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Autore: Macy McKee    18/05/2015    2 recensioni
[Venticinquesimi Hunger Games, OC]
Rayon Howell, Distretto Otto, viene scelto dai suoi concittadini per partecipare ai Venticinquesimi Hunger Games proprio quando pensa di essere vicino a scoprire chi abbia appiccato l’incendio di cui lui è considerato colpevole.
Da quel momento, dovrà avere un solo scopo: sopravvivere, tornare a casa e scoprire chi l’abbia incastrato.
E vendicarsi.
*
Sono io.
Il mondo si contorce un po’ davanti ai miei occhi, e la consapevolezza di cosa significhi il mio nome sulle sue labbra cozza contro la mia mente.
Non scoprirò mai chi mi ha incastrato.
Non scoprirò mai chi ha ucciso quelle persone.
*
«Possa la fortuna essere sempre a tuo favore.»
Reena fa una smorfia. «Non è della fortuna che mi preoccupo. Noi siamo stati, scelti, Rayon. Sono gli uomini che non sono mai stati a nostro favore.»
Genere: Angst, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Nuovi Tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo II
 
L’ondata di stordimento che sto aspettando non arriva.
Sono perfettamente lucido mentre avanzo verso il palco e nessuno incrocia il mio sguardo.
Sono contenti che sia capitato a me e non a loro.
«Se lo merita!» grida qualcuno fra la folla.
Mi giro di scatto, ma la voce rimbomba fra le facciate dei palazzi che circondano la piazza, ed è come se ogni finestra, ogni asse, ogni scheggia di intonaco mi stesse urlando che lo merito, che non vedono l’ora di liberarsi di me, che morirò e che non un singolo mattone di questo Distretto sentirà la mia mancanza.
Ed è troppo.
Sento le gambe farsi pesanti, e in quel momento la mia mente si chiude. Non penso mentre Zenobia mia afferra un polso e mi trascina su per i gradini, vacillando sulle scarpe alte.
Non penso mentre scorgo una sagoma immobile sul palco, così rigida da sembrare a malapena un essere vivente.
Non penso mentre le dita fredde di Zenobia lanciano in alto il mio braccio.
«Signori e signore, i Tributi del Distretto Otto. Reena Weber e Rayon Howell!»
La nebbia sembra essersi addensata all’improvviso sulla piazza mentre il mio sguardo precipita sulla folla e non riesco a fermarlo.
Vedo tutto, da qui. Vedo gli adulti accalcati ai lati, ancora vicini ai tavoli a cui si sono appoggiati per scrivere i nostri nomi – il mio nome, mio – e decidere chi è di troppo – io, sempre io.
Vedo gli altri ragazzi, immobili nelle loro sezioni, e posso quasi scorgere il sollievo che si addensa in sbuffi d’aria calda davanti a loro.
Ma li vedo come attraverso una patina, come se qualcuno avesse eretto un muro di vetro fra me e loro.
Le persone sotto di me d’un tratto non hanno volti e occhi. Sono macchie di colore divorate dal grigio che mi preme sugli occhi, e per un momento, uno soltanto, credo che sia paura.
Non lo è.
È rabbia.
Sento un’ondata di calore bruciarmi il petto, il cuore, gli occhi.
Mi avete mandato a morire.
Mi avete mandato al massacro, vorrei urlare, ma la rabbia mi stringe le labbra e non le lascia aprire.
E il silenzio che avvolge la piazza è combustile che alimenta le fiamme.
Li odio.
Li detesto come non ho mai detestato nessuno, neanche Capitol City, neanche mio padre, neanche chi ha appiccato quel dannato incendio un anno fa.
Li detesto e vorrei che morissero, tutti quanti. Ora.
Vorrei che ci fossero i loro figli, di ognuno di loro, su questo schifoso palco.
Alzo la testa, e all’improvviso voglio che mi vedano, che mi guardino tutti.
Spingo più in alto la mia mano e sorrido.
Posso vedere la mia immagine che mi osserva dallo schermo vicino al palco e sogghigna verso di me.
E qualcuno comincia ad applaudire.
«Il futuro vincitore del Distretto Otto!» urla qualcuno, e non ho bisogno di vedere le telecamere che corrono verso di lui e proiettano la sua faccia sullo schermo per riconoscere la voce di Oden.
