambe e il busto. Portò le mani alla testa. C’erano bende anche lì.
Domanda da un milione di dollari. Dove sono finito?, pensò, mentre provava a poggiare un piede sul pavimento. Era freddo. Ritrasse il piede e riprovò con maggiore cura. La testa gli girava immensamente. Meglio fare piano. Portò entrambi i piedi a terra, e provò a ricordare qualcosa. Un volto, un viso, una parola, un indizio qualsiasi che gli spiegasse – o quantomeno gli suggerisse – che diamine gli fosse successo.
C’era una ragazza con lui. Un’orientale. Una... hostess. Uno dei suoi sogni preferiti. Una bella hostess dalla pelle di porcellana con cui spassarsela un po’ a diecimila metri di quota.
Ma allora perché le bende?, pensò. Va bene tutto, va bene anche un po’ di veemenza, a volte, ma le bende?

Si alzò. Piano. Pianissimo. Aggrappandosi alla testiera del letto dalle volute d’ottone opaco. Raccattò il lenzuolo e se lo annodò in vita, non per un improvviso pudore – lui che in casa sua girava nudo come un verme? – ma perché non gli aggradava l’idea di trovarsi con le vergogne all’aria in territorio ostile. O quantomeno sconosciuto. 
Tese l’orecchio. Oltre la porta socchiusa, alle spalle del letto, non volava una mosca. Silenzio più assoluto. Strano, pensò. Aveva fatto rumore alzandosi. Le molle avevano protestato. Il lenzuolo aveva frusciato. La testiera d’ottone aveva cigolato. Eppure, non s’era affacciato nessuno.

Quindi o mi trovo da solo, oppure chi mi aspetta dall’altra parte non ha buone intenzioni, concluse. Mettendosi in guardia. Piegò il busto in avanti, pronto a difendersi. Non poteva restare in attesa in eterno, giusto? Strinse la maniglia tra le dita e aprì la porta. C’era un’altra stanza, con un tavolaccio, un acquaio vecchio ma pulito, una cucina economica con una catasta di legno affianco, un’altra finestra senza tende, una porta più stretta ed una tinozza piena di acqua calda. Acqua calda saponata.
Sbattendo le palpebre, si avvicinò passo passo, il lenzuolo alle sue spalle come uno strascico segue la sposa. L’acqua era calda e invitante e lui si sentì improvvisamente sporco. Ed ebbe una gran voglia di scivolare dentro quella tinozza ed insaponarsi per bene e sciacquare via tutta la stanchezza e la confusione che gli ottenebravano la mente.
Quasi quasi, pensò, avvicinandosi alla porta d’ingresso – chiusa – e tenendo d’occhio la tinozza, come se avesse potuto vomitare sul pavimento qualcosa di strano da un momento all’altro.
Fuori era una bella giornata di sole. Il mare faceva sentire forte la sua voce, così come il vento. Doveva aver piovuto da poco, però. L’aria era pulita e carica di umidità, ma in cielo c’erano pochissime nuvole, che solcavano rapide l’azzurro sopra la sua testa come veloci golette col vento in poppa. Poi sentì qualcosa. Un rumore, come di stoffa sull’acciaio. Proveniva alla sua destra. Lì dove doveva trovarsi l’altra stanzetta, quasi sicuramente il bagno. O qualcosa di molto più spartano.
Incastrò un sasso tra lo stipite e la porta, così da non restare chiuso fuori al primo colpo di vento, e avanzò verso il rumore, un bastone tra le mani per ogni evenienza. Il fruscio si manteneva costante, un vai e vieni come la marea. Qualcuno stava lucidando qualcosa. Qualcosa di molto prezioso, a giudicare dalla cura che metteva in quel lavoro, passando alacremente la pezza ed alitando fiato caldo sul metallo.
«Ecco fatto», sentì dire nel vento. E quella voce gli regalò uno spiacevole senso di déjà-vu. L’aveva già sentita, in vita sua. Nel recente passato. Certo, modificata, filtrata, arrochita. Ma conosceva quella voce. Eccome. Non gli aveva provocato la pelle d’oca sulle braccia?
Chi sei?, si chiese, svoltando l’angolo. E restando a bocca aperta.

