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Autore: Sea    17/05/2015    1 recensioni
Si sa, il blocco dello scrittore può farti impazzire ed Ed Sheeran stava cominciando a perdere colpi. Non voleva partire, per fuggire dai suoi problemi gli bastava il suo appartamento, non aveva bisogno di vacanze. Eppure si trovava lì, intrappolato dal suo manager, senza poter gestire la sua vita come una qualsiasi persona.
Non voleva che qualcuno interrompesse la sua solitudine, ma successe. Quell'incontro avrebbe trasformato la sua gabbia dorata in una via d'uscita, ma ancora non lo sapeva. Il suo deserto stava per trasformarsi in una florida oasi. Così, visse.
ATTENZIONE: IL CAPITOLO "TERZO GIORNO - PT II" è STATO MODIFICATO IN QUANTO MANCANTE DI UNA PARTE DELLA NARRAZIONE, ORA REINTEGRATA NELLO SCRITTO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- "The kid is not my son" -

 

Da quando si era svegliata, era rinato. Si guardava allo specchio e vedeva un uomo con una ragione per vivere. Alla radio non fingeva più, ballava mentre suonava, dormiva, mangiava, registrava. Il suo mondo aveva ripreso a girare e quel giorno era il grande giorno.
Stava andando a prenderla per portarla a casa. A casa.
I giornalisti erano già accalcati all’ingresso, ma ci stava pensando J.
Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe attraversato quel corridoio ormai troppo familiare. Nelle radio, mandavano in onda i suoi singoli, insieme agli auguri di pronta guarigione per la sua “fidanzata”.
Quando entrò dalla porta e la vide in piedi, vestita nei suoi abiti ormai troppo grandi, si sentì così sollevato da riuscire ad interrompere per un attimo i suoi pensieri. Si passò una mano tra i capelli e si affiancò a lei, per aiutarla.
  • Ti porto a casa. – disse, sorridendo.
Era in grado di camminare da sola, ma volle lo stesso che si appoggiasse a lui.
Le sue dita erano ancora sottili, ma aveva ripreso un paio di chili. Sentì le gambe tremargli quando fecero il primo passo verso l’uscita.
  • Ed, cos’è questo chiasso?
Le urla e gli schiamazzi si sentivano fin dall’interno.
  • Ci sono i giornalisti, ma stavolta ho fatto raddoppiare gli uomini.
  • Non ce n’era bisogno.
Il suo sorriso radioso gli placò l’anima. Teneva una mano poggiata sulla sua, quando uscirono dalla porta principale. Immediatamente, J gli andò incontro e le diede un bacio sulla guancia.
  • Pensavo di aver perso Ed, ma grazie a Dio stai bene!
Rise spontaneamente, riuscendo a comprendere le sue parole e continuò a seguirlo verso la macchina. Voltando lo sguardo, vide un enorme striscione: GIVE HIM LOVE.
Si portò una mano alla bocca, comprendendone il significato. Lo indicò a Ed e lui sorrise, salutando la folla.
In quel momento si sentiva un po’ il principe d’Inghilterra e lei era la sua Kate. Fece un ultimo cenno prima di entrare in auto. La aiutò a sedersi e filarono via.
  • Per fortuna è andata bene. – le disse.
  • Non avevo dubbi. – rispose lei.
Con la stessa lentezza, arrivarono in casa e finalmente, potevano rilassarsi.
Come di consueto, la abbracciò. Era viva ed era tra le sue braccia. Baciò la cicatrice che aveva sulla fronte e la accompagnò al divano.
  • Stai bene?
  • Sì, sto bene, non cominciare!
  • Domani devo andare agli studi, ma ti prometto che torno per pranzo!
  • Ed, starò bene. C’è anche Ted con me.
  • Ted? Hai chiamato il gatto Ted? –intanto il micetto zampettava sul divano
  • Sì e allora?
