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Autore: BukowskiGirl2    20/05/2015    1 recensioni
E' dalla noia, da quel sentimento angoscioso e innocente, che nasce tutto.
Marzia ha intenzione di vivere la sua vita da sola, perchè nessuno la capisce. Lei, con il suo "problema", non va proprio d'accordo. Lorenzo è italo-americano, rigido ma ingenuo. Troveranno la salvezza insieme, perdendo però di vista, la loro meta. Sogni, false ambizioni, aria di depressione, momenti invisibili di felicità, attimi infantili. Cos'ha il futuro in serbo per loro?
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Così parliamo delle distanze
e del cielo e di dove andrà a dormire la luna
quando esce il sole
chissà com'era la terra prima che ci fosse l'amore
sotto quale stella tra mille anni
se ci sarà una stella
ci si potrà abbracciare
Poi la notte col suo silenzio regolare
quel silenzio che a volte sembra la morte
mi dà il coraggio di parlare
e di dirti tranquillamente
di dirtelo finalmente che ti amo
e che di amarti non smetterò mai
così adesso lo sai
 
 
Avrei voluto sfiorarla, ma qualsiasi mio movimento sarebbe risultato orrendamente violento in quel suo sonno leggero. Non avevo mai visto niente di simile. Quando riuscii anch’io a prendere sonno, squillò un telefono, con una suoneria assurda che richiamava suoni militari di sirene nere. Con tutta la tranquillità possibile, Marzia, osservò il dispositivo per meno di due secondi e poi spostò lo sguardo su di me, con aria visibilmente confusa, o spaventata.
-Pronto?-, disse con voce rauca.
Nonostante il silenzio, non riuscivo a sentire quello che il chiamante stava comunicando. Guardò me, poi il vuoto.
-Perché?
Le scese una lacrima. Staccò la telefonata.
Feci per poggiarle una mano sulla spalla, ma mi fece segno di non intervenire. Si spinse verso la testiera del letto. Aspettai un secondo.
Iniziò a tirare violenti pugni sulle sue gambe, con un’espressione al dir poco indemoniata. Poi scoppiò a piangere, adagiando la testa sulle mie gambe. Con sguardo sconvolto la strinsi a me.
-Marzia…
Singhiozzando accennò qualche parola: -Mio padre…ha avuto…un arresto cardiaco…-
Cosa avrei potuto fare? Le stelle del suo universo si erano spente ad una ad una. La vedevo scendere, scendere in profondità, scavare troppo dentro. Vedevo i suoi occhi ripercorrere tutto, in troppo poco tempo.
-Vai via.
-Non ti lascerò qui.
-Ti prego, non è il momento. Vai via, ho bisogno di pensare a cosa fare.
Cercai il suo sguardo, che era invece perso nel vuoto, spinto in basso. Decisi che aveva ragione, che quello doveva essere un suo momento. Ripensai che, d’altronde, neanch’io avrei sopportato la vicinanza di qualcuno che cerca di convincerti che va tutto bene, mentre non va bene niente. E tra l’altro anche in pessimo modo, niente di rincuorante, niente di niente.
Mi rivestii velocemente, anche se speravo tanto che mi chiedesse di restare. Ero tanto rammaricato quanto deluso. Deluso per noi, per quello che sarebbe successo e quello che saremmo stati, d’allora in poi. Chiusi la porta dietro di me, non finse nemmeno di salutarmi. Avevo degli spiccioli in tasca e sarei tornato a casa.
Nel treno pensavo a me, e a cosa sarebbe successo se mio padre, un giorno, sarebbe venuto a mancare, come comunque era inevitabile che fosse.
L’alba mi faceva una triste compagnia, il suo non imporsi era tranquillizzante.