Non mi aspetto che qualcun altro si unisca al suo applauso, ma accade. È un applauso sommesso, che non riempie la piazza e l’aria, ma nasce.
Zenobia esclama un oh entusiasta e mi spinge verso Reena, sempre immobile.
Lei non alza gli occhi mentre ci stringiamo la mano, e non mi guarda nemmeno mentre l’applauso muore sulle mani della folla e la nostra accompagnatrice ci spinge nel Palazzo di Giustizia per i saluti.
Oden è il primo a entrare. Il Pacificatore non ha ancora chiuso la porta alle sue spalle quando lui prorompe in un «che stronzi» indignato. Riesce a strapparmi una risata, ma suona più lugubre di quanto intendessi.
Non rispondo quando lui inveisce contro Capitol City e contro il Distretto Otto, perché so che se comincerò a farmi travolgere dalla rabbia, non riuscirò a fermarmi.
Ho a malapena di tempo di fargli promettere che continuerà a indagare sull’incendio e che si prenderà cura di sua sorella, poi il Pacificatore torna e lo caccia.
«Vinci» mi dice, mentre la porta si chiude.
Sono quasi sorpreso quando si riapre per lasciare entrare mia madre.
«Tuo padre non è potuto venire» dice, fermandosi sulla soglia.
Mi stringo nelle spalle. Che differenza fa che venga a salutarmi o no?
«Mi ha detto di dirti di tornare a casa» prosegue mia madre, e mentre la sua voce si spezza lei sembra così trasparente, così insignificante, che provo l’impulso di avvicinarmi a lei e abbracciarla; non lo faccio.
Annuisco.
Ovvio. Così porto a casa i soldi della vincita, aggiungo mentalmente.
«Mi dispiace» mormora mia madre, così piano che per un momento scambio le sue parole per un singhiozzo.
Scuoto la testa.
«Non è colpa tua.»
Distolgo lo sguardo mentre mi sorride, per non vedere le lacrime che le gonfiano gli occhi.
Mentre torna alla porta ed esce, mi sembra di sentirla sussurrare: «Anch’io voglio che torni.»
Mi sembra che sia appena andata via quando Zenobia si presenta alla porta, ridendo e ondeggiando, e mi annuncia che il treno ci aspetta.
Reena è accanto a lei, e l’unica cosa che riesco a vedere del suo viso sono le guance pallide e la fronte.
Dietro di loro c’è la nostra Mentore. Mentre seguo il gruppo fino al treno, lei mi rivolge un cenno rapido e si presenta come Thanee Baxter.
*
Salire sul treno è surreale: sono circondato da persone, ma è come se ognuno di noi fosse in un universo a cui nessun altro ha accesso.
Zenobia parla e ride da sola, e comincio a credere che si sia accorta che nessuno la sta ascoltando e che non le importi.
Reena non apre bocca quando io sono nei paraggi, e non ho ancora deciso se lei sappia chi sono o no.
L’unica cosa a cui io riesco a pensare è che sto andando agli Hunger Games, a morire, e che non mi farò ammazzare.
Tornerò e troverò chi mi ha incastrato, perché se quello non fosse successo, io ora non sarei qui.
Lo troverò e gliela farò pagare, a qualunque costo.
Il pensiero striscia nella mia mente dal momento in cui salgo sul treno e risucchia tutto il resto. Non mi accorgo di nient’altro, se non dell’ordine che la mia mente mi sbraita: «Sopravvivi.»
E ho tutta l’intenzione di assecondarlo.
Non mi preoccupo nemmeno di andare nella mia stanza. Mi lascio cadere su un divanetto e mi rendo conto di essere esausto.
Zenobia, Thanee e Reena mi raggiungono dopo qualche ora. Zenobia accende la televisione e commenta ogni singolo Tributo che viene mostrato, fino a quando Thanee le sibila di stare zitta.
Da quel momento, decido che la nostra Mentore non è così male.
Faccio caso a pochi di loro, in realtà.
Mi rimane impressa una ragazza che si chiama Feather, dell’Uno, perché il suo nome è davvero stupido.