Si tolse le scarpe e si accomodò meglio accanto a lei. Il dottore aveva detto niente stress, ma…due secondi dopo la stava già baciando. Il suo sospiro si confondeva con quello di lei, dandogli la sensazione che quel bacio fosse desiderio di entrambi. Non riusciva a non prendere il suo viso tra le mani. Era come se dovesse recuperare tutto il tempo perso, tutti i baci in meno, ma sentiva chiaramente che era ancora debole.
  • Scusa, va bene. – le disse, distaccandosi – Non voglio metterti fretta, riposati quanto vuoi.
  • Ed, ti prego, non fare la mamma. Lo so che ti senti in colpa, ma lo sai che non sei responsabile. – la guardava negli occhi, assorbendo quelle parole. – Ti sei anche rotto un dito.
  • Se fosse stato necessario, mi sarei tagliato una mano. Non sono una mamma, sono solo…
Si interruppe, in imbarazzo, rimanendo a bocca aperta. Non era ancora pronto a fare quel passo e lei non lo incitò a continuare. Un’ora di coccole dopo, la lasciò per andare agli studi. La baciò sotto la porta, raccomandandole di starsene buona. Quella volta, andando via, fu sicuro del fatto che l’avrebbe rivista. Amava la sua figura poggiata all’uscio, come se quello fosse proprio il suo posto.
 
Quando finì di registrare, dovette partecipare ad un’intervista, per volere di J.
Durante quei due mesi, le foto della sua settimana in Italia facevano capolino su tutti i giornali, ma la situazione che stava vivendo gli permise di sfuggire ai mass media per un po’ ed ora era il momento delle spiegazioni. Di nuovo.
Dovette spiegare quelle immagini, anche se parlavano da sole. Non ci voleva un genio per dire che erano stati al mare. Raccontando gli eventi, i particolari delle sue sensazioni gli tornavano alla mente come se li avesse appena vissuti. Qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe mai dimenticato quella settimana. Non avrebbe mai dimenticato lei.
Fremeva all’idea di tornare a casa e trovarla lì, sperò che stesse bene. Quando finalmente rispose all’ultima domanda, si congedò e scappò via, comunicando a J che quel weekend non aveva intenzione di lavorare. Si sentiva già abbastanza in colpa per averla lasciata sola il primo giorno fuori dall’ospedale. Durante il tragitto verso casa, chiamò il suo ristorante cinese di fiducia ed ordinò qualcosa per cena.
L’usciere lo salutò vedendolo rientrare, poi prese l’ascensore e schiacciò il tasto. Gli batteva il cuore.
Aveva le chiavi in mano, ma le ripose. Bussò al campanello e aspetto che lei aprisse. Aveva il fiato sospeso e nemmeno se n’era accorto.
Doveva essere quello che si provava a tornare a casa dopo una lunga giornata.
Quando lei aprì la porta, avvolta in un suo paio di pantaloni, capì cosa fosse la felicità.
  • Bentornato. – gli sorrise.
Non disse nulla ed entrò in casa, baciandola. Avrebbe voluto farlo tutti i giorni.
  • Com’è andata a lavoro?
  • Bene, ma mi sei mancata. – le disse, cercando il suo sguardo, senza smettere di sorridere come un ebete.
  • Anche tu mi sei mancato. Mia madre mi ha già chiamato 12 volte, spero che il numero di chiamate cominci a diminuire presto, altrimenti impazzirò.
  • Cos’hai fatto?
  • Ho riposato, guardando la tv, ma non ci capivo niente.
Rise, pensando alla sua faccia, guardando i programmi americani.
  • Molti programmi parlavano di noi. Dell’aggressione. – fece lei, serenamente.
  • Mi dispiace, non ho potuto farci niente. Vedrai che tra qualche settimana non ne parleranno più.
Quando arrivò la cena, si sedettero a terra accanto alla vetrata, perché lei voleva guardare il panorama illuminato. Lasciò che gli insegnasse a tenere le bacchette, mentre dividevano tutto ciò che aveva ordinato.
Più la guardava, più pensava che quella storia avesse dell’incredibile, eppure era fatta di piccole cose. Piccole persone e piccoli eventi, in un mondo così grande.