A terra, sparpagliati su un lenzuolo, c’erano i pezzi che componevano la sua armatura. Il diadema, gli spallacci, la corazza, gli schinieri. E un bracciale. Brillavano come e più del sole, nemmeno fossero appena usciti dalla fucina di Efesto. Accanto a loro c’erano alcune pezzuole di lana cotta e infeltrita che sapeva dimostrarsi ancora utilissima nelle mani dell’uomo che, di spalle, proseguiva nel suo lavoro con costante alacrità. Lavoro che lui odiava e detestava sin da quand’era un marmocchio. Quante volte Aristoteles l’aveva spedito di gran carriera a lucidare la sua armatura fino a farla diventare splendente come e più delle stelle?
Innumerevoli, si disse. Avanzando a passo più sostenuto, il bastone ben saldo nelle mani.
«Che stai facendo?», chiese. Quell’uomo aveva una fisionomia familiare, con quei capelli lunghi legati in una coda distratta sulla nuca. Come li portava Saga prima che desse di matto, pensò. L’uomo si irrigidì e, abbandonando per un momento la lucidatura del bracciale sinistro, si voltò. «Ma tu… tu sei…»
«Ti sei svegliato?», gli chiese, schermandosi gli occhi con l’avambraccio destro. «C’è dell’acqua calda, in casa. Ho pensato volessi darti una rinfrescata. Fai pure con comodo.»
«Ma… tu non…»
«Non sono morto, dici?» Annuì. «No. Non sono morto. Sono vivo e vegeto e ho tutta l’intenzione di restarlo.»
«Non contarci!»
Abbandonò il bastone a terra ed espanse il proprio cosmo. Antares rispose, scaricando sulle sue spalle un potere micidiale ed impetuoso, come un mare in tempesta. L’acqua si increspò. Il cielo si scurì. L’unghia destra brillò di scarlatto.
«Vuoi che ti si riaprano le ferite?», si sentì chiedere, ma non si fermò.
L’uomo si alzò e ripose il bracciale accanto agli altri pezzi. Lo fronteggiò, le braccia rilassate e le gambe divaricate. Lo scrutò, per intuirne le intenzioni, poi piegò la testa da un alto, come fanno i cani quando non capiscono cosa voglia il padrone da loro, e si strinse nelle spalle.
«Cocciuto di un greco cocciuto», mormorò, prima che la cuspide scattasse e lo colpisse una volta, due, tre senza che opporle resistenza alcuna. Poi lo Scorpione vacillò e caddero entrambi in ginocchio. Ripresero fiato, la bocca spalancata in cerca di ossigeno da respirare che non bruciasse in gola. Poi, boccheggiando, l’altro si avvicinò.
«Stammi lontano!», ringhiò Milo. Sferrando un pugno che andò a vuoto. «Non osare avvicinarti.»
«Sei a casa mia», ribatte l’altro. Come se questo fosse di una qualche rilevanza. «E non ti reggi in piedi. Non costringermi a sprecare due giorni di cure. O ti calmi o ti butto a mare. Quindi. A te la scelta. Vogliamo parlarne da persone civili o vuoi farti un tuffo dove l’acqua è più blu?»
 

L’Imperatrice. La Morte. La Temperanza. La Luna. Il Diavolo. La Torre. L’Imperatore. La Papessa. Il Matto. Il Giudizio.

