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Autore: aturiel    16/05/2015    1 recensioni
"«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.
«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».
Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro."
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Terza classificata al contest "Tempo di... Tag! Third Edion" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "I only write free!" indetto sul forum di EFP da MissChiara
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Nagisa Hazuki, Rin Matsuoka
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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1293 – Perugia

La notte successiva suo padre non si era fermato a dormire a casa, probabilmente perché era troppo ubriaco per riuscire a uscire dalla taverna in cui aveva passato la sera. Il buio era silenzioso, senza di lui. Fin troppo, talmente tanto da mettere paura nel giovane cuore di Rinaldo.
Il ragazzino dai capelli rossi era rinchiuso nella sua stanza e cercava di addormentarsi, ma un po' per l'assenza della Luna nel cielo, un po' per quel silenzio innaturale, non riusciva a prendere sonno. Iniziò quindi a contare i respiri lenti del fratellino che, con un po' di attenzione, si riuscivano a distinguere anche dietro la sottile parete.
Uno, due, tre... ventisei, ventisette... quaranta.
Ad un tratto si interruppero di colpo e Rinaldo, con il cuore in gola, spalancò gli occhi nella notte.

Un giovane dai capelli neri e lunghi, un po' come usavano tenere i nobili a quel tempo, era seduto su una grossa sedia color mattone che, se di solito era posta di fronte al lungo tavolo che faceva mostra di sé al centro della stanza, in quel momento era schiacciata contro l'unica parete libera del locale. I suoi occhi azzurri, illuminati dalla forte luce del sole che entrava dalla finestra, erano socchiusi, le ciglia leggermente abbassate e tanto lunghe da proiettare un'ombra elegante sulle sue guance glabre e pallide. Era certamente bellissimo, tanto che più o meno ogni fanciulla di Perugia, quando lo vedeva passare, non poteva fare a meno di rivolgergli un'occhiata e una sottile risata cristallina. Ma il motivo per cui quel giovane leggiadro era premuto sullo schienale di quella grossa sedia che, a sua volta, era ripetutamente sbattuta contro il muro, non era certo per la presenza di una delle sue concittadine: un ragazzo dai capelli purpurei era sopra di lui, lo baciava, lo toccava ed entrava in lui con passione. Riusciva a malapena a trattenere i suoi gemiti e, per questo, aveva affondato i suoi denti nella spalla appuntita dell'altro.
«B... Basta, Rin. Se facciamo ancora altro rumore, la zia ci sentirà e...-» il suo discorso venne interrotto da un gemito profondo e roco che proprio non era riuscito a intrappolare fra le labbra.
«Fai silenzio, Aru» rispose l'altro che, nel frattempo, aveva staccato i denti dalla sua spalla e aveva spostato la sua bocca famelica su quella sottile dell'altro.
Il loro seme si sparse nello stesso momento, come quasi ogni volta, e Rinaldo uscì dal corpo di Arunte che, ancora con le gote arrossate, si asciugò la fronte dal sudore.
«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.
«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».
Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro.
«Aru,» iniziò, quando sentì il corpo del giovane adeguarsi al suo per rispondere al suo bacio «pensi davvero che sia così sbagliato?» gli sussurrò a fior di labbra.
«Non lo penso, ma è Dio che sceglie ciò che è e ciò che non è sbagliato, non tu o io».
«Non m'ami almeno un poco?» gli chiese allora Rinaldo, dopo averlo baciato nuovamente, con più dolcezza.
«T'amo, Rin. E per questo so di essere ormai perduto» poi, dopo che sentì le labbra dell'amante sorridere sulle sue, aggiunse: «Tu sei come il Diavolo, Rin. Io amo il Diavolo» e, detto questo, si liberò della sua stretta e salì le scale che portavano in cucina.