Era quella la felicità: dividere la cena con lei, seduti su un tappeto e guardare il panorama notturno.
  • Ed?
  • Sì? – avrebbe risposto a qualsiasi sua domanda.
  • Cosa…cosa siamo noi? Sono giorni che ci penso. – il suo viso era corrugato, ma non sembrava turbata come in altre occasioni.
Rimase sorpreso. Anche lui se l’era chiesto, ma aveva pensato che avrebbero dovuto deciderlo insieme.
  • In realtà speravo che me lo dicessi tu, ma… - e posò le bacchette - …credo che…dovremmo deciderlo insieme.
La vide diventare rossa. Si passò una mano tra i capelli, ancora in imbarazzato dopo tutto quello che c’era stato.
  • Ed, io…prima o poi voglio tornare in Italia. Devo terminare gli studi.
  • E io dovrò andare in tour, prima o poi. Però… - non sapeva come spiegarsi. - …però, non ce la faccio a rinunciare.
  • Io, sai, sono piuttosto confusa. Non voglio ferirti, ma ho paura di farlo in ogni caso. – sembrava che non le importasse di se stessa.
  • Vieni qui. – e la accolse tra le sue braccia. – Non dobbiamo decidere subito, ma sappi che, se fosse per me, saresti davvero la mia fidanzata. – e la strinse, senza sapere esattamente perché. Forse, aveva soltanto paura che lei non riuscisse a percepire quanto fosse importante.
Dopo l’aggressione, si era giurato di dirle tutto quello che pensava.
  • Anche io ho paura, ma…voler stare con te mi viene naturale. – continuò, lui.
  • Possiamo pensarci ancora un po’?
  • Certo che possiamo.
Avevano davanti il tempo necessario per prendere una decisione, ma entrambi erano spaventati dalla separazione, come la prima volta. Ed l’avrebbe lasciata andare, voleva che lei si prendesse il suo tempo per studiare e cominciare a lavorare, ma aveva paura di perderla. E se anche avessero ufficializzato il loro rapporto, chi gli assicurava che la lontananza non lo avrebbe distrutto? Gli era già capitato in passato.
Ancora una volta, dipendeva da quanto erano disposti a rischiare: potevano vivere un sogno e poi vederlo svanire o potevano convivere serenamente e poi lasciare che le loro strade si separassero. Vincere o perdere, dipendeva solo da loro, a prescindere dalla decisione che avrebbero preso.
Andarono a letto presto e nel buio si aprirono.
  • Quando ti ho vista perdere i sensi, ho avuto paura che non ti saresti più svegliata.
  • Mi dispiace. Non volevo far preoccupare nessuno. – quella sua risposta innocente, lo fece tremare.
  • Sara…tu vuoi stare con me? – non la guardava.
  • Sì, ma…
  • Lo so che saremo lontani, ma quando sarai andata via, non vorrò nessun’altra donna in casa mia che non sia tu.
  • Non puoi saperlo. – rispose nettamente.
  • Sì, che lo so. Non voglio nessun’altra. Nessuna. Mi chiedo se per te sia lo stesso. – il buio che li avvolgeva gli dava coraggio.
  • Lo è. – disse, stringendo la stoffa della sua t-shirt – Però, Ed…non so a chi dar retta, se al cuore o alla testa. L’uno mi dice di ascoltarti, l’altro di restare al mio posto.
  • Io la mia testa ho cominciato a ignorarla quando ti ho visto in quel letto. Forse non potrai capire cosa ho provato io, ma sappi che non ho nient’altro da perdere se non te. Voglio viverti, ogni giorno, anche quando sarai via. Non capisci? Ho tutto da vincere, se ci sei tu in questa vita. – forse doveva solo essere sincero, forse doveva solo amarla di più.
  • Ed…
  • Dimmi che tu provi lo stesso. – la stava quasi pregando, ma come aveva detto, non aveva nulla da perdere se non lei. La sentì annuire, mentre affondava il viso nel suo petto. – Allora, ci proviamo?
