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Autore: TimesNewMozzi    21/05/2015    0 recensioni
È sera, forse quasi notte, in una campagna in qualche posto sperduto e cinque amici parlano e bevono, e scherzano. Tra loro c'è un intruso desiderato, e attorno a loro un paesaggio di sensazioni.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una bella sera. La luce del Sole era affievolita e scomparsa sotto l’orizzonte, aldilà delle colline mal tagliate che, anche nel buio, sembravano brillare del biondo del grano che accudivano in grembo.
La tavola era grande, pronta per accogliere, con qualche accortezza, anche una ventina di persone.
In quel momento però, dei venti posti solo cinque erano occupati.
Davide e Leonardo erano andati a scuola insieme al liceo, non erano stati migliori amici, ma non si erano neanche odiati e come conseguenza, a distanza di qualche anno, rimaneva tra loro quella strana complicità tipica di chi ha affrontato per anni le stesse prove, le stesse fatiche, di chi si è abituato a sacrificarsi per gli altri e a fidarsi del fatto che qualcuno si sarebbe sacrificato per lui.
La memoria delle interrogazioni scampate grazie alla spavalda sicurezza di Leonardo non abitava più la mente di Davide, ma certe cose mettono radici in posti che la memoria fa fatica a raggiungere.
Vanessa, Sara e Francesca erano un’altra storia. Amiche di amici, compagne di facoltà o di paese; in qualche modo si erano ritrovati tutti parte della stessa compagnia, e ora, tutti in quella casa di campagna isolata da molti kilometri di colline, di grano e vigneti.
La tavola decorata di stoviglie sporche sembrava adagiarsi su sé stessa, stremata dalla lunga prova sostenuta, e, assecondandola, anche i cinque ragazzi si stiracchiavano nelle loro sedie di vimini in quello stato di sonno fisico e completa attenzione mentale che colpisce alla fine di una bella giornata.
«Non credevo sapessi cucinare così bene, Vane» disse Davide alzando le braccia verso il soffitto di legno e pietra del portico. Alla loro destra un vecchio gelsomino si arrampicava su per la parete e lasciava cadere i suoi fiori profumati sulle piastrelle di terracotta.
«Merito del libro di ricette della Nonna. Era una gran donna sapete, lei e il marito hanno costruito tutto questo, la leggenda dice che l’abbiano fatto da soli e a mano. È una bella storia a cui credere…»
Tutti tranne Sara tenevano in mano un bicchiere di rosso, il vino aiutava la conversazione e donava quell’atmosfera intellettuale che è sempre piacevole avere quando si è lontani dal mondo, chiusi ai lati da campi infiniti e in alto dal cielo nero e profondo punteggiato di quelle stelle che i nostri occhi hanno dimenticato.
Sara era momentaneamente astemia, non per scelta ma per medicina: era incinta.
Lei e Massimo si erano conosciuti un paio d’anni prima partecipando allo stesso corso della Croce Rossa, non ci avevano messo molto a innamorarsi e una volta fatto in ancora meno tempo avevano deciso di dedicare la loro vita alla famiglia, la loro famiglia, e questo comportava anche un bambino, una bambina per precisione.
«Sicura di non voler continuare la tua carriera? Crearsi una famiglia così presto ti rallenterà e basta…» Massimo la guardava con quello sguardo indagatore degli amanti e dei cari, di quelli che vogliono capirti l’animo e ti fanno parlare per capire se i tuoi gesti e le tue parole combaciano; se sei convinto, se sei sincero.
« Ci ho pensato, potrei continuare gli studi, magari entrare nella ricerca e andare all’estero…»
Le cellule pacemaker di Massimo si erano prese appena un attimo di pausa, appena abbastanza per fargli sentire la forza del successivo battito cardiaco come se gli avessero sostituito il cuore con un guantone da Boxe.
«Ma la prima cosa che mi viene in mente appena immagino la scena è il tempo che dovrei spendere in viaggio per tornare e le possibilità che avrei di sistemarmi e poter creare la nostra famiglia. »
«Ho scelto di trovare la mia felicità in noi, e sono sicura che sia la scelta giusta. »
Sorrideva.