Maman Louise tamburella le unghie sulla tovaglia di velluto. Dovrebbe cambiare lo smalto. Si è sbeccato in punta. Non può certo recitare la parte della veggente con le unghie in quelle condizioni. A volte si chiede, in un angolo della sua testa, perché le streghe, le fattucchiere, le cartomanti e le medium debbano sfoggiare artigli rossi come il sangue. Passi la voce bassa e roca – e in quello le sigarette aiutano – il kajal attorno agli occhi che regala un’allure di mistero e fascino e. Passino i capelli ricci, ché un tocco appena di zingaresco non guasta mai. Ma le unghie?
Maman Louise sospira. E scuote la testa. Si sta deconcentrando. Colpa di Coralie. Che sta sussurrando quelle scempiaggini al suo orecchio, invece che illuminarle la smazzata delle carte.


L’Imperatrice. La Morte. La Temperanza. La Luna. Il Diavolo. La Torre. L’Imperatore. La Papessa. Il Matto. Il Giudizio.

C’è qualcosa di poco piacevole nell’aria. Qualcosa di radicale. Per la piccina?, si chiede Maman Louise. Ne sarà vittima o carnefice? Ma ora Coralie tace. A quella come ad altre domande che riguardano la piccina, Etienne, Fanchon e Rémy.
«Coralie!»
Maman Louise sta gridando. Con tanto di manata sul tavolo. I braccialetti tintinnano per protesta, ma Coralie non si smuove di un millimetro.
«Abbi almeno la decenza di farmi vedere il tuo brutto muso!»
«No», si sente rispondere. Nemmeno avesse a che fare con una bambina di tre anni che pesta i piedi perché non vuole mangiare la verdura cotta.
«Coralie», dice Maman Louise, con il tono di voce dolce e comprensivo che si usa per convincere i bambini ad aprire la bocca e ad ingoiare la medicina, «non vuoi davvero aiutarmi?».
«Non hai bisogno di me.»
«Sì, invece. Ne ho bisogno. Non capisco cosa mi dicono le carte, e si tratta della piccina. L’hanno chiamata come te…»
«No. L’hanno chiamata come il corallo che ha nei capelli, non come me. E se anche fosse, non avrebbero dovuto. Questo nome porta guai.»
«Sciocchezze. Perché piuttosto non mi aiuti con questa lettura?»
Una risata da monella, irriverente e leziosa, che gela il sangue nelle vene di Maman Louise, poi Coralie aggiunge: «Non hai bisogno di me, per quello. Non vuoi vedere la realtà che ti si para davanti agli occhi, sorellina.»
«Coralie, dico sul serio. Non capisco. Il Diavolo e la Torre?»
«Il Diavolo genererà la Torre. Sono consequenziali. Non è difficile.» Coralie sbuffa. «Perché non mi lasci andare, Loulou?»
«Non posso. Io…»
«Non
vuoi, questa è la verità. Non vuoi perché hai bisogno di me. Non vuoi perché tu da sola non vali una scarpa bucata. Non vuoi lasciarmi libera di andarmene da Jules perché sei gelosa. Lui mi sta aspettando! Lo capisci?»
«Jules è morto da un pezzo, Coco! Lui non ti ha mai aspettato. Per lui eri una bambina, non una donna. Lui aveva occhi solo per Fantine, altrimenti tu non ti saresti mai appesa alle travi del soffitto. Non ricordi?»
«Adesso capisci perché non avrebbero mai dovuto chiamarla come me?».