  • Ho paura – disse, mentre lui cercava i suoi occhi.
  • Anch’io. Io…mi sento così piccolo da solo, ma con te...
  • …Mi sento più forte.
 
Quando la sveglia suonò, alle 9:00, aprì gli occhi e si sentì completo. Sapere che condividevano delle idee e delle paure, lo rendeva più coraggioso. Un conto era amare da soli, un conto era amare in due.
La guardò mentre dormiva, contemplando la sua cicatrice. Quella era la motivazione che lo spingeva a mettere da parte ogni cosa, per lei.
Voleva ogni cosa di loro: i litigi, le risate, la stanchezza, il desiderio. Non riusciva a non credere che insieme avrebbero potuto affrontare ogni cosa, anche la distanza.
Scivolò giù dal letto e preparò la colazione. Magari sarebbero potuti uscire e andare a prendere il caffè fuori.
Il suo the era pronto e andò a vedere se fosse sveglia. La trovò distesa nel letto, con le braccia aperte e lo sguardo perso fuori a guardare il cielo.
La raggiunse, intanto che il the si freddava e la baciò: un altro piccolo pezzo di felicità.
Erano, insieme, inequivocabilmente qualcosa, anche se non se l’erano mai detti.
La aiutò ad alzarsi e mangiarono biscotti al bancone con gli sgabelli, che dava sul salotto.
Era la prima volta che lo faceva con qualcuno, in quella casa. Niente Nina, niente Lei.
Sembrava persa nei suoi pensieri, mentre muoveva la bustina di the nella tazza, ma non la richiamò. Forse stava pensando a quel loro discorso e voleva che lei ci riflettesse.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per averla accanto, se fosse stato necessario si sarebbe trasferito. Londra non gli dispiaceva.
Come le aveva promesso, la portò a prendere quel caffè al caramello e andarono a passeggiare a Central Park. Dovevano camminare piano, altrimenti lei si sarebbe stancata troppo, ma gli sembrava raggiante sotto le fronde fresche del parco.
  • Molto più grande del bosco di Portici.
  • Già, ma troppo affollato.
I suoi capelli stavano crescendo a dismisura, entrambi necessitavano una sfoltita, ma gli piaceva il modo in cui i riccioli le cadevano sulle spalle. Si sedettero su una panchina ad osservare la gente passare, facendo commenti sulle persone più stravaganti. Istintivamente, Ed alzò un braccio e lo mise dietro alle sue spalle. Quel gesto così naturale, aveva un peso così importante per lui che credeva che nessuno potesse capirlo: era come il fatto di toccarle la gamba al ristorante. Il braccio significava che quella ragazza gli apparteneva. Non che qualcuno la stesse guardando, era soltanto un modo per dirlo al mondo.
Affinchè non si stancasse troppo, rimasero lì per diverso tempo.
 
Era ancora molto debole, forse avevano sbagliato ad uscire, ma l’aria aperta la faceva sentire così bene, dopo due mesi chiusa in una stanza.
Ogni tanto, sorprendeva Ed a guardarla. Com’era strano, essere lì, senza sapere ancora cosa fossero.
Ma forse la vera stranezza stava nel fatto che fossero diventati qualcosa. Insomma, lui era sempre Ed Sheeran: non la turbava il fatto che lui fosse famoso o fosse ricco, la turbava il fatto di averlo sempre guardato e ammirato da dietro uno schermo ed ora era lì, con quei sogni materializzati accanto a sé, su una panchina di Central Park, a New York. Aveva solo 23 anni.
Nel giro di tre mesi la sua vita aveva cambiato rotta in modo così radicale, che quella stessa abitudine di ascoltare le sue canzoni ora le suonava strana. Quasi lontana.
Era intrappolata a metà tra la sua vecchia vita e quella che si apriva ogni giorno dinanzi a lei. Anche per questo era confusa: era un momento di scelte, di decisioni e progetti che avrebbero cambiato per sempre il suo futuro.