****
Rinaldo, quel pomeriggio, era stato incaricato da Giuliana per consegnare a uno dei cavalieri della città, ser Similiano, la sua cappa, quella che aveva ordinato giusto tre giorni prima e per cui Giuliana aveva dovuto spendere un patrimonio: la stoffa che aveva preteso era bianca come la neve con una fantasia di fili d'oro intessuta nei bordi e, soprattutto quest'ultimi, erano costati davvero molto; ma, anche se lei avrebbe voluto rifiutare l'incarico, le era stato impossibile quando quello aveva menzionato Arunte: era disdicevole che un uomo cucisse gli abiti e non una donna, soprattutto quando questo aveva superato la prima adolescenza ormai da anni. Il ragazzo ancora non lo sapeva, poiché se ne stava molto spesso rinchiuso nella stanza dove tesseva, ma ogni volta che passava da qualche parte oltre ai sorrisi sognanti delle ragazze, si era procurato il poco gentile soprannome di Bella fanciulla: i suoi lineamenti non erano per nulla mascolini, i suoi modi fin troppo eleganti e di certo la sua professione non poteva che peggiorare la situazione.
Ovviamente, però, i Perugini non potevano sapere che anche dietro a quel faccino ben fatto e a quelle dita affusolate si nascondesse un animo più che virile. Rinaldo conosceva bene i suoi scatti d'ira, la sua forza d'animo e anche quella del suo corpo: non accadeva spesso, ma alcuni giorni, quando gli scherzi che lui gli preparava erano troppo cattivi (come quando era sgattaiolato nella stanza delle stoffe e, di nascosto, aveva tagliato tutti i punti che Arunte aveva cucito in tre giorni di lavoro), si alzava dalla sua enorme sedia e, con sguardo gelido – anche più del suo solito -, gli afferrava le spalle e gli riempiva il volto di schiaffi. Non era certo una persona violenta, ma non era nemmeno una femminuccia, come alcuni invece credevano, e, quando ce n'era necessità, non si tirava indietro dall'agire come avrebbe fatto un qualsiasi uomo.
Dopo quella sorta di litigio mattutino, però, Rinaldo si sentiva sempre più esposto al rischio che lui e Arunte venissero scoperti, e questo non solo perché la reputazione del suo amante sarebbe ancora più peggiorata, ma anche perché, negli ultimi tempi, si tendeva a punire i peccati nei modi più violenti. Rinaldo non aveva paura, non più almeno, di ciò che sarebbe potuto accadergli una volta morto – ormai aveva su di sé talmente tanti peccati che, di certo, non sarebbe riuscito a scampare la dannazione eterna -, ma avrebbe voluto evitare una pena identica anche in vita e, soprattutto, avrebbe voluto evitarla ad Arunte. Per questo motivo, quando sentì un uomo che non aveva mai visto dire a un altro che quella notte lui e altri sarebbero andati a prendere uno “sporco invertito”, sentì il sangue nelle vene divenire ghiaccio: che stesse parlando di lui? O, peggio ancora, di Aru?
Si bloccò in mezzo alla strada, con il suo pacco sulle spalle e la bocca semi-aperta e, forse proprio per la sua espressione così costernata, i due uomini lo notarono e gli chiesero: «Ehi, tu, giovinotto! Che fai lì impalato in mezzo alla via?»
Rin non si era mai ritenuto particolarmente sveglio, ma la paura, invece di immobilizzarlo come faceva a molti, gli diede la scossa per rispondere a tono: «Nulla, mio signore. Stavo solamente ascoltando».
«E cosa hai udito?»
«Ho sentito di quello sporco invertito che volete andare a prendere, 'sta notte. Mi stavo chiedendo chi fosse».
«E perché ti interessa, giovinotto?»
«Perché se si tratta di qualcuno a cui ho consegnato uno degli abiti della mia signora Giuliana, allora mi sentirei in dovere di andare a fargliela pagare: pensate, signori, se mi avesse attaccato la sua malattia!» rispose lui, con il cuore in gola.
«Se è questo il tuo dramma, non angustiarti: il suo nome è Lucio, il garzone della cucina di quella vecchia di Angela e non credo che si sia potuto permettere uno dei vestiti della tua signora».
