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Autore: Tsuuki    21/05/2015    0 recensioni
La vita che persiste in una cosa morta. Solo le cose false e artificiali hanno diritto a sorridere?
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autunno, era un giorno d’autunno. L’aria smossa da un leggero  vento freddo, il quale  annunciava la stagione della neve; esso orchestrava leggero con i suoi spifferi e folate, era una sinfonia ineguagliabile dolce e allo stesso tempo triste che rompeva quel tetro silenzio che pesava in quel luogo. Su di esso danzavano leggere le foglie oramai fredde e senza vita ma, tuttavia, tinte di caldo che spiccavano in quel grigio cupo di quella piazza, che era attraversata da muti, forse anche sordi, e ciechi passanti che non prestavano attenzione a quello che, di meraviglioso, accadeva. Quelle losche figure, a testa bassa con gli occhi puntati alla punta dei piedi con passi misurati piccoli e veloci, ai bordi della strada rimanevano  in disparte, emarginati dal mondo, chiusi nella loro triste serietà, di loro non c’era nient’altro che un contenitore, di carne e ossa, vuoto, privo di ogni cosa che rende veramente vivi.
Al centro di quella cupa piazza una statua si erigeva alla memoria di una bambina, che sorridente tendeva le mani verso un piccolo usignolo che si approccia a spiccare il volo, una volta di un lucente marmo bianco ora solo un foglio di carta per i vandali, sconsacrata e umiliata da scritti volgari, cattive e umane. Quella statua che simboleggiava la felicità ora solo un pezzo di pietra lurido e dimenticato da tutti.
Sotto quella statua spiccava una nota di colore che aveva un forte contrasto contro quel  panorama triste. Quel colore spiccante era un ragazzino che stava ascoltando con attenzione il vento che cantava solo per lui, ammirava con la bocca aperta e gli occhi sgranati la danza di quelle foglie morte. Era li fermo, da quando nessuno lo sapeva, a nessuno importava, nessuno se lo aveva mai chiesto… nessuno lo aveva mai nemmeno notato; e ammirava quello strabiliante spettacolo ed era felice, sorrideva come quella bambina che allungava le mani per veder volare il suo piccolo usignolo , lui ,invece, vedeva danzare le foglie.
Con il sorriso sulle labbra raccolse al volo due foglie secche e le guardò da vicino, ogni singola venatura di quelle foglie,  per lui significavano speranza, ‘’la vita che persiste in una cosa morta’’. Quella tenue speranza che alleggiava in quelle foglie secche gli aprì il cuore. Se le foglie danzavano per riprendere vita, gli uomini cosa dovevano fare per vivere?  Sorridere! Ovvio, sorridere, è quello che avrebbe reso l’ umanità pervasa di vita nuova. E lui, ne sarebbe stato l’artefice. Questa era il suo sogno tutto d’un tratto. Questa era la sua ambizione.
Arrivò a casa, entrò nella cucina. La madre cucinava stufato e verdure con i capelli raccolti in una coda scompigliata, le maniche della camicetta tirate su fino ai gomiti, si asciugava il sudore con un tovagliolo e salutò sommessamente il figlio, il padre armeggiava con il giornale e bisbigliava imprecazioni sulla pagina della politica mentre torturava tra i denti una sigaretta quasi al termine, la nonna guardava malinconica il vuoto fuori la finestra con le mani giunte sul grembo  e spiccava il suo anello, che era più un ricordo che un  gioiello, era li sul quel solito anulare  sinistro magro e rigido.
Lui squadrò bene ogni membro della famiglia che era li riunito. Richiamò la loro attenzione, tutti che alzarono la testa su di lui, ma non lo guardavano neanche, ma a lui non importava, sapeva che quello che stava per fare di magico avrebbe risolto tutto. Tutti che lo fissavano e con un tremolio  di emozione alle dita, inizio a impiastricciarsi le dita e il volto con i trucchi della madre, che lo guardava spazientita. Con il rossetto si disegno un largo sorriso, e intorno agli occhi mise un coloro azzurrognolo tutto sbavato e malridotto, il padre lo guardava infastidito, la nonna sorrise e la madre si approcciava a ripulirlo quando lui prese delle mele, enunciò strane parole come una formula magica, era concentrato a far riuscire bene quella magia, riuscì a fare volare in aria un paio di volte, poi gli scivolarono in testa non si fece male, ma si massaggiò imbarazzato la testa, tutti che lo guardavano divertiti dalla sua goffaggine.