C’erano così tante domande che la assillavano e poi c’era lui, che le annullava tutte. Era quel piccolo elemento che faceva perdere l’equilibrio alla bilancia.
Lei sapeva che Ed ne valesse la pena, nel vero senso della parola, ma valeva lo stesso per i suoi sogni. Sarebbero stati in grado di sopportare chi sa quanti anni di separazione?
Per quanto un sentimento potesse perdurare nel tempo, lo stesso non valeva per i legami e questo lo sapeva. Allora perché non sapeva decidersi?
Per stare più comoda, accavallò la gamba destra sulla sua coscia sinistra e continuò a sorseggiare il caffè. Il vento spostava i suoi capelli rossi, così allungò la mano per aggiustarglieli. Le piaceva toccarlo, anche per delle sciocchezze, si creava quell’intimità che non avevano mai saputo nascondere.
  • Su internet non si parla altro che di te e dello striscione che ti hanno lasciato fuori all’ospedale. – fece lui.
  • Davvero? In effetti era molto d’effetto.
  • I miei fan mi vogliono bene. È una bella cosa.
  • Invece no! – fece lei, ironica. – Le tue fan femmine sono tutte innamorate di te!
  • E tu come lo sai?
  • Sono anch’io una tua fan, quindi le so queste cose.
  • Ed eri innamorata di me?
  • Soltanto di quello che credevo che fossi, poi ho scoperto che sei uno scemo.
  • Come osi?!
Un altro piccolo pezzo di felicità.
  • Intanto sei qui, pronta a cedere ai miei baci, quindi non vantarti troppo.
  • Dettagli. – disse, facendo la smorfiosa.
  • E poi, per l’intera umanità sei la mia fidanzata!
  • Ah, davvero?
  • Sì.
Non stavano più scherzando. Il suo volto era più serio che mai e lei non seppe più cosa dire. I suoi capelli che si spostavano al vento non riuscirono a distrarla da quegli occhi, fissi nei suoi.
  • Sara. – e perse un battito. – Sara De Amicis, a prescindere dal numero di canzoni che scriverò per te…
Cosa stava facendo, quella testa calda? Non voleva lasciarla pensare? Cosa avrebbe risposto?
  • …e dai chilometri che ci separeranno...vuoi essere la mia vera fidanzata?
Sì. Sì. Sì. Voleva. Al diavolo ogni cosa, ogni problema. Quell’uomo era capace di cambiarle l’umore, le idee, le decisioni, il battito cardiaco con una sola parola, quindi tanto valeva accettare da subito, perché prima o poi si sarebbe abbandonata a lui. Sentiva in cuor suo che quel sì era spontaneo, più del sorriso che aveva in viso.
Nella sua testa lo urlava così forte che non si accorse che dalla sua bocca non era uscito alcun suono.
  • Ti prego, dì qualcosa. – vide la sua espressione preoccupata.
  • Sì! Sì!
Gli carezzò il viso per rassicurarlo. Era davvero una sciocca: in balia di qualcuno dal primo momento e non se n’era resa conto.
  • Cavolo, mi hai fatto prendere un colpo! – disse, prendendola in un abbraccio.
  • Già, anche a me. – rise di se stessa.
  • Beh, ci ho messo poco a farti cambiare idea. – la provocò, strofinando il naso col suo.
  • Meno male, Sheeran.
  • Non farai sul serio!
  • Sì lo so, ti devo chiamare Ed.
Lo baciò come se fosse la cosa più naturale da fare, non perché fosse il momento adatto o perché fosse giusto, soltanto perché voleva. Sentì il sorriso di Ed allargarsi sulle sue labbra e non seppe trattenersi nemmeno lei.
Da quel giorno, era fidanzata – davvero – con Ed Sheeran.
 
Quando tornarono a casa, non ci misero molto ad arrivare al letto. Ed la prese in braccio e ve la adagiò piano, per paura di farle male. Era così leggera. Persino i vestiti furono facili da sfilare, tanto le andavano larghi. Forse l’amore li avrebbe fatti ingrassare entrambi.