Ma prima che Maman Louise possa dire qualsiasi cosa, sua sorella non c’è più. È andata a nascondersi da qualche parte, tra i tubi di quella vecchia casa e le ragnatele così simili ai merletti che sognava sullo scollo del suo abito da sposa, con un bouquet di gigli e lillà tra le mani, per attraversare la navata della chiesa al braccio di Jules. Il telefono buca il silenzio immobile della mattina. Stizzito.
Stupida ragazzina, pensa Maman Louise alzandosi e ciabattando per andare a rispondere.
 «Pronto?»
Speriamo non sia qualcuno che chiama per disdire, pensa – prega. Ci sono le bollette da pagare ed il conto in farmacia diventa sempre più importante. Con un bebè in casa è normale. Peccato che l’assegno del Santuario sia andato perso, questo mese, si dice.«Chi parla?»
«Maman Louise, sono io. Yvette.»
«Yvette? Cara, come stai? Che si dice?»
«Il solito, Maman. Ma non ho tempo per chiacchierare. Ti sto chiamando di straforo.»
«Stai ricevendo? A quest’ora?»
«Sì. Il mio cliente dorme ancora, così sono sgattaiolata di sotto. Il telefono era libero e così…»
«Yvette, sai che casa mia è sempre aperta…»
«Sì, lo so. Lo so, Maman. Ma finché il fisico regge, voglio guadagnarmi la pagnotta. È un modo onesto per campare, no?»
Più di quanto credi, bimba mia, pensa Maman Louise. «Comunque. Chiamo per dare un’informazione a Fanchon. Facesse attenzione.»
«Perché?» Il cuore di Maman Louise schizza alle stelle. «Che succede, Yvette?»
«Succede che Alain ha saputo dove si nasconde Françoise. Gliel’ha detto quella stronza di Elodie. Ha dato di matto, tu non t’immagini, tanto da spedirla in ospedale! Adesso devo riattaccare. Dille di fare attenzione. Hai capito, Maman? Maman? Ehi, Maman? Ci sei? Pronto? Pronto?!»



Il vento soffiava, come a voler spettinare le onde. Il mare sbatteva contro gli scogli, spruzzando di candida spuma i sassolini grigi che costituivano la spiaggia. Kanon lo osservava con una postura rilassata – le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni – ma i suoi occhi restavano vigili. E attenti. Aveva ricevuto tre cuspidi. Due in pieno petto, la terza sul braccio sinistro. Gli facevano male, certo. Aveva la fronte imperlata di sudore. Eppure Kanon non si lamentava, né si contorceva a terra dal dolore.
«Vedo che stai meglio», gli disse accovacciandoglisi di fronte con cautela, come si fa con un cane rabbioso. «Sei rimasto svenuto a lungo, sai?»
«Quanto tempo?», ringhiò Milo.
Kanon sorrise. «Ritenta. E magari chiedimelo con più grazia. Staremmo stipulando un armistizio, ricordi?»
«Lo stiamo facendo?», replicò. Afferrando il bastone e facendovi leva per alzarsi.
«C’è sempre l’opzione mare, ricordi?», e indicò con il pollice un punto imprecisato alle proprie spalle.
Sempre meglio che avere a che fare con te, pensò Milo, fulminandolo con lo sguardo. «Io la chiamerei più pace armata…», disse, sputando le parole tra i denti.
Kanon si alzò. «E pace armata sia. Non pretendo che tu ti fidi di me. Sarebbe assurdo.»
«Siamo d’accordo su qualcosa, allora!»

Milo fissò le spalle rilassate di Kanon, chiedendosi quanto potesse fidarsi di lui. Fino a che punto. Aveva sentito dire che si era erto a difesa di Athena all’ultimo minuto, prendendosi il tridente di Poseidone in pieno petto; ma se in quel gesto disperato Hyoga vi aveva visto un tentativo di fare ammenda – lui, che infiniti lutti addusse agli Achei – lo Scorpione aveva sospeso il proprio giudizio. Perché vedeva quell’azione eroica per quello che era. Un gesto disperato. «Chissà», aveva detto. Non aveva avuto modo di conoscere davvero Saga, figuriamoci il suo doppio. Ovviamente malvagio. Come se Saga sia stato una passeggiata tra i fiori, pensò. E poi si disse che sì, in effetti avere a che fare con Saga era stato come passeggiare in un bel campo fiorito, pieno di rossi papaveri, candide margherite e bisce nascoste tra l’erba alta. O il souvenir di una vacca, come avrebbe detto suo zio Stavros. E loro vi erano caduti dentro con entrambi i piedi.