Era sincera, e Massimo si riprese dall’aritmia e l’abbracciò. Si facevano entrambi prendere dall’estro poetico quando parlavano del futuro e della loro vita, ad un occhio esterno sarebbe quasi potuta sembrare l’influenza di film e romanzi d’amore di quarta categoria, in realtà quel linguaggio era l’unico che conoscevano per poter parlare di cose grandi e imprevedibili come la loro vita.
I tecnicismi e la terminologia specifica della Medicina erano più adatti alla vita presente, la Poesia era il mezzo della previsione.
« Quando volete farlo nascere? » Francesca aveva appena posato il bicchiere e se ne stava versando un altro mezzo, giusto per non rimanere a bocca asciutta.
« Lasceremo che decida da solo, se è abbastanza grande per calciare l’utero di sua madre lo è anche per decidere il giorno del suo compleanno »
Erano un gruppo eterogeneo di due medici, una futura libraia, una fotografa, un giornalista, la caratteristica più ovvia che li accomunava era però lo scherzo, l’accordo mai scritto o detto di avere la completa libertà di ridere e far ridere riguardo a qualunque cosa, come un circolo di sacerdoti della risata pronti a mettere da parte convinzioni personali e ideologie di fronte ad al riso.
Bambini in dirittura d’arrivo non erano un’eccezione.
«Davvero non pensi sia troppo presto? » disse Davide.
«Forse. Ma non voglio fare solo la madre. Sono un medico, voglio curare le persone, e sono anche una donna che vuole una famiglia. Non mi sto sacrificando per avere una famiglia, sto creando una famiglia per non sacrificarmi. »
Il vino aiutava a far scorrere la conversazione, come se tutto potesse essere gettato nel flusso con la sicurezza che la corrente, prima o poi, lo avrebbe comunque fatto rotolare a valle senza ostruire il letto.
Con lo sviluppo della sera il cielo si era schiarito e l’aria si era fatta più fresca e pura. Un lieve vento s’infilava ogni tanto tra le braccia e le costole dei cinque pellegrini sfiorandoli con una piuma affilata; portava con se uno sciame di minuscoli folletti con zanne e artigli d’acqua ghiacciata, gocce di brina serale che evaporavano sulle camicie e i pantaloni e la pelle, e rinfrescavano ogni cosa.
Spaventato dai folletti anche il breve silenzio era scappato e una comune di cicale aveva, col timore di un branco di leoni di fronte ad una mandria di antilopi piegate ad abbeverarsi, iniziato a piangere e a disperarsi con quei loro suoni senza fine e senza inizio, che sembrano diffondersi nell’aria come nel tempo; non iniziano e non finiscono, sono un’alterazione propria dell’aria, una distorsione del mondo che si propaga come su fili tesi e vibra, e vibra, finché non ti accorgi che è sparita, e allora, non prima, svanisce. Quando sia iniziata non ricordi, non è mai iniziata, ti sei solo accorto della sua presenza e poi l’hai dimenticata, e poi ricordata ancora quando ha smesso di esserci, o forse ha smesso di esserci perché l’hai ricordata.
« Sto scrivendo una storia su un pescatore… »Leonardo era il giornalista del gruppo, uno di quegli studenti di liceo scientifico che alla fine di un lustro di finta scienza finiscono, annoiati da una frustrazione di anni, per rifugiarsi in quanto di meno certo e generalizzabile vi sia: le storie personali, le vite dei singoli.