La baciò con una passione del tutto nuova: quella ragazza non era più un punto interrogativo nella sua vita. Stava per fare l’amore con la sua fidanzata e ci mise tutto se stesso. Aggrappato alle lenzuola, non interruppe il contatto con le sue labbra e la fece sua. La sua barba strusciava contro il suo collo, contro il suo seno rinvigorito. Sentiva quelle dita percorrergli la schiena.
Non aveva mai provato nulla del genere, facendo l’amore con una donna. Non aveva mai fatto l’amore con una donna in quel modo, in realtà. Con lei era tutto nuovo, anche il sesso.
Dovette limitarsi, poiché le parole del dottore sulla sua salute, lo tormentavano.
Il suo stesso respiro era pesante, mentre rallentava il ritmo.
  • Ed!
  • Cosa? Ti sei fatta male? – si fermò di colpo.
  • No, no!
  • E cosa, allora?
  • Siamo degli incoscienti, fin’ora non abbiamo usato precauzioni!
Sbiancò, ma non per la notizia, bensì perché aveva temuto di averla ferita.
  • Maledizione, mi hai fatto prendere un colpo! – le disse, sconvolto, abbassando il capo insegno di sollievo.
  • Verrà a me un colpo se mi ingravidi! Per non parlare di mia madre! – fece lei, sbiancando all’idea.
  • Scherzi, vero? Non mi fermerai per questo.
Riprese a muoversi, incurante della sua insistenza.
  • Ah sì? Allora io sarò di pietra. Non credo ti divertirai molto.
  • Non fare la sbruffona. Lo so che non resisterai nemmeno per un minuto.
E fu così. Non seppe resistere.
Sperò solo che l’incubo di essere incinta non la perseguitasse.
  • Questa era l’ultima volta, Ed. Sei stato avvertito.
Convenne con lei che era necessario attrezzarsi. Per quanto volesse un figlio, non era il momento.
 
Da allora, i giorni scorsero veloci tra i controlli all’ospedale, le passeggiate, le registrazioni in studio, le comparse in tv.
Spesso si annoiava e Ed lo sapeva, per questo aveva cominciato a portarla con sé. Restava in studio con lui fino a tardi, in radio era con lui, in tv lo aspettava dietro le quinte, qualche volta andavano a qualche festa.
Si divertiva, con lui, ma lei non aveva niente da fare.
Qualche volta erano tornati a casa ubriachi e avevano fatto l’amore, quindi la mattina dormiva, altre invece la trovava a pulire la casa pur di fare qualcosa.
Oramai era diventata una vera convivenza: lui andava a lavoro e lei si occupava delle faccende e del gatto. Andava perfino a fare la spesa, perché non potevano “mangiare sempre e solo cinese”. Una volta la settimana si cimentava in qualche ricetta stravagante e ogni tanto sfornava una parmigiana, per il puro piacere di vederlo mangiare, ma in un certo senso aveva perso la sua utilità.
Non faceva mai niente, se non pulire, cucinare e aspettarlo in silenzio.
Ed le aveva comprato tele e pennelli e per una settimana non pensò che a dipingere, ma poi la novità diventò obsoleta e lei era punto e a capo. Da ragazza normale quale era, spesso andava a correre o a fare spese e compariva sui giornali. La gente non sapeva cosa facesse mentre Ed girava per l’America e pensò che se l’avesse saputo, si sarebbe vergognata.
Praticamente era una mantenuta.
  • Non c’è bisogno che ti trovi un lavoro, basto io!
  • No, Ed, io mi annoio! Devo fare qualcosa! Il caffè qui sotto cerca una ragazza ed io ho bisogno di contatti umani.
  • Non mi va…non lo so.
  • Cerca di capire, non posso stare tappata in casa fino a Gennaio.
  • Gennaio? Perché Gennaio?
  • Perché ricomincia l’università, ne abbiamo già parlato.
  • Ah, già.
  • Senti, io vado a presentarmi come cameriera, che tu lo voglia o no. Anche i nostri orari coinciderebbero.