«Athena mi ha salvato. E levati quell’espressione dal viso, grazie. A Capo Sounion e ad Atlantide. Lei mi ha dato la possibilità di fare la cosa giusta, per una volta nella vita. E non ho intenzione di sprecarla.» Kanon sollevò la canottiera oltre le spalle e se la sfilò, mostrandogli la cicatrice che gli decorava il petto. «Forse questo non cambierà niente. Ma volevo mostrartelo lo stesso.» Sfiorò con le dita la ferita. Tre grossi fori d’entrata, simili a graffi slabbrati. Chi gli aveva estratto il tridente dal petto non l’aveva fatto con cautela. Aveva tirato via l’arma. Perché gli facesse male. Perché rammentasse quel dolore. Nei secoli dei secoli.
«Hai ragione. Non cambia niente», disse Milo.
«Immaginavo. Cambierà mai?»
«No. Non fino a quando non avremo sistemato la faccenda. A modo mio.»
«Sta bene. Dovevo sentirtelo dire», ribatté l’altro, abbandonando la canotta a terra. «Rimettiti. Poi ne riparleremo. Per ora, limitiamoci a collaborare. Puoi farlo?»
«Non ne sono sicuro. Ma prometto di provarci.»
«Non esiste provarci. O fai, o non fai.»
«Non sfidare la fortuna.»

Gli mostrò i palmi delle mani. Un gesto che gli diceva che non aveva niente da nascondere. «Ascolta. Quando questa storia sarà finita, mi passerai da parte a parte. Non opporrò resistenza. Hai la mia parola.»
«Che vale quanto un pezzo di carta igienica usata…»
«Vero. Ma dovrai fartela bastare. E poi, pensaci. Eri più morto che vivo quando ti ho raccolto. Mi sarebbe bastato buttarti a mare. Invece no. Sono stato una brava crocerossina. Non merito forse il beneficio del dubbio?»
L’espressione del suo viso, a metà tra la franchezza spudorata e la verità indifesa, era di quelle che avrebbero convinto un cane affamato a cedergli l’osso che stava rosicchiando.
«Forse. Dipende da te.»
«Certo. Non mi perderai d’occhio, tu. Lo so, lo so.»
«Sfotti?»
«No. Non ne ho la minima intenzione. Non è divertente.» Si stiracchiò le braccia; poi, come proseguendo un discorso interrotto, aggiunse: «Sei rimasto incosciente due o tre giorni. Una sirena ti ha trovato sulla spiaggia e ti ha portato qui. A casa mia», aggiustandosi la massa informe di capelli che scendeva oltre le sue spalle.
«Una… sirena
«Sorrento della Sirena. Uno dei Generali di Poseidone. Quello che ha messo a mal partito Aldebaran.»
«Che c’entra adesso Poseidone?»
«Ne so quanto te.» Sembrava sincero. «È apparso subito dopo l’esplosione e ti ha scodellato qui.»
«Dov’è qui? L’isola di Kanon suppongo.»
«Supponi male. Sei ad Eschati.»
«Dove?»
L’altro sbuffò e abbandonò l’impresa di legarsi i capelli per bene. Si ravviò un ciuffo dietro l’orecchio poi disse: «Es.Cha.Ti. Un paio di scogli troppo cresciuti a sud di Thera.»
«Thera?!» Sgranò gli occhi. Così a sud? Che diamine ci faceva lì? E soprattutto, come c'era finito?
«L'aereo su cui viaggiavate è precipitato in mare aperto. Poseidone ha salvato tutti quanti. Non so cosa diamine sia successo, ma se crediamo a quello che mi ha detto Sorrento, fa tutto parte del piano di Athena.»
«So che suona ridicolo, ma tant’è. In tutta sincerità… tu ti fidi
«Io non so cosa pensare.» Incrociò le braccia. «È vero che Julian Solo ha a cuore la salvezza di Saori Kido. Ma qui stiamo parlando di Poseidone e di Athena.»
«Ma Saori Kido è Athena.»
«Ma Julian Solo non è Poseidone.»
«Touché