Non ci fu bisogno di simulare sollievo all'affermazione dell'uomo: «No, certo che no. Ora vado, mio signore, e punite ben bene quel lurido anche per me» rispose, e, così dicendo, si allontanò per la sua strada. Eppure, più ci pensava, più sentiva il morso della coscienza: non conosceva quel Lucio – se non di vista -, ma sapere che da lì a poche ore la sua vita si sarebbe conclusa - e nel più violento dei modi - lo metteva in agitazione. Lui avrebbe potuto impedirlo, ma andando semplicemente dal garzone per avvertirlo, avrebbe condannato se stesso e Arunte, sicuramente: doveva escogitare un piano per salvarlo senza però tradirsi e, di certo, Arunte avrebbe potuto dargli una mano.
****
C'erano diverse cose in cui Arunte era particolarmente bravo – cucire, sembrare senza emozioni e fare l'amore -, ma non nel far finta di nulla. Sembrava una persona a cui non interessava niente di nessuno, ma non era così: non era stato così quando Giuliana, per paura di perdere la bottega, non aveva mollato un ceffone a un cliente che aveva incominciato a strusciarsi contro il suo fondoschiena davanti agli occhi di Arunte; il ragazzo, vedendo la scena, aveva preso le sue forbici e le aveva casualmente piantate sul tavolo, a due centimetri dalle dita aperte dell'uomo che, spaventato, si era allontanato subito da Giuliana. Probabilmente avrebbe voluto protestare, ma lo sguardo glaciale di Arunte e il suo “mi scusi, ma quando cucio mi concentro troppo su quello che sto facendo, e non mi curo di ciò che mi sta intorno” sibilato, lo fece tacere. Non fece finta di nulla nemmeno quando, da piccolo, Rinaldo era stato preso di mira da due ragazzini più grandi che lo facevano inciampare quando era costretto a portare i pesanti rotoli di stoffa che Giuliana teneva nel suo magazzino – che si trovava due vicoli più in là rispetto al luogo in cui vivevano – nella sartoria: di punto in bianco Arunte, vedendolo di nuovo con le ginocchia sbucciate e le dita schiacciate dai pestoni dei due, era andato loro incontro e aveva chiesto loro cortesemente di piantarla; ma poi, quando gli erano scoppiati a ridere in faccia, aveva sfilato le sue forbici – che ormai si erano trasformate nella sua arma di difesa – e le aveva puntate alla gola di quello più grosso che era scoppiato a piangere e, chiedendo pietà, si era bagnato le braghe del suo piscio.
Se ne potevano contare a decine di eventi del genere, e non tanto perché Aru fosse una persona violenta, ma semplicemente perché, a volte inconsapevolmente, si prendeva carico delle questioni altrui e le risolveva. Era per questo motivo che Rinaldo aveva pensato a lui per risolvere la questione del garzone: sapeva sempre cosa fare e come farlo, come se i suoi occhi gelidi nascondessero dietro una sorta di intelligenza divina che gli permettesse di avere una soluzione per ogni cosa. Allo stesso tempo, però, non voleva coinvolgerlo troppo nella faccenda per non metterlo in pericolo: la sua reputazione era già abbastanza bassa che era meglio non rischiare di essere visto in compagnia di un presunto sodomita. Quindi decise che gli avrebbe posto la questione nel modo più vago possibile: «Aru, come si può allontanare un garzone dalla sua cucina di notte?»
L'altro lo guardò di sbieco, cercando di capire come fosse uscita quella domanda, soprattutto dopo la discussione che avevano avuto quella mattina: «Perché me lo chiedi?»
«No, perché... ecco, curiosità».
Arunte lo squadrò ancora qualche secondo poi, tornando con lo sguardo al suo lavoro, rispose: «Lo spaventerei con un rumore, cosicché esca fuori casa».
«E... e se non deve più tornarci, in quella casa?»
«Lo spaventerei tanto da convincerlo che la sua casa non sia sicura».
Rinaldo aveva già la mente che lavorava freneticamente: come spaventarlo tanto da aver timore delle mura dove aveva vissuto fino a quel momento?






 


Note:
Lucio → Nagisa (non ho trovato un nome simile, mi dispiace)
   
 
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