Riluttante, diede la sua approvazione e Sara cominciò a lavorare, guadagnandosi qualcosa con le sue mani.
I primi tempi, tornava stanca la sera, ma col tempo prese il ritmo. Era contenta di quell’esperienza. Fred, il suo capo, la trattava bene anche se non sapeva chi fosse e stava imparando meglio l’inglese. Gli raccontava che qualche volta qualche ragazza la riconosceva e strabuzzava gli occhi nel vederla lavorare in un caffè. Aveva anche fatto amicizia con la ragazza che lavorava con lei, Jane.
Quando la sera si mettevano a letto, Ed vedeva una certa serenità nei suoi occhi che prima mancava. Quando facevano l’amore, era più viva, più in forze e scopriva lati di lei e di se stesso che non sapeva esistessero. Nell’intimità della loro casa, stavano diventando una famiglia, ma Gennaio stava arrivando e Central Park si colorava dei colori più tenui e gli alberi erano spogli.
Quella domenica pomeriggio, erano piuttosto silenziosi. Ed, seduto accanto a lei sulla panchina, giocava con la sua medaglietta. Sapevano entrambi che presto si sarebbero salutati, ma davanti a quella prospettiva di vita un anno sembrava abbastanza breve, quindi i loro animi erano sereni. Tutto sarebbe andato bene, se non fosse stato per Lei.
Un giorno, si presentò alla porta proprio Lei. Non poteva credere di avere davanti proprio quella ragazza che aveva ispirato praticamente i ¾ delle canzoni di Ed, il quale sembrava sorpreso quanto lei, poiché quella ragazza aveva un bambino per mano. I suoi capelli rossi e gli occhi chiari erano inconfondibili.
 
Non capiva cosa stesse succedendo. Lei era fuori la sua porta con un bambino e Sara aveva perso colorito.
Non era possibile. Non poteva avere un figlio, doveva essere uno scherzo. Non la vedeva da poco più di un anno e non aveva mai visto prima quel bambino. Aveva ben più di due anni.
  • Cosa vuoi? – disse nettamente.
  • Farti conoscere qualcuno. – rispose lei, altrettanto secca.
  • Non ti sta bene che io sia felice?
Quella non rispose e scavalcando Sara, entrò in casa.
  • Tuo figlio. Si chiama Henry.
  • E saresti venuta dall’Inghilterra per dirmi di essere padre? Non ti credo.
  • Io potrei crederci, invece.
Cogliendolo di sorpresa, Sara aprì la porta e scappò via. Non fece in tempo a fermarla.
  • Si può sapere cosa vuoi? - voleva che dalla sua voce trasparisse il suo risentimento.
  • Che mi aiuti a mantenerlo e che lo riconosci come tuo figlio.
  • Non può essere mio figlio, non ci vediamo da soltanto un anno e mezzo. - non ci stava a farsi prendere in giro. Avrebbe sistemato tutto.
Prese il cellulare e chiamò Sara, facendo squillare il cellulare invano. Era preoccupato, aveva paura che si perdesse.
  • Questo bambino è tuo figlio! - lei urlava, stringendo la mano di quel poverino.
Quelle parole rimbombarono nella sua mente. Pochi secondi dopo, la donna che non avrebbe mai voluto vedere, era di nuovo fuori dalla sua porta. Fuori dalla sua vita.
 
Sara non si era mai mossa dal caffè in cui lavorava. Vi si era rifugiata come cliente e si era seduta nell’angolo più scuro della sala. Soltanto alle 23:00, quando il cellulare squillò per la millesima volta, si alzò e rientrò.
Bussò al campanello, ancora turbata. Il suo fidanzato aveva un figlio dalla ragazza che aveva amato così tanto, un tempo e lei? Cosa avrebbe fatto? La sfascia - famiglie? No.
Quando Ed aprì, aveva l’espressione sconvolta.
Entrò impassibile ai suoi rimproveri, mentre Ed cercava di darle delle spiegazioni.