La femmina del Due è più muscolosa di qualunque ragazza io abbia mai visto all’Otto, e anche della maggior parte dei ragazzi del mio Distretto. Cammina verso il palco come se avesse già vinto, ma la sua espressione è perfettamente a metà fra arroganza e furbizia. Mi annoto mentalmente di tenerla d’occhio.
Il ragazzo del Tre spinge via la mano tesa della sua compagna di Distretto e le lancia un’occhiata crudele. Lei deve avere poco più di tredici anni.
Il ragazzo del Sei è alto, ma ha lo sguardo spento di chi non ha ancora realizzato cosa gli stia succedendo.
I due Tributi del Dodici sembrano furiosi, ma sono così minuti che potrei buttare a terra entrambi con una mano. Decido di non preoccuparmi di loro.
Appena le repliche delle Mietiture finiscono, Zenobia ricomincia a chiacchierare. Thanee si alza di scatto e sparisce oltre la porta, borbottando.
Qualche minuto dopo, la nostra accompagnatrice e Reena la seguono.
Io rimango fermo fino a quando anche pensare diventa troppo faticoso.
Guardo una vecchia replica dei Giochi, a malapena consapevole di quello che accade sullo schermo.
Dopo un po’, sento qualcuno avvicinarsi e vedo un’ombra muoversi sul pavimento.
Potrebbe essere chiunque, ma per qualche motivo so che si tratta di Reena ancora prima di vederla.
Lei si siede sul divanetto, il più lontano possibile da me. Rimane in silenzio così a lungo che decido di andarmene, ma quando sto per alzarmi lei solleva lo sguardo verso di me.
«Sei quello dell’incendio» dice lei, e noto che parla lentamente, come se soppesasse ogni parola.
Non riesco a decidere se sia una domanda oppure no, e non rispondo.
«Sei stato tu?» aggiunge lei, e mi volto di scatto a guardarla.
«No» sbotto, e mi sorprendo di quanto la mia voce suoni simile a un ringhio. «No» ripeto, più calmo.
«Cos’è successo?»
«Non mi va di parlarne.»
Mi alzo, voltandole le spalle. È proprio l’ultima cosa di cui voglio parlare, in questo momento.
«Per favore. Almeno uno di noi non tornerà a casa. Voglio saperlo. C’erano anche i miei genitori, là dentro.»
Mi lascio cadere di nuovo sul divano.
I suoi genitori. Non lo sapevo.
Ma, dopotutto, c’erano i genitori di molte persone, là dentro.
«Non vorrei deluderti, ma non so molto. Anche se nessuno ci crede, quella notte non ero alla fabbrica. Tu cosa sai?»
Abbassa lo sguardo per un lungo momento, e qualcosa si agita nei suoi occhi. Come se il ricordo fosse rimasto incatenato fra i suoi pensieri a lungo, troppo doloroso per rimanere in superficie, e stesse lottando per liberarsi.
«So che qualcuno ha dato fuoco alla fabbrica dove lavoravano i miei genitori. E che tuo padre era il responsabile della fabbrica. E che tutti pensano che tu abbia appiccato l’incendio, perché l’avevi già fatto.»
Alzo le spalle.
«Allora sai quanto me.»
«Non sai nient’altro?» La sua voce sembra quasi una supplica, e per un momento mi dispiace per lei.
«So che non sono stato io. Ma non fa differenza, no? Mi hanno mandato qui perché vogliono liberarsi di chi ha ammazzato quella gente, e guarda un po’, non sono stato io. Ma a loro non importa niente. Gli basta far fuori qualcuno.»
«Qualcuno deve pur pagare» mormora lei.
«Cosa?»
«Vogliono solo giustizia.»
La guardo, pensando per un momento di aver frainteso. Non è così.
«Qualcuno deve pagare perché quelle persone riposino in pace» continua lei.
«E io dovrei morire per le loro fottute anime? Non sono stato io, dannazione.»
«Non importa» sussurra, ma la sento benissimo.
«Non importa, eh?» ruggisco. Quando ho cominciato a urlare?  «Beh, hai ragione: non importa. Perché tanto tornerò a casa, e saranno loro a pagare. Mi dispiace per te.»
Me ne vado quasi correndo. 
   
 
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