«Sai una cosa buffa?» Silenzio. «Ho ragione di credere che Poseidone sospetti l’esistenza di una talpa all’interno del Santuario.»
E lo trovi buffo?! «Chi?»
«Sorrento non me l’ha detto. Ma mi ha detto che Poseidone ti ha volontariamente separato dagli altri. Per precauzione
«Che tipo di precauzione?»
«Non saprei», rispose, tornando a fissare il mare. «Forse solo per far sapere a qualcuno che c’è una talpa nel giardino. Magari alla talpa stessa. O magari no.»
«Credi che io…!»
«Non so cosa credere. Per me, potresti essere stato benissimo tu. Oppure no. Come vedi, siamo nella stessa barca.»
«Io non credo.»
«Sta scendendo la sera», disse Kanon. Spiazzandolo. «Converrà partire domani, appena farà giorno.»
«E intanto che facciamo? Prendiamo il tè?»
«Intanto aspettiamo che la tua armatura sia pronta. Era messa male, e mi sono preso la briga di darle una pulita. Un lavaggio con tutti i crismi. L’acqua di mare sa essere tremenda, sai?»
Milo si passò una mano sugli occhi.
«Immagino che le parole che tu stia cercando siano grazie e Kanon. Sbaglio?»
«Saranno delle lunghissime giornate…»
«Concordo. Intanto che aspettiamo che arrivi il vecchio Stavros…»
«E adesso chi è il vecchio Stavros
Kanon lo guardò come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«Stavros Kalatzakis.»
«E chi diamine è?»
«È il decano dei pescatori di Thera. Lo chiamano il Greco Volante. Dovresti vederlo, ha novant’anni suonati, ma sembra un ragazzino!»
«E che c’entra con noi?»
«C’entra che viene ogni settimana a vendermi quello che pesca.»
«Il pesce, suppongo.»
«Sì. Ma la frase viene a vendermi il pesce mi suonava malissimo.»
«In effetti…»
«Ci darà un passaggio lui. La mia barchetta è troppo piccola e tu non sei ancora in forze per correre al Santuario di gran carriera. Quindi…»
«Aspettiamo Stavros. Ho capito. E poi?»
«Mangiamo. Io ho fame. Tu?»
Un brontolio selvaggio rispose al posto di Milo.
«Immaginavo. L’acqua sarà ancora calda. Mentre preparo qualcosa da mangiare perché non ti fai un bagno e non mi racconti per filo e per segno le ultime novità?»
«Così prepariamo una strategia?»
«Ovvio. Il manipolatore sono io.» Kanon raccolse la canottiera, si diresse verso casa e Milo lo seguì. «Allora non sei tutto muscoli e niente cervello, come dicono.»
«Chi lo dice?»
«Le malelingue.»
«E immagino che anche le voci sul tuo conto non siano vere, giusto?»
«Oh, no. È tutto verissimo.»
 

A stare con Rémy anche Françoise ha sviluppato una specie di sesto senso. O qualcosa che gli assomiglia tantissimo. O forse sarà l’essere madre ad averle affinato l’intuito animale. Chi può dirlo? Fatto sta che non appena percepisce qualcosa di poco piacevole, come una nota di sottofondo sbagliata nel vento, Françoise alza lo sguardo. E Alain è lì. Davanti a lei. Armato delle peggiori intenzioni possibili e del suo completo di sartoria color grigio antracite.
«Buongiorno, mia cara», le dice. Con quel sorriso come una tagliola, la barba appena fatta e l'aria riposata.
Alain è sempre stato un mistero, per lei. Non ha mai capito perché le ragazze ci cascassero sempre – perché ci volessero cascare – e come diamine facesse ad essere sempre impeccabile.
Non sono neppure le sette del mattino. E tu sei arrivato qui fresco come una rosa.
«Sei sempre bellissima, sai?»
Françoise si alza.
«No. No, ti prego», le dice. Scivolandole accanto, sulla panchina, tra lei e la carrozzina. «Non alzarti per me, tesoro. Cosa stavi leggendo?»
«Il Montecristo.»