  • Quel ragazzino non può essere mio figlio, ne sono sicuro!
  • È LA TUA STRAMALEDETTA FOTOCOPIA, ED! NON TE NE RENDI CONTO?
  • Io ne sono sicuro, perché non hai un po’ di fiducia in me?
  • Perché? La tua ex, quella ex, si presenta a casa tua con un bambino uguale a te per mano, cosa pretendi che pensi? Hai un figlio, Ed!
  • Ma se anche fosse, io non lo sapevo! Perché sei così arrabbiata?
  • Perché non sono una sfascia - famiglie e non ho intenzione di diventarlo ora!
  • Mi stai lasciando?
Sì, lo stava lasciando. E stava andando all’aeroporto a prendere il primo volo per l’Italia, pagato con i suoi soldi.
  • Me ne vado, Ed.
La sentì piangere, mentre infilava i suoi vestiti in valigia. Non poteva essere reale. Magari si sarebbe svegliato nel suo letto, sudato, rendendosi conto che si trattava di un incubo.
La raggiunse in camera da letto e la fece voltare verso di lui, afferrandola per un braccio. Tutto vorticava intorno a lui come se avesse bevuto troppo.
  • Tu non te ne vai, non prima di avermi dato il tempo di fare chiarezza.
  • E invece me ne vado, Ed. Non posso restare, non più. Non con un bambino in mezzo.
  • Ragiona! – le disse, mentre lei prendeva lo spazzolino dal bagno e i documenti dal cassetto. – Non puoi andartene così. Non lo faresti davvero. Guardami, per la miseria!
Stava urlando e non se n’era reso conto.
Sara si voltò e lo guardò negli occhi, asciugandosi le lacrime.
  • Tu non la conosci, non sai cosa è stata capace di fare in passato. Per questo sono sicuro che non sia mio figlio.
  • Ed, quel ragazzino è uguale a te e quella era la tua ex. A me basta questo, delle teorie non me ne faccio niente.
Non seppe come ci stesse riuscendo, ma afferrò la valigia e andò via. Non lo aveva nemmeno guardato. Non voleva vedere la sua espressione, mentre lo lasciava, altrimenti sarebbe tornata indietro. Quando entrò in taxi, guardò la città scivolare confusa tra le sue lacrime. Una mano sulla fronte a reggere il dolore.
Ed correva al garage a prendere la sua auto, cercando di convincersi che non era un incubo, che l'aria entrava nei suoi polmoni, che l'avrebbe fermata e sarebbe andato tutto bene, costava quel che costava. Non l’avrebbe persa di nuovo. Sfrecciò sull’autostrada superando tutti i limiti di velocità, probabilmente sarebbe comparso su tutti i giornali, ma non gli importava. La pelle del volante strideva sotto la sua stretta.
Frenò bruscamente all’ingresso, esattamente dove si era fermato mesi prima per andarla a prendere. Scese dalla macchina lasciando le chiavi nella toppa, ma quando raggiunse il gate, trafelato e con lo sguardo confuso, era troppo tardi. L’aereo era appena decollato.
Non sarebbe più riuscito a contattarla.





Angolo autrice:

Oh, beh. Non so che dire. Davvero.
Il capitolo, nella seconda parte, è stato volontariamente poco descrittivo, per preservare lo stato di confusione che avvolge i protagonisti. In ogni caso, niente di tutto quello che scrivo (il titolo, il nome di ogni capitolo, le citazioni, le metafore, le stesse situazioni) è casuale, ogni cosa ha un preciso rimando ad una canzone, a luoghi reali o a quello che so di Ed Sheeran (che è sicuramente poco e infimo rispetto alla realtà).
Vi lascio le immagini del panorama notturno, di Central park e dell'ipotetico figlio di Ed, che poi sarebbe il bambino del video "Everything has changed":
 
 

Non do un volto alla famosa Lei, voglio che mantenga l'alone di mistero che la avvolge nella realtà. :)
Grazie per le numerosissime visite e per le splendide recensioni!
A presto! :D
  
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