« È assurdo, siamo nel ventunesimo secolo e quest’uomo vive ancora per la maggior parte della sua vita su una palafitta improvvisata, si sveglia col sorgere del Sole e sfida il fiume per tornare a casa con un paio di trote.Ormai non vende neanche più nulla, non avrebbe neanche senso, lo fa perché è l’unica cosa che gli rimane da fare. Ha vissuto tutta la vita sul fiume e per il fiume. Lui in quelle acque ci ha passato tutta la vita: sulle sponde lui e sua moglie hanno concepito la loro bambina, in quelle acque ha perso due dita, e trovato una ragione per andare avanti quando anche i campanili delle chiese e le scuole venivano bombardate… »
Ognuno traeva dalle storie di Leonardo quello che poteva, e voleva. Sara si era soffermata più del dovuto sulle appendici mancanti e sui dettagli della cicatrizzazione; Francesca, la fotografa, stava fantasticando sulla luce e sulla perfetta immagine dell’uomo in comunione con l’acqua, vedeva già il diaframma leggermente chiuso far passare la luce riflessa dalle onde e tra i miliardi di fotoni un volto stanco che si confonde quasi con le radici e i rami dei grandi alberi alle sue spalle. Leonardo cercava storie da raccontare, Francesca trovava il modo di raccontarle senza sprecare neanche una parola, perché le immagini valgono sì mille parole, ma basta una parola per distruggere un’immagine e il fotografo deve scremarle una ad una fino a rimanere solo con la luce, lui e un raggio di puro elettromagnetismo, solo con l’onda del suo racconto, la luce del suo ritratto.
Vanessa si concentrava più sull’uomo in sé.
« E moglie e figlia? Non dirmi che vivono tutti in una casa di legno e muffa ancorata al fiume solo perché le leggi della fisica hanno chiuso un paio d’occhi… »
«La figlia è partita, vive in città a quanto pare, fa l’avvocato. La moglie è morta da tempo, era malata di Alzheimer e negli ultimi anni non era nemmeno più in grado di riconoscerlo… lui non ce l’ha fatta e ha smesso di andare a trovarla, è andato a cercarla nel fiume dove si erano innamorati. Quando è morta il suo medico è dovuto scendere al fiume e aspettare che tornasse per comunicarglielo. »
« Era un buon medico. » disse Sara.
« Siamo in tanti a fare questa professione e dopo dieci anni di studi, anche avendo in mente l’intera struttura tridimensionale di un corpo umano, la maggior parte di noi fallisce nel considerare la persona. Su decine di esami non c’è nulla che ci insegni a consolare o a dimostrarci fragili o gentili, sappiamo cosa fare quando dobbiamo tastare, prescrivere, incidere, ma chiedere scusa è più difficile. »
All’angolo opposto della tavola rispetto a Sara, Davide si grattava la testa con una mano senza guardare gli altri.
« Avete mai pensato di scriverci un libro? » la libraia che abitava tra le coste di Vanessa si era liberata.
« Noi chi? » chiesero un po’ tutti.
« Voi. Due medici, una fotografa e un giornalista. Voi lo scrivete e io lo vendo. Un libro pieno di figure, fotografie pardon, medici nei momenti di sofferenza, un racconto del dolore di chi il dolore lo allevia per mestiere. »
Ci fu un breve giro di sguardi.
Vanessa si massaggiò le tempie con le palme delle mani.
«Scusate, colpa del vino. »
«Vino e future libraie, un’accoppiata da incubo. »
Qualcuno sorrise. Poi sorrisero tutti.
Quando la Luna si fu finalmente liberata dai fogli di nuvole e i folletti si fecero più numerosi, più pronti nella loro semina di brividi e tremolii; quando le cicale vennero finalmente ricordate e svanirono da tutte le menti, la tavola era ormai sgombra.
Gli ultimi rumori di passi nudi su una scala di ferro freddo si diffondevano tra i vigneti e su per la collina, tra le spighe e i fili di paglia bionda. Una porta rossa in cima alla scala a chiocciola veniva chiusa e tutto si chiuse su sé stesso, anche la Luna appena scampata alla propria prigionia si spense, e dentro la casa solo due lucciole gemelle, forse amanti, ronzavano e accendevano le loro lampadine danzandosi attorno e sbattendo ogni tanto contro una parete o un piede non coperto da un lenzuolo.
Il primo “Buonanotte” ne chiamò a cascata altri quattro, e in una pancia un bimbo salutò con un calcio. 
  
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