Françoise sa che dovrebbe andarsene. Prendere Coralie e scappare. Hubert e Xavier saranno nei paraggi, ma se lei gridasse, con tutto il fiato che ha in gola – e ci sono momenti un cui una cincia è capace di trasformarsi in un aquila incazzata – riuscirebbe ad attirare l’attenzione di qualcuno. Se la caverebbe con un paio di ceffoni, ma finirebbe tutto lì. Un buon pronostico, insomma. Ma Françoise scopre con orrore che ha
paura di Alain. Una paura micidiale che le piomba lo stomaco, le chiude la gola e le fa diventare le gambe di gelatina.

Rémy! Dove sei, Rémy?!

«Il Montecristo. Già. Non sei un tipo da Colette, tu. Non lo sei mai stata», le dice, afferrandole una ciocca di capelli tra le dita e saggiandone il colore alla luce del sole. «I tuoi capelli mi hanno sempre fatto impazzire, sai, Fanchon?»
«Non chiamarmi così…»
«Biondi. Fini. Lisci… Devono essere una meraviglia, sparsi sul cuscino. Ci verranno delle parrucche strepitose, sai?» La mano di Alain si serra. E tira. Il polso si gira, portandosi dietro la testa di Françoise. «Te li raserò personalmente, Colombella. Tranquilla, farò un buon lavoro. Vedrai. Ti lascerò la testa liscia liscia, come quella di un neonato. E a tal proposito…»
La voce di Alain è fredda, come un pezzo di vetro tra le dita che non si scalda mai. Fredda e distaccata. Come se stesse parlando di argomenti faceti, anche quando ha deciso di ammazzare senza battere ciglio le persone che gli stanno antipatiche. O l’hanno fatto incazzare.

«E così questa sarebbe tua figlia…»
Françoise non può vedere Alain sbirciare oltre la capotte della carrozzina. Afferra il suo polso, ma lui lo ruota ancora. Facendole ancora più male.
«Lasciala stare!»
«Certo. Come no?», dice. Poi qualcuno afferra Françoise per le spalle. Hubert e Xavier, senza dubbio. Alain lascia la presa, facendosi scivolare i capelli di Françoise tra le dita. «Secondo te ho fatto tutta questa strada per niente?»
Hubert e Xavier la sollevano, e le tengono le braccia dietro la schiena. Ridacchiando.
«Alain non fare cazzate…», e uno schiaffo, di quelli a mano aperta, si stampa sulla guancia sinistra di Françoise. Il mondo esplode in un lampo bianco. Sbatte le palpebre, intontita. Le fischia l’orecchio.
«
Tu non fare cazzate, bellezza. Ne hai fatte fin troppe. Guardati! Guarda come sei ridotta. Chi la vuole più una che ha passato due gravidanze? Non mi sei più utile, tesoro, se non per lavoretti di straforo. Ho un compratore, tuttavia. Uno che vorrebbe una donna bianca nel suo harem. È un vero peccato che tu finisca laggiù, tesoro. Ma io devo rientrare dei soldi che ho prestato a tua madre. Capisci?»
«Li hai riavuti. Tutti! Fino all’ultimo centesimo!»
Un altro schiaffo, stavolta a destra.
«Non costringermi a farti del male.» Alain le parla come se stesse trattando con una bambina capricciosa. «Non costringermi a cambiarti i connotati. Voglio che resti così. Bellissima. Non vendo merce ammaccata, io. Ne va della mia reputazione.»