Ci era riuscito! Era riuscito a farli ridere, a renderli vivi ancora una volta. Si avvicinò alla madre che con un largo sorriso sul volto gli sistemò con amore la giacca, poi la nonna lo chiamò a se e lo strinse forte, sorridendo e con quel gesto, per solo un attimo, ma era più che sufficiente, le per quell’unico attimo dimenticò  la sua solitudine, il padre spense la sigaretta e gli accarezzò dolcemente la testa in silenzio come suo solito, ma  il bambino era più felice che mai, la sua magia aveva funzionato, loro erano felici e il suo sogno si poteva avverare. Da quel giorno il bambino si impegnò sempre di più per far sorridere la sua famiglia, poi i suoi vicini, i suoi compagni di scuola, i passanti nella piazza, ormai non più grigia e smorta, ma pervasa di vita e colori. Passarono i giorni, i mesi e gli anni e lui crebbe così, facendo ridere gli altri… gli altri ridevano fuori e lui piangeva dentro, loro si riempivano della sua voglia di vivere e lui ne veniva svuotato… ma lui non se ne accorse, lui si accorse solo che dopo tutti i suoi sforzi loro ridevano per ritornare tristi e seri, loro lo consumavano per niente, e crescendo lui, crebbe la loro avidità di vita, costringendolo, inconsciamente, a svuotarsi. Ogni giorno che passava il bambino che era in lui, la sua voglia di vivere e di vedere il mondo a colori, moriva e l’adulto serio e grigio prendeva forma, il contenitore di carne e ossa iniziava a svuotarsi, i colori sbiadivano e la magia scemava, il vento smetteva di cantare, le foglie di danzare, gli uomini di ridere, e ogni suo sforzo andava perso, ogni risata che aveva regalato loro era oramai dimenticata. Ma lui, non volle tradire il bambino ormai morto che era stato e continuò, con i colori si dipinse la faccia, per sembrare ancora vivo, si tirò su gli zigomi e si sforzò di sorridere per contagiare gli altri, ma più il tempo passava più era difficile, più gli uomini pretendevano cose che non poteva… e quella maschera ormai fusa con il suo volto iniziò a diventare il suo volto, una semplice maschera sorridente, finta, artificiale, inumana ma sorridente... dentro egli moriva e fuori la sua maschera sorrideva nascondendo tutto. Gli altri lo invidiavano per il suo sorriso perenne volevano essere come lui… ma a loro in realtà non bastava, o magari nemmeno importava, dato che quando ne avevano la possibilità se la sono sempre fatta scappare. Non disse mai a nessuno della sua maschera, nessuno gli è lo aveva mai chiesto, se era vero o meno, e lui tacque.
Così, privo ormai della sua vita, si arrese. Andò un ultima volta nella piazza dove ancora c’era la statua della bambina sorridente , la guardò attentamente e pensò ‘solo le cose false, artificiali possono essere felici…che ironia, ciò che creiamo è felice e “viva” e noi tristi e “morti”…’ gli scappò un sorriso di disprezzo ‘siamo capaci di creare la felicità e possiamo averla, eppure quando c’è la sbattono in faccia c’è la lasciamo fuggire.  Ci lamentiamo, ci struggiamo perché non abbiamo mai ciò che desideriamo, eppure tutto quello di cui abbiamo bisogno è sempre sotto mano e noi la tocchiamo, la sfruttiamo fino all’ultimo e la buttiamo e ne vogliamo di più, sempre di più. Ci lasciamo pervadere dall’invidia ,gelosia, avarizia e avidità. Ne desideriamo più di quanto c’è ne serve, e siamo così scontenti di non averne in abbondanza che ignoriamo quel che ci viene dato. Esprimiamo quel  che pretendiamo sulle cose morte, per sentirci realizzati, per percepirlo, e invece no. Ci scivola addosso come cose estranee, forse noi non siamo stati creati per essere felici ma solo per soffrire.
Eppure, da bambino lo ero, non voglio credere che… che la vita finisca nel momento in cui dovrebbe incominciare.’ L’ormai adulto ragazzino si afflosciò sul pavimento della piazza e restò li con la testa tra le mani a rimuginare la sua infanzia ormai perduta, la sua gioia dimenticata. Pianse. Pianse per la prima volta, non lo aveva mai fatto. Lasciò che la sua maschera si sciogliesse sotto le lacrime, lasciò che il vento gelido gli pungesse il viso. ‘bestie senza nessun diritto siamo!’ urlò nella sua testa. La disperazione prese il sopravvento si lasciò trascinare in un vortice infinito di ricordi pieni di disprezzo, odio, disdegno  rabbia, dolore, sofferenza, angoscia, disprezzo, strazio, tormento, impotenza,  paura, terrore, rassegnazione, depressione, malinconia, sconforto, angoscia disgusto, ripugnanza, ribrezzo, repulsione verso il genere umano. Tutto questo gli affollò la mente. Un caos che struggeva ogni cosa a portata di mano. Egli impazzì. La sua mente iniziò a pensare ad una sola cosa. Era fuori di testa, ormai, voleva dare fine alla sofferenza dell’uomo e alla gioia della falsità. Aveva un solo modo, una sola parola una sola soluzione “distruzione"
   
 
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