Arrivai a casa. Dalla finestra vidi che Alfredo preparava il caffè, con aria abbastanza assonnata. Entrai, spingendo la porta delicatamente e sottolineando la mia stanchezza. Speravo disperatamente che mi chiedesse cos’era successo.
-Lorenzo…
Feci spallucce.
-E’ successo qualcosa?
-Hanno chiamato, stanotte. Suo padre è morto. Adesso lei sta lì, su quel letto, a ricordare chissà cose e fissare il vuoto. Non vuole stia con lei.
-Mi dispiace molto… Posso capirla, sai?
-No…Non puoi. Neanch’io posso. Nessuno può. Non so cosa succede, mi sento come se fossi il protagonista. E non lo sono. E’ come quando, a tredici anni, sono voluto andare dal dottore. E quando ha chiesto perché ci fossi andato, io ho risposto che mi sentivo sempre triste e lui avrebbe dovuto aiutarmi. Mi ha riso in faccia. Ha fatto male, male come adesso.
-Ti senti ignorato?
-Sento un pezzo di me che mi ha lasciato. Mi passerà.
Corsi nella mia stanza, per evitare il suo sguardo. Seduto sul letto mi concessi qualche lacrima. Lei non mi aveva ancora raccontato abbastanza, di suo padre. E sapevo che, adesso, non lo avrebbe più fatto con tanto entusiasmo. Non ero bravo con le descrizioni, più che altro non avevo voglia. Ma lei sì, lei descriveva tutto nel dettaglio. E come avrei voluto, in quel momento, che mi dicesse qualcosa di più… Che mi raccontasse altro, più di quello che dovevo lasciare alla mia immaginazione.
Mi addormentai vestito, per svegliarmi ad un’ora assurda del giorno. Dovevo già pranzare, ecco tutto. Mi forzai di infilare qualche forchettata di spaghetti in bocca, ma era impossibile. Presi il telefono di casa e la chiamai.
Squillò incessantemente, finché non sentii un piccolo rumore, che somigliava a quello di un naso raffreddato.
-Hei…
-Spero tu ti goda la tua giornata.
Una voce assurda, non da lei. Un suono sgradevole, stonato.
-Marzia, cosa stai facendo? Non hai bevuto, vero?
-Bevuto?- scoppiò in un’aspra risata –Ma se non bevo mai, babe.-
-Sto arrivando.
-No, no. Aspetta.
-Non aspetto. Non aspetto che tu beva ancora.
Attaccai.
Ricominciava il tour. Preso il treno, corsi più veloce che potevo per arrivare a casa sua. Sapevo dove teneva nascosta la chiave. Entrai. Due bottiglie di Jack Daniel’s vuote, sul tavolino del soggiorno.
Uscì dalla sua stanza barcollando, con i capelli scompigliati e lo sguardo perso. Teneva in mano un quadernetto.
-Guarda.- mi disse –Qui ci sono tutte le boiate che mi fa scrivere lo psichiatra. La chiama terapia.- rise –Guarda. C’è scritto cose che mi rendono felice: papà che mi chiama ancora Principessa.
-Siediti…
-Sento freddo.
-Hai un termometro?
-Termotrefo?- rise, ancora.
-Marzia.-, dissi in tono autoritario.
-Lì, nel cassetto, Monsieur.
Accesi l’aggeggio, le chiesi di alzare il braccio e lo posizionai. Atteso il tradizionale bip, lessi quello che mi stupì il giusto: 32º
-Vieni, ti porto all’ospedale.
La presi in braccio. Lentamente assumeva un colorito grigiastro.
Prendemmo un taxi. Spiegata la situazione al tassista, facemmo più in fretta possibile. Decisero di ricoverarla, comunicandomi che non potevo entrare nella sua stanza. Lo sguardo della dottoressa era chiaro, con una pacca sulla spalla mi rassicurò, dicendomi che tutto si sarebbe risolto.
-Signor Faggi, stia tranquillo. E’ quasi normale, da parte di un paziente del genere, una reazione così alterata. La morte è dolore. E non c’è un dolore facile.
 
 
E non c’è un dolore facile…
   
 
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