Hubert e Xavier ridono. Sguaiati. Come se avessero sentito la più spassosa delle barzellette. Alain si sporge oltre la capotte. «Rossa malpelo», sorride. «Tutta suo padre.»
«Alain! Lasciala stare. Prendi me, ma lascia stare la bambina!»
«Altrimenti che fai?
Mi picchi? O chiami quel bifolco del tuo uomo?» Alain si guarda intorno, come a cercare Rémy. «Mh, io non lo vedo. Non è che il nostro amico ha tagliato la corda? Pensaci, Fanchon. Chi la vuole una donna con una pupetta al seguito? Non puoi certo portartela appresso, no? Va bene finire in un harem. Ma a tutto c’è un limite, no?»
«Sei un bastardo!» Sente il fiato di Hubert sui capelli. Le mani di Xavier la stringono, facendole male. «Lasciala andare!»
«Come vuoi, principessa…» E la mano di Alain spinge la carrozzina. Quel poco che serve per farla cadere giù. Ruzzolando per gli scalini, con Coralie al suo interno.

«No!»
Françoise urla. Con quanto fiato ha in gola, mentre Hubert, alle sue spalle, ride. E allora lei trova tutto il coraggio e la forza necessari per dare una testata all’indietro. E colpire uno dei suoi aguzzini sul naso. Hubert lascia la presa, come se la pelle di Françoise si fosse fatta di fuoco. Xavier è colto alla sprovvista e allenta le dita. Françoise scatta in avanti e supera Alain, lanciandosi all’inseguimento della carrozzina. Che sta scendendo gradino dopo gradino, dritta dritta in strada. Dove iniziano a passare le automobili e gli autobus. E il tram. Françoise sente Coralie piangere. Terrorizzata. E anche se lei prova, con ogni fibra del suo essere, ad allungarsi il più possibile per afferrare il manubrio della carrozzina, non ci riesce. Nemmeno saltando i gradini a due a due.
E mentre la strada si fa sempre più vicina, ed i clacson delle automobili riempiono l’aria della mattina, Françoise si ritrova a pregare.


Athena, salvala! Salvala, ti prego! Salvala, e sarà tua! Non mi metterò più in mezzo. Crederò in te. Te lo giuro. Ma ti prego. Salvala!

Con un ultimo paio di balzelloni, la carrozzina si lascia la scalinata alle spalle ed impegna la strada. Attraversa sulle strisce pedonali filando sulle elegantissime ruote in gomma color ecrù, tra scampanellate di clacson e stridio di pneumatici sull’asfalto, mentre Françoise le corre dietro, il cuore che pulsa impazzito nelle orecchie ed il fiato in gola. La carrozzina si ribalta. Una ruota gira a vuoto, chiedendosi che fine abbia fatto la strada, mentre il sole si riflette sui raggi di metallo accartocciato. Poi, lo schianto. E quindi, il silenzio.


 
 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Siete quasi arrivati alla fine. Tenete duro. Mancano le note finali e poi scatta il sospirato "tana libera tutti!". Promesso.

Thera è l'isola di Santorini (in onore di Sen, che domani compie gli anni). Eschati è uno sputazzo disabitato a sud dell'isola. Ci ho fatto approdare uno svenuto Milo. E Kanon non sarà certo Nausicaä dalle bianche braccia, ma poteva andargli peggio, al nostro Scorpione.

Ho voluto variare un poco l'entrata in scena di Kanon, dopo la sua redenzione. La scelta di Kurumada mi era parsa una figata a sedici anni. Con qualche lustro in più sul groppone, la trovo una spremuta di testosterone gratuito. Non ce la faccio.

Tornano in scena Kostas, Melpomenê ed il Kallistê. Chi fosse curioso e volessere conoscere questo luogo e i suoi abitanti può affacciarsi qui, qui, qui, e qui.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Al solito, vi ringrazio per essere passati, per aver letto, per aver commentato, per non aver commentato, e per essere arrivati sin qui. Il prossimo capitolo arriverà in data da destinarsi. Non ho ancora scollinato, ma s'inizia a pedalare con meno fatica. Almeno spero.
Intanto, non ce lo beviamo un caffettino come si deve?
   
 
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